GLI SCONTRI DELL'ARTEMISIO


Seconda parte


     

77) E non posso negare agli oracoli di essere veritieri, rinuncio a cercare di screditarli, quando si esprimono a chiare lettere, se guardo a fatti come i seguenti:…”Ma quando i Barbari un argine avranno disteso di navi, Lungo la costa ad Artemide sacra e lunghesso la spiaggia Di Cinosura, con folle speranza, distrutta la splendida Atene: Estinguerà poi Giustizia  Insolenza, ch’è figlia di Orgoglio, Nell’avventarsi tremenda, e che tutto inghiottire presume. Bronzo cozzar contro bronzo vedrassi, e di porpora il mare Tinto per opera d’Ares. Allora Vittoria e il Cronide Onniveggente dell’Ellade la libertà recheranno”… (Ma quando con un ponte di navi uniranno la sacra costa di Artemide dalla spada d'oro e Cinosura marina con folle speranza dopo aver saccheggiato la splendida Atene, la divina Giustizia spegnerà il violento Coros, figlio di Ibris, che smania tremendo, determinato ad attaccare dappertutto. Bronzo si scontrerà con bronzo, Ares renderà il mare rosso di sangue. Il giorno della libertà della Grecia sarà questo, lo porteranno il Cronide altitonante e la venerabile Vittoria). Quando Bacide pronuncia parole come queste e così chiare, non oso avanzare obiezioni sulla contraddittorietà degli oracoli e non ne accetto da altri.

78) Gli strateghi presenti a Salamina continuavano a litigare in modo acceso. Non sapevano ancora che i barbari li stavano accerchiando con le navi, erano convinti che fossero rimasti là dove li avevano visti schierati di giorno.

79) Mentre gli strateghi erano riuniti, giunse da Egina Aristide figlio di Lisimaco, Ateniese, che era stato ostracizzato dal popolo, l'uomo che, dopo indagini sulla sua natura, ritengo sia stato il più nobile e giusto di Atene. Si fermò davanti alla sala del consiglio e fece chiamare fuori Temistocle, che non gli era amico, anzi, nemico in tutto e per tutto; ma, data la gravità del momento, dimenticando l'inimicizia, fece chiamare fuori Temistocle, intenzionato a parlargli. In precedenza aveva sentito dire che i Peloponnesiaci premevano per condurre le navi di fronte all'Istmo. Uscito che fu Temistocle, Aristide gli disse: "Se l'abbiamo fatto in altre circostanze, a maggior ragione in questa dobbiamo competere per vedere chi di noi due beneficherà maggiormente la patria. Ti comunico che per i Peloponnesiaci è assolutamente lo stesso discutere tanto o poco sulla ritirata da qui. E te lo comunico perché ho visto coi miei occhi che adesso, neppure se lo vogliono, i Corinzi ed Euribiade saranno in grado di uscire di qui con le loro navi; siamo accerchiati dai nemici. Rientra pure a dirglielo".

80) Ed ecco come gli rispose Temistocle: "Consiglio assai utile e magnifiche notizie: sei arrivato qui dopo aver visto coi tuoi occhi quanto io pregavo che accadesse. Ti informo infatti che la manovra dei Medi è dovuta a me. Giacché i Greci non intendevano scatenare volontariamente la battaglia, era necessario costringerli loro malgrado. Ma, visto che sei arrivato con una buona notizia, riferiscila tu di persona ai Greci. Se la comunico io, sembrerà che me la inventi e non li convincerò che i barbari ci accerchiano davvero; va' da loro e spiegagliela tu la situazione. Se gliela spieghi e ci credono, bene così; se invece non si fidano, per noi sarà lo stesso; tanto, non scapperanno più, se davvero siamo completamente circondati come affermi".

81) E questo disse Aristide una volta entrato, dichiarando di essere giunto da Egina e di essere passato eludendo la sorveglianza dei nemici che attuavano il blocco, perché la flotta greca era tutta circondata dalle navi di Serse; e suggeriva di tenersi pronti a sostenere un attacco. Detto questo, si allontanò; fra gli altri scoppiò di nuovo una violenta discussione; la maggioranza degli strateghi non credeva alla notizia.

82) E ancora non ci credevano quando sopraggiunse una trireme di disertori Teni, al comando di Panezio figlio di Sosimene; essi riferirono come stavano davvero le cose. Per questo fatto il nome dei Teni fu poi inciso a Delfi sul tripode fra quelli dei Greci che avevano trionfato sul barbaro. Con l'arrivo a Salamina di questa nave di disertori e con quella di Lemno che aveva già disertato all'Artemisio la flotta greca raggiunse la cifra tonda di 380 navi; due, infatti, gliene mancavano allora per completare il numero.

83) I Greci credettero alle asserzioni dei Teni e si prepararono alla battaglia navale. Spuntava la luce dell'aurora quando essi radunarono gli epibati: per conto di tutti gli strateghi Temistocle pronunciò un discorso eccellente: le sue parole furono tutte un confronto tra il meglio e il peggio insiti nella natura e nella condizione di un essere umano. Dopo aver terminato il discorso con una esortazione a scegliere il meglio, diede l'ordine di imbarco. Stavano salendo sulle navi, quando giunse la trireme proveniente da Egina che era stata mandata a prendere gli Eacidi.

84) Allora i Greci mossero tutte le navi, e subito, mentre prendevano il largo, i barbari gli furono addosso. Mentre gli altri Greci retrocedevano, di poppa, verso la riva, Aminia di Pallene, Ateniese, spintosi avanti, attaccò uno scafo nemico; poiché la sua nave si incastrò e non riuscivano più a tirarsi via, allora gli altri Greci accorsero in aiuto di Aminia e si scontrarono col nemico. Gli Ateniesi raccontano così l'inizio della battaglia; gli Egineti dal canto loro sostengono che a cominciare fu la nave a suo tempo inviata a prendere gli Eacidi. E si narra anche questo, che apparve un fantasma di donna: apparso, li avrebbe spronati a combattere, con voce tale da farsi udire da tutto l'esercito greco, non senza prima averli rimproverati così: "Sciagurati, e per quanto ancora remerete all'indietro?".

85) Di fronte agli Ateniesi erano schierati i Fenici, che occupavano l'ala verso Eleusi e occidente; di fronte agli Spartani gli Ioni, disposti sull'ala verso oriente e il Pireo. Pochi fra gli Ioni si comportarono volutamente da vigliacchi, la maggioranza non obbedì all'invito di Temistocle alla diserzione. Sarei in grado di riportare i nomi di parecchi trierarchi che si impadronirono di navi greche, ma non li citerò, tranne quelli di Teomestore, figlio di Androdamante, e di Filaco, figlio di Istieo, entrambi di Samo. La ragione per cui menziono questi due soli è che Teomestore per le sue imprese fu insediato dai Persiani tiranno di Samo; e Filaco fu registrato pubblicamente fra i benefattori del re e ricevette in dono non poche terre. In lingua persiana i benefattori del re sono detti orosangi. Così fu di costoro.

86) La massa delle navi andò distrutta a Salamina, messa fuori combattimento dagli Ateniesi o dagli Egineti. Siccome i Greci combattevano con ordine e rispettando lo schieramento, i barbari, che non si erano tenuti in linea e non facevano nulla di sensato, dovevano per forza finire come finirono. Eppure erano e si rivelarono quel giorno assai più validi che all'Eubea, tutti pieni di ardore e timorosi di Serse: ognuno si sentiva addosso lo sguardo del re.

87) Degli altri barbari e Greci non saprei dire esattamente come si batterono, ma ad Artemisia accadde quanto segue, e la fece crescere ulteriormente nella stima del re. Quando ormai le forze del re erano in preda a una terribile confusione, la nave di Artemisia si trovò braccata da una nave attica; non poteva più sfuggire (davanti aveva altre navi amiche, la sua era la più vicina a quelle nemiche) ed ecco cosa decise di fare, e riuscì nel suo intento: inseguita dalla nave attica, speronò una nave amica di gente di Calinda, sulla quale era imbarcato il re dei Calindi in persona, Damasitimo. Non so dire davvero se avesse qualche conto in sospeso con lui, di quando stavano ancora all'Ellesponto, e se fece quel che fece con premeditazione o se la nave di Calinda si trovò per caso in rotta di collisione. Dopo averla speronata e affondata, ebbe la fortuna di trarne due vantaggi: il trierarca della nave attica, vedendola assalire una nave barbara, credette che la nave di Artemisia fosse greca oppure che stesse cambiando bandiera e passando a difendere i Greci; perciò virò di bordo e attaccò altre navi.

88) Da una parte le riuscì così di scampare e di evitare la morte; dall'altra le toccò di veder crescere la sua stima presso Serse, pur avendo combinato un disastro e anzi proprio per questo. Pare infatti che il re, che stava osservando, si accorgesse della manovra di speronamento, e quando uno dei presenti esclamò: "Signore, guarda Artemisia come si batte bene! Ha affondato una nave nemica!", lui chiese se davvero quell'impresa era opera di Artemisia; e gli altri glielo confermarono, ben conoscendo l'insegna della nave: lo scafo distrutto fu creduto nemico. Fra l'altro, a quanto si narra, le andò anche bene che nessuno della nave di Calinda abbia potuto salvarsi per accusarla. Pare che Serse abbia allora così commentato l'informazione ricevuta: "Gli uomini mi sono diventati donne, e le donne uomini". Questa fu la frase pronunciata da Serse.

89) In questa dura battaglia cadde lo stratego Ariabigne figlio di Dario e fratello di Serse, e perirono molti altri illustri Persiani, Medi e alleati; e anche alcuni Greci, ma pochi; sapevano nuotare infatti e quando le loro navi venivano affondate, se non morivano nella mischia, si salvavano a nuoto a Salamina; invece la gran parte dei barbari morì in mare perché non sapeva nuotare. Fu quando le navi della prima fila si volsero in fuga che ne andarono distrutte di più: infatti quelli schierati dietro, sforzandosi di passare davanti coi loro scafi per segnalarsi agli occhi del re con qualche bel gesto, cozzavano con le proprie contro le navi in ritirata.

90) In mezzo alla confusione accadde anche questo: alcuni Fenici che avevano perso le navi si recarono dal re e accusarono gli Ioni di tradimento, sostenendo di aver perso le navi per colpa loro. Ma il caso volle che gli Ioni non cadessero in disgrazia e che ai Fenici accusatori toccasse la ricompensa che segue. Mentre essi ancora sostenevano le loro ragioni, una nave di Samotracia speronò un vascello attico. La nave attica affondava, quando sopraggiunse all'attacco una nave di Egina, che affondò quella dei Samotraci; ma i Samotraci erano lanciatori di giavellotto: scagliandoli spazzarono via dalla tolda l'equipaggio della nave che li aveva affondati, si gettarono all'arrembaggio e la conquistarono. Questo episodio salvò gli Ioni, perché Serse, vedendo che avevano compiuto un'impresa straordinaria, si rivolse ai Fenici irritato oltre misura, se la prese con loro e ordinò di tagliare la testa a tutti: non avrebbero più calunniato chi era più valoroso di loro dopo essersi comportati da vigliacchi. Serse sedeva alle falde del monte che fronteggia Salamina e che si chiama Egaleo; ogni volta che vedeva qualcuno dei suoi compiere in questa battaglia qualche bella impresa, chiedeva chi fosse, e gli scrivani registravano il nome del trierarca col patronimico e la città di appartenenza. Alla disgrazia dei Fenici contribuì anche la presenza di Ariaramne, un Persiano amico degli Ioni. Alcuni dunque si presero cura dei Fenici.

91) Intanto i barbari, messi in fuga, si defilarono in direzione del Falero e gli Egineti, appostati nello stretto, compirono imprese memorabili. Gli Ateniesi speronavano nella mischia le navi che li affrontavano o che tentavano di sottrarsi allo scontro, gli Egineti quelle che si allontanavano dalla lotta: quando una nave sfuggiva agli Ateniesi, andava a cadere fra le grinfie degli Egineti.

92) Fu allora che si incrociarono la nave di Temistocle, impegnata in un inseguimento, e quella di Policrito figlio di Crio, Egineta, che aveva appena speronato una nave di Sidone, la stessa che aveva catturato la vedetta egineta a Sciato e sulla quale si trovava Pitea figlio di Ischenoo, che i Persiani, ammirati dal suo valore, trattenevano a bordo benché coperto di ferite. Insomma, questa nave di Sidone che lo trasportava fu catturata assieme ai Persiani, sicché Pitea poté tornare salvo a Egina. Policrito, come vide la nave attica, riconobbe al primo sguardo le insegne della ammiraglia: allora si mise a gridare, schernendo Temistocle, rinfacciandogli l'accusa di filomedismo lanciata agli Egineti; questo gridò Policrito a Temistocle mentre speronava una nave. I barbari le cui navi si salvarono con la fuga ripararono al Falero sotto la protezione dell'esercito di terra.

93) In questa battaglia navale a meritare gli elogi migliori fra i Greci furono gli Egineti, e poi gli Ateniesi; individualmente Policrito di Egina e gli Ateniesi Eumene di Anagirunte e Aminia di Pallene, che aveva dato la caccia ad Artemisia. Se avesse saputo che su quella nave viaggiava Artemisia non avrebbe desistito prima di catturarla o di essere lui catturato. I trierarchi ateniesi avevano ricevuto ordini in tal senso e inoltre era stata fissata una taglia di diecimila dracme per chi l'avesse presa viva: reputavano intollerabile, infatti, che una donna combattesse contro Atene. Lei, comunque, come già s'è detto, se la cavò. E anche gli altri le cui navi si erano salvate si trovarono al Falero.

94) Raccontano gli Ateniesi che lo stratego di Corinto Adimanto, sùbito, fin dall'inizio, al primo scontro delle navi, sbigottito e spaventato, alzò le vele e si dileguò in fuga; e che i Corinzi, vedendo fuggire la nave ammiraglia, si dileguarono parimenti. Ma quando nella loro fuga giunsero all'altezza del tempio di Atena Scirade, in Salamina, li incrociò una imbarcazione inviata da un dio (non risultò che l'avesse inviata qualcuno); essa si accostò ai Corinzi, che non avevano idea di quanto stava accadendo alla flotta. Ed ecco perché suppongono che il fatto avesse del divino: quando furono vicini alle navi, quelli del vascello dissero: "Adimanto, hai virato di bordo e ti sei dato alla fuga, tradendo i Greci; ma loro stanno proprio vincendo, tanto quanto si auguravano di trionfare sui nemici". Siccome Adimanto non ci credeva, aggiunsero ancora che erano disposti a farsi portare via come ostaggi e a venir uccisi se i Greci non risultavano vincitori. A quel punto, invertita la rotta, Adimanto e gli altri avrebbero raggiunto la flotta, ma ormai a cose fatte. Di questa storiella sui Corinzi, così raccontata, sono autori gli Ateniesi; ovviamente i Corinzi non sono d'accordo e si autovalutano fra i principali eroi della battaglia; il resto del mondo greco conferma.

95) Quanto ad Aristide, figlio di Lisimaco, Ateniese, di cui già poco sopra ho ricordato la nobile figura, ecco cosa fece costui nel pandemonio scoppiato a Salamina. Prese con sé diversi opliti che erano stati dislocati lungo la costa di Salamina, tutti di nascita ateniese, e sbarcò con loro a Psittalia; massacrarono tutti i Persiani che si trovavano su questa isoletta.

96) Alla fine della battaglia i Greci, tratti a riva a Salamina tutti i rottami che si trovavano ancora lì vicino, erano pronti a un secondo scontro: si aspettavano che il re utilizzasse ancora le navi rimastegli. Molti dei relitti furono spinti e trascinati dal vento di Zefiro in Attica, sulla spiaggia detta di Coliade, cosicché oltre ai vari responsi emessi da Bacide e Museo circa la battaglia navale, si avverò anche la profezia riguardante questi rottami, pronunciata molti anni prima, in oracolo, dall'indovino ateniese Lisistrato, e che era sfuggita a tutti i Greci: Le donne di Coliade bruceranno remi per tostare. Il che doveva accadere dopo la ritirata del re.

97) Serse, come si rese conto della sconfitta patita, temendo che i Greci, dietro suggerimento degli Ioni o per propria iniziativa, si portassero sull'Ellesponto per manomettere i ponti, e temendo quindi, una volta bloccato in Europa, di rischiarvi una brutta fine, meditava la ritirata. Non volendo però rivelare il suo pensiero né ai Greci né ai suoi, tentava di raggiungere Salamina con opere di interramento e fece legare assieme battelli fenici che fungessero da pontile e da muro di protezione; si organizzava militarmente come per scatenare una seconda battaglia di navi. Tutti gli altri, vedendolo impegnato in questi preparativi, erano ben convinti che si apprestasse decisamente a restare e a combattere; a Mardonio però non sfuggì nulla, perché aveva una notevole dimestichezza col modo di pensare del re. Così agiva Serse e intanto mandava in Persia un messaggero a portare notizie sulla situazione del momento.

98) Fra i mortali non esiste nulla che sia più veloce di questi messaggeri; ecco cos'hanno inventato i Persiani. Dicono che quanti sono i giorni di viaggio dell'intero percorso, altrettanti cavalli e uomini sono stati distribuiti, un cavallo e un uomo per ogni giorno di distanza; non c'è neve, pioggia, calura o tenebra notturna che impedisca loro di divorare nel tempo più breve il tratto fissato. Al termine della sua corsa il primo affida il mandato al secondo, il secondo al terzo, e così si procede, dall'uno all'altro, proprio come si svolge fra i Greci la corsa delle fiaccole quando festeggiano Efesto. I Persiani chiamano angareion questa staffetta di cavalli.

99) Ebbene, la prima notizia giunta a Susa, che Serse occupava Atene, rallegrò a tal punto i Persiani rimasti in patria che cosparsero di mirto tutte le strade, e bruciavano profumi e si abbandonavano a danze e festeggiamenti; la seconda notizia, al suo arrivo, rovesciò l'atmosfera: tutti si stracciarono le vesti e levarono grida e lamenti senza fine, chiamando in causa Mardonio. I Persiani si comportavano così non tanto per il dolore della sorte toccata alle navi, quanto per l'ansia nei confronti di Serse.

100) Queste furono le reazioni dei Persiani nel frattempo, finché il ritorno di Serse non vi pose fine. Mardonio, vedendo Serse assai afflitto per l'esito della battaglia navale, immaginò che meditasse di fuggire da Atene e pensò che sarebbe stato punito per aver convinto Serse a muovere guerra alla Grecia e che per lui era meglio tentare la sorte: o di sottomettere la Grecia o di dare un bella fine alla propria vita rischiandola per grandi successi. Ma più che altro era convinto di poter abbattere la Grecia e quindi, con questa idea, si rivolse a Serse e gli disse: "Signore, non essere triste, non lasciarti affliggere così da quanto è accaduto. Decisivo non sarà per noi un confronto di legni, bensì di uomini e cavalli. Nessuno di questi che credono di avere già vinto la partita, una volta sceso dalle navi, oserà affrontarti, e nessuno di questa terra. Quanti ti hanno tenuto testa l'hanno già pagata cara. Se ti pare, attacchiamo subito il Peloponneso. Preferisci fermarti? Possiamo permetterci anche questo. Non scoraggiarti: i Greci non hanno scampo, dovranno renderti conto di quanto ci hanno fatto ora e anche prima e diventare tuoi schiavi. Così dovresti agire senz'altro, ma se hai pensato di ritirarti e di condurre via l'esercito, ho un altro piano anche per questa eventualità. Mio re, non rendere i Persiani oggetto dello scherno dei Greci. Nessun danno ti è capitato che fosse colpa dei Persiani, non sapresti dire in che circostanze ci siamo comportati da vigliacchi. Se vigliacchi sono stati i Fenici, gli Egizi, i Ciprioti, i Cilici, la nostra sconfitta non riguarda affatto i Persiani. Insomma assodato che i Persiani non hanno colpe verso di te, stammi a sentire: se hai deciso di non rimanere, tornatene pure nelle tue sedi portandoti via il grosso dell'esercito, ma io bisogna che ti consegni la Grecia in catene; fammi scegliere trecentomila soldati".

101) Udito ciò, Serse si sentì sollevato e felice, quasi ormai fuori dei guai: promise a Mardonio una risposta, dopo aver preso consiglio, sull'alternativa che avrebbe seguito. Mentre interpellava i più illustri Persiani, gli sembrò il caso di mandare a chiamare anche Artemisia, visto che prima si era rivelata l'unica a capire il da farsi. Quando Artemisia arrivò, congedati tutti i presenti, i consiglieri persiani e i dorifori, Serse così le parlò: "Mardonio mi invita a restare qui e ad attaccare il Peloponneso, sostiene che i Persiani e l'esercito di terra non sono responsabili verso di me di alcun rovescio, che anzi non vedono l'ora di dimostrarmelo. Mi invita dunque a rimanere; altrimenti vuole scegliersi trecentomila soldati e offrirmi lui stesso la Grecia in catene, mentre io, così mi esorta, potrei tornare nelle mie sedi con il resto dell'armata. Tu, che anche sulla battaglia navale ora terminata mi desti un buon consiglio, vietandomi di farla, dimmi ora, secondo te, quale delle due alternative dovrei scegliere per scegliere bene".

102) Le chiedeva dunque un parere, e lei rispose: "Sovrano, è difficile indovinare la risposta giusta a chi ti chiede un consiglio. Comunque, nelle attuali circostanze, credo che potresti tornartene in patria e lasciare qui Mardonio, se desidera e promette di fare così, con le truppe che chiede. In effetti se sottomette quel che dice di voler sottomettere e gli riesce il progetto che va meditando, l'impresa è tua, signore, giacché a compierla saranno stati i tuoi schiavi; se invece accade il contrario di ciò che pensa Mardonio, non sarà neppure una grave disgrazia, perché tu e la potenza della tua casa ne uscireste indenni; se infatti tu e la tua casa vi salvate, molti e frequenti rischi correranno i Greci per la propria sopravvivenza. Quanto a Mardonio, non c'è da preoccuparsi se va a finir male. Neppure vincendo i Greci saranno vincitori, se a morire per mano loro sarà un tuo schiavo; tu invece tornerai a casa dopo aver raggiunto l'obiettivo della tua spedizione, dopo aver dato alle fiamme Atene".

103) Serse rimase soddisfatto del consiglio: rispondendo, Artemisia aveva detto appunto ciò che lui pensava. Credo infatti, per parte mia, che non sarebbe rimasto neppure se tutti e tutte glielo avessero suggerito, tanto era impaurito. Lodò Artemisia e la incaricò di accompagnare a Efeso i suoi figli: perché lo avevano seguito alcuni suoi figli illegittimi.

104) A vegliare su quei ragazzi mandò con lei Ermotimo, originario di Pedasa, che occupava un posto di altissimo rilievo fra gli eunuchi del re. (I Pedasei risiedono sopra Alicarnasso. Nel loro paese ecco cosa succede: quando a tutti i vicini che abitano intorno a questa città sta per capitare a breve termine qualche disgrazia, cresce una lunga barba alla locale sacerdotessa di Atena. E questo è già successo due volte. Insomma, Ermotimo era originario di Pedasa).

105) Egli riuscì a trarre la vendetta più dura, per quanto mi risulti, per un torto subito. Catturato dai nemici e venduto, era stato comprato da Panionio, un uomo di Chio che si guadagnava la vita col mestiere più disgustoso: acquistava ragazzi di notevole bellezza, li castrava e li vendeva a caro prezzo a Sardi e a Efeso. Presso i barbari gli eunuchi, in quanto ispirano la massima fiducia, sono più apprezzati degli uomini dotati dei loro attributi. Molti altri ne aveva evirati Panionio, giacché campava di questo, e fra gli altri Ermotimo. Ma, non proprio sfortunato in tutto per tutto, Ermotimo era finito a Sardi nella corte del re assieme ad altri doni; e col passare del tempo era diventato il più stimato da Serse fra tutti gli eunuchi.

106) Quando il re, stando a Sardi, mise in marcia contro Atene l'esercito persiano, allora Ermotimo, sceso per qualche affare in quella zona della Misia che è abitata dai Chii, e si chiama Atarneo, vi trovò Panionio. Riconosciutolo, gli rivolse molte parole amichevoli, elencando prima tutti i vantaggi di cui godeva grazie a lui e poi promettendogli in cambio altrettanto, se si fosse trasferito con tutta la sua casa a vivere là; sicché, accettando volentieri l'invito, Panionio si trasferì con i figli e la moglie. Quando lo ebbe fra le sue mani con tutta la famiglia, Ermotimo gli disse: "Maledetto tu, che ti guadagni la vita col mestiere più disgustoso del mondo, che male ti avevo fatto io, o qualcuno dei miei antenati, a te o a qualcuno dei tuoi, perché tu mi riducessi a non essere più niente da uomo che ero? Credevi che gli dèi avrebbero ignorato quel che facevi allora? No, la loro giusta legge ha messo te, campione di nefandezze, nelle mie mani, sicché non potrai lamentarti della punizione che ti infliggerò". Quando gli ebbe rinfacciato questo, fece trascinare al suo cospetto i figli di Panionio e lo costrinse a strappare i genitali ai suoi ragazzi, che erano quattro; e lui, costretto, lo fece; quando ebbe finito, furono i suoi figli, obbligati, a castrare lui. Così la vendetta divina ed Ermotimo si rifecero su Panionio.

107) Serse, affidato ad Artemisia il compito di accompagnare i suoi figli a Efeso, chiamò Mardonio e lo esortò a scegliere chi volesse dall'esercito e a tentare di adeguare le sue imprese alle promesse. Per quel giorno altro non accadde; la notte, per ordine del re, i comandanti guidarono la flotta sulla via del ritorno dal Falero verso l'Ellesponto, veloci come ciascuno poté, per andare a presidiare i ponti in vista del passaggio del re. Quando i barbari in navigazione si trovarono nei pressi del capo Zostere, dove sottili promontori sporgono in mare dal continente, li scambiarono per navi e fuggirono a rotta di collo; più tardi, resisi conto che non erano navi ma lembi di terra, ricomposero la formazione e proseguirono il viaggio.

108) Appena fu giorno i Greci, vedendo che l'esercito di terra rimaneva nel paese, immaginarono che anche le navi fossero nei pressi del Falero e, convinti che avrebbero attaccato battaglia, si preparavano a resistere. Quando giunse notizia che le navi erano partite, immediatamente si decise di inseguirle. Diedero la caccia alla flotta di Serse fino ad Andro, senza avvistarla, quindi scesero ad Andro e tennero consiglio. Temistocle espose la sua idea: dirigere la rotta fra le isole, inseguire le navi e puntare dritti sull'Ellesponto per distruggere i ponti. Euribiade si oppose fermamente, sostenendo che se avessero distrutto i ponti, avrebbero inflitto alla Grecia il peggior colpo possibile. Il Persiano, infatti, una volta bloccato e costretto a rimanere in Europa, avrebbe studiato di non starsene inattivo, giacché nell'inattività né la sua situazione era certo in grado di migliorare, né gli si apriva una via di ritirata, e il suo esercito sarebbe morto per fame; se invece tentava qualcosa e si muoveva, non era improbabile che tutta l'Europa, città dopo città, popolo dopo popolo, si unisse a lui, o in seguito a conquista, o per accordo preventivo; e viveri ne avrebbero ricavati dai raccolti annuali dei Greci. Ma Euribiade pensava che il Persiano, sconfitto nella battaglia navale, non sarebbe rimasto in Europa; lo si lasciasse fuggire, insomma, finché fuggendo non fosse tornato a casa sua. Dal quel momento esortava i Greci a continuare la guerra per conquistarne il territorio. E anche gli strateghi degli altri Peloponnesiaci sposarono questa opinione.

109) Quando capì che non avrebbe persuaso la maggioranza a dirigersi sull'Ellesponto, Temistocle si rivolse agli Ateniesi (che erano appunto i più irritati dalla fuga dei barbari e i più impazienti di puntare sull'Ellesponto, a costo di prendersi l'impresa sulle proprie spalle, se gli altri si rifiutavano) e disse loro: "Io già mi son trovato in molti casi e ancor più ne ho sentiti menzionare, in cui uomini messi alle strette dopo una sconfitta riaccendono di colpo la lotta e riscattano lo smacco precedente. Noi che abbiamo avuto la fortuna, noi e la Grecia, di disperdere una tale nuvola di uomini, non mettiamoci a inseguire gente che fugge. Non l'abbiamo compiuta noi l'impresa, ma gli dèi e gli eroi: essi non tollerarono che un unico uomo regnasse sull'Asia e sull'Europa, un empio, un tracotante che metteva sullo stesso piano le cose sacre e le profane, incendiando e abbattendo le statue degli dèi; un uomo che ha fatto persino fustigare il mare e gli ha imposto catene! Per il momento, dunque, ci conviene restare in Grecia e occuparci di noi stessi e delle nostre famiglie: una volta scacciato definitivamente il Persiano, che ognuno ricostruisca la propria casa e attenda con cura alla semina. Con la primavera facciamo pure rotta sull'Ellesponto e sulla Ionia". Tenne questo discorso, nella prospettiva di riservarsi un cantuccio presso il Persiano, per avere una via di scampo nel caso gli Ateniesi gli giocassero qualche brutto scherzo. Cosa che poi, puntualmente, accadde.

110) Temistocle, così parlando, li abbindolava, ma gli Ateniesi si lasciarono persuadere; visto che anche prima, quando già godeva fama di uomo abile, si era dimostrato abile davvero e consigliere prezioso, erano ora senz'altro disposti a credere alle sue parole. Quando li ebbe convinti, subito dopo Temistocle mandò in missione su di una nave degli uomini di cui era sicuro che, sottoposti a qualunque tortura, avrebbero taciuto il messaggio che affidava loro per il re. Fra di loro c'era di nuovo il suo servo Sicinno. Quando giunsero in Attica gli altri rimasero sulla nave, Sicinno si recò da Serse e gli disse: "Mi ha mandato qui Temistocle figlio di Neocle, stratego degli Ateniesi, il più valoroso di tutti gli alleati, il più abile, a riferirti questo: Temistocle di Atene, desideroso di renderti un favore, ha trattenuto i Greci che volevano inseguire le tue navi e spezzare i pontili sull'Ellesponto. E ora, ritìrati pure in tutta tranquillità". Esposto il messaggio, tornarono indietro.

111) I Greci, dopo aver deciso di non inseguire più oltre le navi dei barbari e di non spingersi fino all'Ellesponto per distruggere il passaggio, si disposero all'assedio di Andro con l'idea di espugnarla. In effetti gli abitanti di Andro, primi fra gli insulari a cui Temistocle si era rivolto per ottenere del denaro, non l'avevano versato; anzi quando Temistocle aveva addotto come argomento, che gli Ateniesi erano venuti in compagnia di due divinità, la Persuasione e la Necessità, e che quindi il denaro dovevano proprio consegnarlo, avevano risposto affermando che Atene era senza dubbio grande e prospera e fornita di ottime divinità; mentre gli abitanti di Andro erano poveri di terra fino all'inverosimile e due dee calamitose non lasciavano mai l'isola, le erano affezionate, la Povertà e la Mancanza di Risorse: gli Andri, che disponevano di tali divinità, non avrebbero versato il denaro, perché mai e poi mai la potenza degli Ateniesi poteva esser più forte della loro mancanza di potenza.

112) Essi dunque, avendo così risposto e non avendo versato il denaro, subivano ora l'assedio. Temistocle, la cui avidità non si assopiva un momento, inviando messaggi minacciosi alle altre isole, richiedeva soldi, per mezzo degli stessi latori di cui si era servito nei confronti del re, facendo sapere che se non avessero sborsato quanto si richiedeva, avrebbe condotto all'attacco la flotta dei Greci e assediato e distrutto le città. Con queste dichiarazioni raccolse ingenti somme dai Caristi e dai Pari, i quali, quando appresero che Andro era sotto assedio con l'accusa di filomedismo e che Temistocle era il più prestigioso fra gli strateghi, per paura inviarono denaro. Se anche qualche altra isola lo abbia fatto non sono in grado di dirlo, ma penso che pure altri abbiano pagato e non questi soli. Eppure neanche così i Caristi ottennero di stornare da sé i guai. I Pari invece versarono un contributo che soddisfece Temistocle ed evitarono la soluzione militare. Temistocle insomma, con base da Andro, acquisiva denaro dagli isolani di nascosto dagli altri strateghi.

113) L'armata di Serse, che si era fermata per qualche giorno dopo la battaglia navale, ripartì poi per la Beozia, seguendo il percorso dell'andata. Infatti Mardonio aveva deciso di accompagnare il re, tenuto conto che quella non era la stagione ideale per combattere: era meglio svernare in Tessaglia, e poi, all'inizio della primavera, tentare la via del Peloponneso. Appena giunto in Tessaglia, Mardonio si scelse in primo luogo i diecimila Persiani detti Immortali, tranne il loro comandante Idarne che si rifiutò di abbandonare il re, poi quanti fra gli altri Persiani erano dotati di corazza, nonché i mille cavalieri; poi Medi, Saci, Battri e Indiani di fanteria e cavalleria. Queste genti se le aggregò in blocco. Fra gli altri alleati prelevò qua e là scegliendo quelli fisicamente aitanti e quanti sapeva autori di imprese pregevoli. Un popolo soprattutto si scelse, i Persiani, gente ornata di collane e braccialetti, e poi i Medi. Questi ultimi non erano per numero inferiori ai Persiani, ma erano meno forti. Sicché gli effettivi in campo, compresi i cavalieri, ammontarono a trecentomila uomini.

114) Nel frattempo, mentre Mardonio selezionava l'esercito e Serse si trovava dalle parti della Tessaglia, agli Spartani era giunto da Delfi un oracolo: dovevano chiedere a Serse soddisfazione per l'uccisione di Leonida e accettare quello che Serse avrebbe dato. Gli Spartiati inviarono al più presto un araldo, il quale, dopo aver trovato ancora tutto l'esercito in Tessaglia, si presentò a Serse e gli disse: "Re dei Medi, gli Spartani e gli Eraclidi di Sparta esigono da te riparazione per un delitto, giacché tu hai ucciso il loro re che difendeva la Grecia". Serse scoppiò a ridere; poi tacque a lungo, quindi, siccome accanto a lui c'era Mardonio, lo indicò col dito e disse: "Ecco qua Mardonio. Lui darà loro la soddisfazione che si meritano".

115) L'araldo, avuta la risposta, si allontanò. Serse, lasciato Mardonio in Tessaglia, si mise in rapida marcia verso l'Ellesponto e in quarantacinque giorni raggiunse il punto della traversata, riconducendo nulla, per così dire, della sua armata. Ovunque passavano, presso qualunque popolazione, si cibavano rapinandone il raccolto; se non trovavano alcun raccolto, mangiavano l'erba che spuntava dalla terra; agli alberi, ai domestici come ai selvatici, staccavano la corteccia e strappavano le foglie, e le divoravano, senza lasciar nulla; questo facevano per la fame. Epidemia e dissenteria colsero l'armata lungo il percorso e la decimarono. Serse lasciò indietro chi era anche ammalato, ordinando alle città per dove transitava di provvedere a curarli e nutrirli, alcuni in Tessaglia, a Siri di Peonia e in Macedonia. A Siri durante l'avanzata contro la Grecia aveva lasciato anche il sacro carro di Zeus, ma al ritorno non riuscì a riprenderlo: i Peoni lo avevano ceduto ai Traci e quando Serse lo rivolle indietro, dissero che le cavalle erano state razziate al pascolo dai Traci dell'interno, quelli che vivono intorno alle sorgenti dello Strimone.

116) Sempre in Peonia il re dei Bisalti e della Crestonia, un Trace, compì un gesto enorme; aveva dichiarato che non si sarebbe sottomesso spontaneamente a Serse e si era ritirato nell'interno, sul monte Rodope, ordinando ai figli di non partecipare alla spedizione contro la Grecia. Ma essi, o che volessero ignorare il divieto o che gli fosse venuta voglia di assistere al conflitto, si unirono al Persiano in marcia. Per tale ragione, quando tornarono tutti sani e salvi, ed erano sei, il padre fece loro cavare gli occhi. Ecco la ricompensa che si ebbero.

117) Quando i Persiani, usciti dalla Tracia, giunsero allo stretto, attraversarono l'Ellesponto sulle navi, in gran fretta, verso Abido, perché avevano trovato i ponti fra le due rive non più intatti, ma sconnessi per una tempesta. Qui trattenendosi, ebbero a disposizione più cibo che lungo il percorso, sicché, per essersi rimpinzati a dismisura e per aver bevuto acqua diversa, molti dell'esercito superstite morirono. I rimanenti giunsero a Sardi assieme a Serse.

118) Ma circola anche un'altra versione. Quando Serse giunse a Eione sullo Strimone, di ritorno da Atene, non volle più proseguire per via di terra, ma affidò a Idarne il compito di condurre l'esercito all'Ellesponto, e lui personalmente, imbarcatosi su di una nave fenicia, si diresse verso l'Asia. Mentre era in mare, lo avrebbe colto un vento dello Strimone, forte e tempestoso. Sempre di più cresceva la burrasca e la nave era carica al punto che molti dei Persiani che viaggiavano con Serse ne occupavano il ponte. Allora il re, in preda al panico, chiese urlando al timoniere se c'era speranza di salvarsi; e quello rispose: "Nessuna, signore, se non ci si sbarazza un po' dei molti passeggeri". A tali parole Serse avrebbe esclamato: "Persiani, ora qualcuno di voi dimostri che si preoccupa per il re, poiché sembra che da voi dipenda la mia salvezza". Lui disse così ed essi si prosternarono e saltarono giù in mare, sicché la nave, alleggerita, poté mettersi in salvo in Asia. Appena sbarcato, ecco cosa fece Serse: donò una corona d'oro al timoniere per aver salvato la vita al re, ma ordinò di tagliargli la testa per aver causato la morte di molti Persiani.

119) Questa è un'altra versione sul ritorno di Serse, ma non mi pare assolutamente credibile, né in generale, né per quanto attiene al sacrificio dei Persiani. Infatti, se il pilota avesse parlato come si è su riferito, Serse avrebbe agito così - e non credo che su diecimila persone se ne trovi una di parere contrario -, avrebbe cioè mandato sotto coperta quanti stavano sul ponte, che erano Persiani, e fra i Persiani i più ragguardevoli, e avrebbe fatto gettare in mare un numero uguale di rematori, che erano Fenici. In realtà, come ho già specificato prima, Serse rientrò in Asia assieme al resto dell'armata per via di terra.

120) Ce n'è anche una prova consistente: risulta certo, infatti, che Serse giunse ad Abdera nel viaggio di ritorno, strinse vincoli di ospitalità con gli Abderiti e diede loro in dono una spada d'oro e una tiara ricamata a fili d'oro, inoltre - lo affermano gli stessi Abderiti, ma per me raccontano cose assurde -, qui avrebbe fatto tappa per la prima volta nella sua ritirata da Atene, sentendosi al sicuro. Abdera è più vicina all'Ellesponto che non lo Strimone ed Eione, dove dicono che si sarebbe imbarcato.

121) I Greci, non riuscendo a espugnare Andro, si volsero verso Caristo e ne misero a sacco il territorio, quindi tornarono a Salamina. Prima di tutto scelsero primizie, per gli dèi, fra l'altro tre triremi fenicie che consacrarono una sull'Istmo - e vi è rimasta fino ai miei giorni -, una al Sunio, la terza lì a Salamina, in onore di Aiace. Poi spartirono il bottino e inviarono le primizie a Delfi; con queste fu fatta una statua alta dodici cubiti che tiene in pugno un rostro di nave; fu collocata nello stesso luogo dov'è la statua d'oro di Alessandro di Macedonia.

122) Dopo aver spedito a Delfi le primizie, i Greci chiesero in comune al dio se le aveva trovate complete e soddisfacenti; e il dio rispose di sì per le offerte degli altri Greci, di no, invece, per quelle degli Egineti, e pretese da loro la ricompensa che avevano ricevuto per le loro prodezze a Salamina. Gli Egineti, quando lo seppero, dedicarono delle stelle d'oro, tre di numero, fissate sull'albero di una nave in bronzo che sta nell'angolo più vicino al cratere di Creso.

123) Dopo la spartizione del bottino, i Greci si recarono all'Istmo per attribuire il premio a chi tra i Greci ne fosse risultato più degno nel corso di questa guerra. Quando gli strateghi, arrivati, posero il loro voto sull'altare di Posidone, valutando il primo e il secondo fra tutti, allora ciascuno di loro votò per se stesso, ciascuno ritenendo di essere stato il più valoroso; ma nella seconda preferenza la maggioranza dei consensi cadde su Temistocle; tutti dunque ebbero singolarmente un solo voto, mentre Temistocle per il secondo posto prevalse nettamente.

124) I Greci per invidia non vollero decidere e se ne tornarono ciascuno a casa propria senza portare a termine la scelta; tuttavia Temistocle fu proclamato e giudicato, in tutta la Grecia, il Greco in assoluto più abile. Ma dato che, pur vincitore, non aveva ricevuto onori dai combattenti di Salamina, si recò subito a Sparta, desideroso di riceverne; e gli Spartani lo accolsero bene, e gli tributarono grandi onori. Il premio per il valore, una corona d'olivo, lo consegnarono a Euribiade, a Temistocle assegnarono quello per l'astuzia e la destrezza, una seconda corona d'olivo; e gli regalarono il carro più bello che avessero a Sparta. Dopo molteplici encomi, quando partì, trecento Spartiati scelti, quelli chiamati "cavalieri", lo accompagnarono in corteo fino ai confini della Tegeatide. E fu l'unica persona al mondo, a nostra conoscenza, che gli Spartiati abbiano scortato.

125) Quando da Sparta tornò ad Atene, qui Timodemo di Afidna, uno dei nemici di Temistocle, ma non uno dei più illustri, per invidia bersagliò Temistocle di insulti, accusandolo per il viaggio a Sparta e sostenendo che doveva ad Atene e non a se stesso i doni ricevuti dagli Spartani. E lui, poiché Timodemo non smetteva di ripetersi, replicò: "È vero, se fossi nato a Belbina non sarei stato tanto onorato dagli Spartani; ma nemmeno tu lo sei, amico, eppure sei nato ad Atene...". Tanto accadde quella volta.

126) Artabazo, figlio di Farnace, che già prima era un personaggio insigne fra i Persiani e più ancora lo divenne dopo i fatti di Platea, con sessantamila uomini dell'esercito scelto da Mardonio scortava il re fino allo stretto. Quando il re fu in Asia, Artabazo tornò indietro e giunse nella penisola di Pallene; e visto che Mardonio stava svernando in Tessaglia e in Macedonia e non premeva assolutamente su di lui perché raggiungesse il resto dell'esercito, avendo trovato i Potideati in rivolta, ritenne logico ridurli in schiavitù. In effetti gli abitanti di Potidea, dopo il passaggio del re e la fuga precipitosa della flotta persiana da Salamina, si erano apertamente ribellati ai barbari; come pure gli altri abitanti della Pallene.

127) Allora Artabazo pose l'assedio a Potidea. Sospettando poi che anche gli abitanti di Olinto pensassero a una rivolta, cinse d'assedio anche questa città; la abitavano i Bottiei che erano stati scacciati dal Golfo Termaico a opera dei Macedoni. Quando li ebbe vinti con l'assedio, li fece portare a un lago e massacrare; quindi affidò il governo della città a Critobulo di Torone e ai Calcidesi. E fu così che i Calcidesi divennero padroni di Olinto.

128) Dopo aver espugnato Olinto, Artabazo si occupò risolutamente di Potidea; mentre era qui impegnato con decisione, Timosseno, lo stratego degli Scionei, concordò con lui un tradimento, in che modo all'inizio non saprei dirlo (non se ne fa parola), ma ecco insomma come andò a finire. Quando si scrivevano una lettera, o Timosseno volendo farla giungere ad Artabazo, o Artabazo a Timosseno, la avvolgevano alla cocca di una freccia, la coprivano di piume e poi scagliavano la freccia in un punto convenuto. Ma Timosseno fu scoperto in flagrante tradimento di Potidea, perché Artabazo, nello scagliare la freccia nel punto convenuto, sbagliò la mira e colpì alla spalla un uomo di Potidea; intorno al ferito fecero gruppo i compagni, come suole accadere in guerra, i quali subito estrassero la freccia e, accortisi della lettera, la portarono agli strateghi; c'era anche presente una rappresentanza di altri alleati Palleni. Gli strateghi, letta la missiva e individuato il colpevole del tradimento, decisero di non mettere sotto accusa Timosseno, per riguardo alla città di Scione, perché gli Scionei, da quel momento in poi, non avessero sempiterna fama di traditori.

129) Timosseno, dunque, fu scoperto così. Artabazo, dal canto suo, dopo tre mesi d'assedio, assistette a un deflusso delle acque del mare, esteso e prolungato; i barbari, visto che si era formata una secca, avanzarono verso la Pallene; quando ne ebbero percorso due parti e tre ne restavano ancora da attraversare, per giungere sulla penisola vera e propria, si abbatté su di loro una immensa ondata di marea, quale mai prima di allora si era prodotta, a detta dei locali, benché se ne verifichino spesso. Quanti di loro non sapevano nuotare annegarono; quelli che erano capaci furono massacrati dai Potideati accorsi su barche. Secondo i Potideati la causa della secca [e della marea] e del disastro persiano, stava nel fatto che questi Persiani uccisi dal mare avevano profanato il tempio e la statua di Posidone nei dintorni della città; e spiegando così il fenomeno, mi sembra che dicano bene. Artabazo condusse i superstiti in Tessaglia, presso Mardonio. Questo accadde alla scorta del re.

130) La superstite flotta di Serse, dopo aver raggiunto l'Asia nella sua fuga da Salamina e aver traghettato il re e l'esercito dal Chersoneso ad Abido, svernava a Cuma. Ma subito, alle prime luci della primavera, si concentrò a Samo, dove alcune delle navi avevano passato l'inverno. La maggior parte dei soldati a bordo erano Persiani e Medi: come loro comandanti erano giunti Mardonte figlio di Bageo e Artaunte figlio di Artace; col loro stesso grado c'era anche Itamitre, nipote di Artaunte e da questi associato al comando. Dopo il duro smacco subìto, non si spingevano troppo oltre verso occidente, e nessuno ve li costringeva; stazionando a Samo, tenevano sotto controllo la Ionia, per impedire rivolte, con trecento navi comprese quelle degli Ioni. Non che prevedessero una incursione dei Greci nella Ionia; si accontentavano semplicemente di sorvegliare il loro paese, contando sul fatto che i Greci non li avevano inseguiti nella loro fuga da Salamina, ma erano stati ben lieti di farsi da parte. Per mare, in cuor loro, si sapevano sconfitti, per terra erano convinti che Mardonio avrebbe stravinto; standosene a Samo, un po' studiavano se potessero infliggere qualche danno al nemico, un po' anche tendevano l'orecchio alle sorti di Mardonio.

131) L'arrivo della primavera e la presenza di Mardonio in Tessaglia risvegliarono i Greci. L'esercito ancora non si radunava, invece la flotta, centodieci navi, giungeva a Egina. Stratego e navarco era Leotichida figlio di Menareo, figlio di Agesilao, figlio di Ippocratida, figlio di Leotichida, figlio di Anassilao, figlio di Archidamo, figlio di Anassandrida, figlio di Teopompo, figlio di Nicandro, figlio di Carilao, figlio di Eunomo, figlio di Polidecte, figlio di Pritani, figlio di Eurifonte, figlio di Procle, figlio di Aristodemo, figlio di Aristomaco, figlio di Cleodeo, figlio di Illo, figlio di Eracle, membro della seconda famiglia reale. Tutti costoro, tranne i primi sette elencati dopo Leotichida, erano stati re di Sparta. Al comando degli Ateniesi c'era Santippo figlio di Arifrone.

132) Non appena tutte le navi furono a Egina, al campo dei Greci arrivarono messaggeri degli Ioni, che poco prima erano stati anche a Sparta a chiedere agli Spartani di liberare la Ionia; fra essi c'era anche Erodoto figlio di Basileide. Essi si erano uniti in una congiura e progettavano di eliminare Stratti, il tiranno di Chio; in origine erano sette, ma, una volta scoperto il loro complotto - uno di loro aveva denunziato il tentativo -, gli altri, rimasti in sei, sparirono da Chio e si recarono a Sparta e poi, appunto, a Egina, per chiedere ai Greci di sbarcare nella Ionia. A mala pena li trascinarono fino a Delo. Ai Greci, che non erano pratici di quelle zone, ogni località sita oltre Delo metteva paura: pareva loro che dappertutto dovessero esserci soldati; supponevano che Samo fosse lontana quanto le colonne d'Eracle. Avvenne così che i barbari, intimoriti, non osassero inoltrarsi a ovest di Samo, e i Greci, malgrado le insistenze dei Chii, non osassero avanzare più a est di Delo; così la paura presidiava lo spazio intermedio.

133) Mentre i Greci navigavano verso Delo, Mardonio svernava in Tessaglia. Quando si mosse di lì, inviò agli oracoli un uomo di Europo, di nome Mis, con l'ordine di consultarne ovunque fosse possibile. Che cosa volesse apprendere dagli oracoli quando impartì questi ordini, non saprei dirlo: non se ne fa parola; credo comunque che abbia inviato Mis per avere lumi sulle circostanze del momento e non su altro.

134) Risulta che questo Mis si recò a Lebadea, dove convinse uno del posto, dietro ricompensa, a scendere da Trofonio; e poi all'oracolo di Abe nella Focide. Ma prima di tutto era passato da Tebe, dove da una parte consultò Apollo Ismenio (li è possibile trarre auspici da vittime sacrificali, come a Olimpia) dall'altra convinse uno straniero, non un Tebano, ad andarsi a coricare per il rito nel tempio di Anfiarao. In effetti a tutti i Tebani è interdetta la consultazione di Anfiarao, ed ecco perché: Anfiarao li aveva invitati per mezzo di oracoli a scegliere quella che volevano fra due alternative, averlo come indovino o come alleato, e di rinunciare all'altra; ed essi lo scelsero come alleato. Per questo nessun Tebano può coricarsi per il rito nel tempio.

135) In quell'occasione, raccontano i Tebani, si verificò un fatto a mio avviso straordinario; arrivò dunque Mis di Europo, impegnato nel giro di tutti gli oracoli, anche al santuario di Apollo Ptoo. Il tempio si chiama il Ptoo, appartiene ai Tebani, e sorge oltre il lago di Copaide sul fianco di una montagna, vicinissimo alla città di Acraifia. Appena l'uomo chiamato Mis arrivò a questo tempio, seguito da tre cittadini scelti dalla collettività che dovevano trascrivere il testo della profezia, subito l'indovino prese a parlare in lingua barbara. I Tebani al seguito rimasero sbalorditi sentendo una lingua barbara invece del greco e sul momento non sapevano come regolarsi; allora Mis di Europo strappò loro la tavoletta che portavano e vi annotò le parole del profeta; disse che parlava in lingua caria; trascritto il tutto, si allontanò e ripartì per la Tessaglia.

136) Mardonio, appreso il contenuto degli oracoli, inviò come messaggero ad Atene il Macedone Alessandro figlio di Aminta, sia perché i Persiani erano imparentati con lui (il Persiano Bubare aveva per moglie la sorella di Alessandro, Gigea, figlia di Aminta, e da lei gli era nato quell'Aminta d'Asia, che portava il nome del nonno materno e che aveva ricevuto dal re per governarla la grande città frigia di Alabanda), sia perché sapeva che Alessandro era prosseno e benefattore degli Ateniesi. Credeva così senz'altro di legare a sé gli Ateniesi, dei quali sentiva dire che erano un popolo numeroso e valoroso; e non ignorava che il disastro toccato in mare ai Persiani era dovuto soprattutto agli Ateniesi. Se riusciva a portarli dalla sua, si aspettava di garantirsi facilmente il dominio del mare - come certo sarebbe accaduto -, mentre già era convinto di essere assai superiore sulla terraferma. Contava in questo modo di prevalere sui Greci. Forse anche gli oracoli gli avevano predetto qualcosa del genere, suggerendogli di rendersi alleati gli Ateniesi, e lui, obbediente, inviava l'ambasceria.

137) Il settimo antenato di Alessandro è Perdicca, che conquistò la signoria sui Macedoni nel modo seguente. Tre fratelli, Gauane, Aeropo e Perdicca, discendenti di Temeno, ripararono esuli da Argo nel paese degli Illiri, e dall'Illiria per vie interne passarono nella Macedonia settentrionale, giungendo alla città di Lebea. Qui a pagamento prestarono la loro opera al re, l'uno governando i cavalli, l'altro i buoi, il terzo, Perdicca, il più giovane di loro, il bestiame minuto. Anticamente nel mondo anche i monarchi erano poveri e non solo i sudditi: la moglie del re preparava con le sue mani il loro cibo. Ebbene, quando lo cuoceva, il pane destinato al giovanissimo servo Perdicca, diventava sempre il doppio: poiché questo fenomeno si ripeteva in continuazione, essa ne parlò col marito. E lui, già sentendolo dire, capì subito che si trattava di un prodigio e che presagiva qualcosa di grande; chiamò i servi e intimò loro di lasciare il suo paese. Essi risposero che se ne sarebbero andati sì, ma, com'era giusto, dopo aver ricevuto la paga. Il re, sentendo parlare di paga, e poiché il sole penetrava nella stanza attraverso il foro d'uscita del camino, accecato dagli dèi dichiarò: "Ecco qua, vi concedo una paga degna di voi", e indicava il raggio di sole. Gauane e Aeropo, i più anziani, rimasero interdetti a udire quelle parole, il ragazzo invece, che aveva con sé un coltello, rispose: "Sovrano, accettiamo quello che ci dai": col coltello tagliò il raggio sul pavimento e dopo avere, per così dire, attinto per tre volte al sole e averlo riposto in grembo, si allontanò; e con lui gli altri.

138) Se ne andarono, ma uno dei dignitari spiegò al re quel che il ragazzo aveva fatto e come il più giovane di loro, ragionatamente, aveva preso quanto gli si offriva. Il re, udito questo, si irritò e spedì dei cavalieri dietro ai tre fratelli per ucciderli. C'è un fiume in questa regione, al quale i discendenti dei tre profughi di Argo sacrificano come a un dio salvatore; questo fiume, quando i Temenidi lo ebbero attraversato, divenne così impetuoso che i cavalieri non furono in condizione di guadarlo. I tre, giunti in un'altra parte della Macedonia, si stabilirono presso i giardini detti di Mida figlio di Gordia, dove nascono spontanee delle rose composte ciascuna di sessanta petali e profumate più di ogni altra. Sono gli stessi giardini, a quanto raccontano i Macedoni, in cui una volta fu catturato Sileno. Sovrasta i giardini il monte chiamato Bermio, inaccessibile per le nevi perenni. Muovendo da quella terra, di cui ormai erano divenuti i padroni, i tre sottomisero anche il resto della Macedonia.

139) Ed ecco come da questo Perdicca discese Alessandro. Alessandro era figlio di Aminta, Aminta di Alceta; padre di Alceta era Aeropo, figlio di Filippo e nipote di Argeo, a sua volta figlio del Perdicca che conquistò il potere.

140) Queste le ascendenze di Alessandro figlio di Aminta. Quando giunse ad Atene inviato da Mardonio, parlò così:

A) "Ateniesi, Mardonio vi dice: "Mi giunge dal re un messaggio che suona come segue: 'Perdono agli Ateniesi tutti i torti che hanno commesso nei miei confronti. Ora, Mardonio, agisci così: restituiscigli la loro terra, poi essi oltre a questa se ne scelgano un'altra, a loro piacere, e siano indipendenti. Se accettano di venire a patti con me, ricostruisci tutti i santuari che io ho dato alle fiamme'. Avendo ricevuto questo messaggio, io devo senz'altro agire così, a meno che voi non vi opponiate. Per parte mia vi dico questo: perché agite come pazzi muovendo guerra al re? Non riuscireste a sconfiggerlo e non siete in grado di resistergli per sempre. La mole della spedizione di Serse e le sue imprese le avete viste e sapete di che armata io ora disponga, sicché anche se riusciste ad avere la meglio e a batterci - cosa di cui per voi non sussiste speranza, se possedete un briciolo di senno -, subentrerà un altro esercito ben più numeroso. Non scegliete, dunque, di farvi portare via la vostra terra solo per considerarvi alla pari col re, di mettere in eterno pericolo la vostra vita; scendete a patti. Vi si offre di concludere un accordo magnifico, perché questa è l'intenzione del re. Siate liberi, alleandovi con noi senza dolo e senza inganno".

B) Ecco, Ateniesi, quanto Mardonio mi ha incaricato di riferirvi. Quanto a me, della buona disposizione che ho per voi non dirò nulla (non ne sentireste parlare ora per la prima volta), ma vi prego di dare retta a Mardonio. Vedo che non siete in grado di guerreggiare per sempre con Serse; se ne avessi scorto la possibilità, non sarei venuto da voi a parlarvi come vi parlo. Sovrumana è la potenza del re e il suo braccio è molto lungo. Se non scendete a patti, ora che vi si offrono condizioni ottime circa gli accordi desiderati, io tremo per voi: fra tutti gli alleati siete voi a trovarvi sul percorso obbligato per le truppe e sarete i soli a subire danni in ogni caso, giacché il vostro paese è un eccellente campo di battaglia. Datemi retta; per voi è un bell'onore che il grande re perdoni le colpe soltanto a voi fra i Greci e voglia diventare vostro amico".

141) Così parlò Alessandro. Gli Spartani, venuti a sapere che Alessandro era giunto ad Atene per indurre gli Ateniesi ad allearsi col barbaro, memori delle profezie in base alle quali sarebbero stati scacciati dal Peloponneso assieme agli altri Dori per mano dei Medi e degli Ateniesi, ebbero paura davvero che gli Ateniesi venissero a patti col Persiano. Subito decisero di inviare una ambasceria. E finì che Alessandro e gli Spartani si presentarono assieme davanti al popolo; gli Ateniesi avevano guadagnato tempo, sicuri che gli Spartani, avuta notizia del messaggero inviato dal re a cercare un accordo, avrebbero subito mandato una ambasceria. Agirono così a bella posta, per palesare le loro intenzioni agli Spartani.

142) Quando Alessandro ebbe finito di parlare, a loro volta i messaggeri di Sparta dissero: "Gli Spartani ci hanno inviato a chiedervi di non rivoluzionare la situazione della Grecia e di non accettare le proposte del re. Non sarebbe giusto né onorevole per nessuno degli altri Greci, tanto meno lo è per voi, e per molte ragioni: siete stati voi a scatenare questa guerra, quando nessuno di noi la voleva, e il conflitto in origine riguardò il vostro paese; solo ora coinvolge la Grecia intera. Comunque, non è ammissibile che voi Ateniesi diventiate responsabili della schiavitù dei Greci, voi che sempre, e ormai da tempo, vi atteggiate a paladini della libertà di tanti. Noi compiangiamo le vostre disgrazie: siete stati privati già di due raccolti e ormai da molto tempo siete ridotti a mal partito. A compenso di ciò gli Spartani e gli altri alleati si offrono di provvedere fino alla fine del conflitto al sostentamento delle vostre donne e di tutti i familiari inabili alla guerra. Non vi convinca Alessandro il Macedone, che leviga le parole di Mardonio; lui deve agire così: tiranno, si fa complice di un tiranno; ma voi no, non dovete farlo, se avete ancora un briciolo di senno, perché sapete che lealtà e sincerità sono ignote ai barbari". Questo dissero i messaggeri.

143) Ecco cosa risposero gli Ateniesi ad Alessandro: "Anche noi sappiamo che le forze del barbaro sono molto più numerose delle nostre, non c'è bisogno di gettarcelo in faccia. Eppure ci terremo ugualmente stretta la nostra libertà e ci difenderemo finché ne avremo la forza. Accordarci col barbaro? Non tentare di convincerci a farlo, tanto non ti daremo retta. Ora va' a riferire a Mardonio cosa dicono gli Ateniesi: finché il sole seguirà la stessa via che percorre oggi, non verremo a patti con Serse; anzi usciremo in campo contro di lui e ci batteremo, fiduciosi nell'aiuto degli dèi e degli eroi, ai quali lui senza il minimo rispetto bruciò le case e le statue. Tu per il futuro non comparire più davanti agli Ateniesi con discorsi del genere e non esortarli, con l'aria di render loro un gran servigio, a compiere azioni inique. Non vogliamo che tu debba subire qualcosa di sgradevole da parte degli Ateniesi, di cui sei prosseno e amico".

144) Così risposero ad Alessandro. Ai messaggeri giunti da Sparta dissero: "Che gli Spartani temano un nostro accordo col barbaro è umano, decisamente; però ci sembra vergognoso che abbiate avuto questa paura, sapendo benissimo come la pensano gli Ateniesi: che al mondo non esiste oro bastante, né esiste regione superiore alle altre per bellezza e virtù che noi saremmo disposti ad accettare per schierarci con il Persiano e rendere serva la Grecia. Sono molto gravi i motivi che ci impedirebbero di agire così, anche se lo volessimo. Primo e principale le statue e le dimore degli dèi date alle fiamme e abbattute, che noi siamo tenuti a vendicare il più duramente possibile; altro che venire a patti con chi ne è responsabile! Poi c'è il senso della grecità, la comunanza di sangue e di lingua, di santuari e riti sacri, di usi e costumi simili; male sarebbe che gli Ateniesi ne diventassero traditori. Tenete questo per certo, se non ne eravate già sicuri: finché ci sarà anche un solo Ateniese, mai e poi mai ci accorderemo con Serse. Noi siamo contenti della sollecitudine che mostrate verso di noi, che vi preoccupiate dei danni da noi subiti al punto di voler sostentare le nostre famiglie. Alla vostra cortesia non manca nulla, ma noi resisteremo così come stiamo senza pesare su di voi. Piuttosto, vista la situazione, mandate al più presto un esercito. Secondo le nostre previsioni fra non molto il barbaro sarà qui da invasore, nel nostro paese, non appena ricevuta notizia che non faremo nulla di quanto ci ha chiesto. Quindi, prima che lui sia in Attica, è il caso che noi lo precediamo accorrendo a fronteggiarlo in Beozia". I messi, ottenuta questa risposta dagli Ateniesi, se ne tornarono a Sparta.

 

                                                                                                 

 

           

 

  

 

 

 

 

 

 

<<RETRO                                                >>SEGUE 
   
<<HOME  

.....