CRESO E CIRO                          


    

Erodoto di Alicarnasso espone qui il risultato delle sue ricerche storiche; lo scopo è di impedire che avvenimenti determinati dall'azione degli uomini finiscano per sbiadire col tempo, di impedire che perdano la dovuta risonanza imprese grandi e degne di ammirazione realizzate dai Greci come dai barbari; fra l'altro anche la ragione per cui vennero a guerra tra loro.

1)    I dotti persiani affermano che i responsabili della rivalità furono i Fenici. Costoro giunsero in queste nostre acque provenienti dal mare detto Eritreo; insediatisi nella regione che abitano tutt’oggi, subito, con lunghi viaggi di navigazione, presero a fare commercio in vari paesi di prodotti egiziani ed assiri, e si spinsero fino ad Argo. A quell'epoca Argo era da ogni punto di vista la città più importante fra quante sorgevano nel territorio oggi chiamato Grecia. I Fenici arrivarono ad Argo e vi misero in vendita le loro mercanzie. Quattro o cinque giorni dopo il loro arrivo, ormai quasi esaurite le merci, scesero sulla riva del mare diverse donne, tra le quali si trovava la figlia del re Inaco: si chiamava Io, anche i Greci concordano su questo punto. Secondo i dotti persiani, mentre le donne si trattenevano accanto alla poppa della nave, per acquistare i prodotti che più desideravano, i marinai si incoraggiarono a vicenda e si avventarono su di loro: molte riuscirono a fuggire, ma non Io, che fu catturata insieme con altre; risaliti sulle navi, i Fenici si allontanarono, facendo rotta verso l'Egitto.

2)    Secondo i Persiani Io giunse in Egitto così e non come narrano i Greci; e questo    episodio avrebbe segnato l'inizio dei misfatti. In seguito alcuni Greci (essi non sono in grado di precisarne la provenienza), spintisi fino a Tiro, in Fenicia, vi rapirono la figlia del re, Europa; è possibile che costoro fossero di Creta. E fino a qui la situazione era in perfetta parità, ma poi i Greci si resero responsabili di una seconda colpa: navigarono con una lunga nave fino ad Ea e alle rive del fiume Fasi, nella Colchide, e là, compiuta la missione per cui erano venuti, rapirono Medea, la figlia del re dei Colchi; questi mandò in Grecia un araldo a reclamare la restituzione della figlia e a chiedere giustizia del rapimento, ma i Greci risposero che i barbari non avevano dato soddisfazione del ratto dell'argiva Io e che quindi per parte loro avrebbero fatto altrettanto.

3)     Narrano che nella generazione successiva Alessandro, figlio di Priamo, a conoscenza di quei fatti, volle procurarsi moglie in Grecia per mezzo di un rapimento; era assolutamente convinto che non ne avrebbe mai dovuto rendere conto ai Greci perché questi in precedenza non lo avevano fatto nei confronti dei barbari. E così, quando ebbe rapito Elena, i Greci decisero per prima cosa di inviare messaggeri a chiedere la sua restituzione e a pretendere giustizia del rapimento; di fronte a tale istanza i barbari rinfacciarono loro il ratto di Medea: non era accettabile che proprio i Greci, rei di non avere pagato il proprio delitto e di non avere provveduto a nessuna restituzione malgrado le richieste, pretendessero ora di ottenere giustizia dagli altri.

4)     Comunque, fino a quel momento, fra Greci e barbari non c'era stato altro che una serie di reciproci rapimenti; a partire da allora invece i maggiori colpevoli sarebbero diventati i Greci: essi infatti cominciarono a inviare eserciti in Asia prima che i Persiani in Europa. Ora, i barbari ritengono che rapire donne sia azione da delinquenti, ma che preoccuparsi di vendicare delitti del genere sia pensiero da dissennati: l'unico atteggiamento degno di un saggio è non tenere il minimo conto di donne rapite, perché è evidente che non le si potrebbe rapire se non fossero consenzienti. Secondo i Persiani gli abitanti dell'Asia non si curano minimamente delle donne rapite; i Greci invece per una sola donna di Sparta radunarono un grande esercito, si spinsero fino in Asia e abbatterono la potenza di Priamo; da allora e per sempre i Persiani avrebbero guardato con ostilità a tutto ciò che è greco. In effetti essi considerano loro proprietà l'Asia e le genti barbare che vi abitano e ben separate, a sé stanti, l'Europa e il mondo greco.

5)     Insomma i Persiani descrivono così la dinamica degli eventi: fanno risalire alla distruzione di Ilio l'origine dell'odio che nutrono per i Greci. Però, a proposito di Io, i Fenici non concordano con i Persiani; secondo la loro versione essi condussero sì Io in Egitto, ma non dopo averla rapita, bensì perché lei ancora in Argo aveva avuto una relazione con il timoniere della nave; accortasi di essere rimasta incinta, per la vergogna aveva preferito partire con i Fenici, per non doverlo confessare ai propri genitori. Ecco dunque le versioni dei Persiani e dei Fenici; quanto a me, riguardo a tali fatti, non mi azzardo a dire che sono avvenuti in un modo o in un altro; io so invece chi fu il primo a rendersi responsabile di ingiustizie nei confronti dei Greci e quando avrò chiarito di costui procederò nel racconto. Verrò a parlare di varie città, ma senza distinguere fra grandi e piccole: il fatto è che alcune erano importanti nell'antichità e poi, in gran parte, sono decadute, altre, notevoli ai miei tempi, prima invece erano insignificanti; io, ben consapevole che la condizione umana non è mai stabile e immutabile, le ricorderò senza fare distinzioni.

6)     Creso era di stirpe lidia e figlio di Aliatte; era re delle popolazioni al di qua di quel fiume Alis che, scorrendo da sud fra i Siri e i Paflagoni, procede verso settentrione fino al Ponto Eusino. Creso, per primo fra i barbari di cui abbiamo notizia, sottomise alcune città greche al pagamento di un tributo, mentre di altre cercava di acquistarsi l'amicizia: le vittime furono gli Ioni, gli Eoli e i Dori d'Asia, i privilegiati furono gli Spartani. Prima del regno di Creso tutti i Greci erano indipendenti: anche all'epoca dell'invasione della Ionia ad opera di un esercito di Cimmeri, alquanto prima del regno di Creso, non si erano avute sottomissioni di città, bensì soltanto scorrerie e saccheggi ai loro danni.

7)     In Lidia il potere apparteneva agli Eraclidi; pervenne alla famiglia di Creso, ai Mermnadi, come ora vi narro. A Sardi il re era Candaule, dai Greci chiamato Mirsilo, discendente di un figlio di Eracle, Alceo. Il primo dei discendenti di Eracle a divenire re di Sardi era stato Agrone, che era figlio di Nino il quale a sua volta era figlio di Belo e nipote di Alceo; l'ultimo fu Candaule, figlio di Mirso. Quanti avevano regnato sul paese prima di Agrone erano discendenti di Lido, figlio di Atis; da Lido presero nome i Lidi, prima chiamati Meoni. Gli Eraclidi, progenie di Eracle e di una schiava di Iardano, ottennero il potere in affidamento dai discendenti di Lido in base a un oracolo e lo esercitarono per ventidue generazioni, vale a dire per 505 anni, trasmettendoselo di padre in figlio fino a Candaule figlio di Mirso.

8)     Questo Candaule era molto innamorato della propria moglie e perciò era convinto che fosse di gran lunga la più bella donna del mondo. Con una simile convinzione, poiché era solito confidarsi anche sugli argomenti più delicati con un certo Gige, una guardia del corpo, suo favorito, figlio di Dascilo, finì in particolare per esaltargli l'aspetto fisico della moglie. Ma era fatale che a Candaule ne derivasse un grave danno: poco tempo dopo disse a Gige: "Gige, ho l'impressione che tu non mi credi quando ti parlo del corpo di mia moglie; succede certo che gli uomini abbiano le orecchie più incredule degli occhi, ma allora fai in modo di vederla nuda". Ma Gige protestando gli rispose: "Signore, ma che razza di discorso insano mi fai? Mi ordini di guardare nuda la mia padrona? Quando una donna si spoglia dei vestiti si spoglia anche del pudore; i buoni precetti sono ormai un patrimonio antico dell'umanità e da essi bisogna imparare: uno dice che si deve guardare solo ciò che ci appartiene. Io crederò che lei è la più bella donna del mondo e ti prego di non chiedermi assurdità".

9)    Insomma, rispondendo così, opponeva il suo rifiuto: temeva che da quella situazione gli potesse derivare qualche guaio. Ma Candaule insistette: "Coraggio, Gige, non avere paura di me, come se ti facessi un simile discorso per metterti alla prova, né di mia moglie, che per opera sua ti possa accadere qualcosa di male; tanto per cominciare io studierò la maniera che lei non si accorga di essere osservata da te. Ecco, ti metterò dietro la porta spalancata della stanza in cui dormiamo; più tardi, quando io sarò entrato, anche mia moglie verrà, per mettersi a letto. Vicino alla porta c'è una sedia su cui lei, spogliandosi, appoggerà le vesti, una per una; e così potrai guardartela in tutta tranquillità; ma quando lei si sposterà dalla sedia verso il letto, dandoti la schiena, allora esci dalla stanza, ma fai attenzione che lei non ti veda".

10) Non avendo via di scampo, Gige era pronto a obbedire. Candaule, quando gli parve ora di andare a dormire, condusse Gige nella sua camera; subito dopo comparve anche la moglie: Gige la osservò mentre entrava e posava i propri vestiti. Appena la donna si voltò per avvicinarsi al letto, dandogli le spalle, Gige uscì dal nascondiglio e si allontanò; lei lo scorse mentre usciva, ma, pur avendo compreso il misfatto del marito, invece di gridare per la vergogna, finse di non essersi accorta di niente, con l'intenzione però di vendicarsi di Candaule. Bisogna sapere che presso i Lidi, come presso quasi tutti gli altri barbari, è grande motivo di vergogna persino che sia visto nudo un uomo.

11) Sul momento non lasciò trasparire nulla e rimase tranquilla; ma non appena fu giorno diede istruzioni ai servi che vedeva a sé più fedeli e mandò a chiamare Gige. Gige credeva che lei ignorasse l'accaduto e si presentò subito: era abituato anche prima ad accorrere ogni volta che la regina lo chiamava. Quando lo ebbe davanti, la donna gli disse: "Ora tu, caro Gige, hai di fronte a te due strade e io ti concedo di scegliere quale preferisci percorrere: o uccidi Candaule e ottieni me e il regno dei Lidi, oppure è necessario che tu muoia subito, così non sarai più costretto a vedere ciò che non devi per obbedire a tutti gli ordini del tuo padrone. Non ci sono alternative: o muore il responsabile di tutte queste macchinazioni o muori tu che mi hai vista nuda e che hai compiuto azioni così poco lecite". Gige dapprima rimase sbalordito dalle parole della regina, poi supplicò per un po' di non costringerlo a compiere una simile scelta; ma non riuscì a persuaderla, anzi si rese conto senza più dubbi di trovarsi di fronte all'ineluttabile: uccidere il proprio padrone o venire ucciso lui stesso da altri, e scelse la propria salvezza. Rivolgendosi alla donna le chiese: "Poiché mi costringi a uccidere il mio padrone contro la mia volontà, voglio almeno sapere in che modo lo aggrediremo". E lei gli rispose: "L'aggressione avverrà esattamente dallo stesso luogo dal quale lui mi ha mostrata nuda e il colpo si farà mentre dorme".

12) Studiarono i particolari del piano e appena scese la notte Gige seguì la donna nella camera da letto: gli era stato impedito di allontanarsi e non aveva nessuna possibilità di sottrarsi a quel compito: era inevitabile la morte sua o di Candaule. La regina lo nascose dietro la stessa porta dopo avergli consegnato un pugnale. Più tardi, quando Candaule si addormentò, Gige uscì dal suo nascondiglio, lo uccise ed ebbe così insieme la donna e il regno. Archiloco di Paro, vissuto nella stessa epoca, menzionò Gige in un suo trimetro giambico.

13) Ottenne il regno e vide consolidato il suo potere grazie all'oracolo di Delfi, perché quando già i Lidi, considerando la gravità dell'assassinio di Candaule, erano in armi, i partigiani di Gige e gli altri Lidi vennero a un accordo: se l'oracolo lo avesse designato re dei Lidi, allora Gige avrebbe regnato, in caso contrario avrebbe restituito il potere agli Eraclidi. L'oracolo gli fu favorevole e così Gige fu re. La Pizia vaticinò che gli Eraclidi si sarebbero rivalsi sul quinto discendente di Gige, ma di questa profezia i Lidi e i loro sovrani non si curarono più fino a quando non si compì.

14)Ecco insomma come i Mermnadi avevano conquistato il potere, sottraendolo agli Eraclidi. Gige, quando fu re, inviò rilevanti offerte a Delfi, in pratica la maggior parte di tutte le offerte in argento che vi si trovano; e oltre all'argento dedicò anche oro in grande quantità, fra cui è degna di menzione una serie di sei crateri d'oro: oggi si trovano nel tesoro dei Corinzi e raggiungono un peso di trenta talenti. Però a dire il vero il tesoro non appartiene allo stato di Corinto, bensì a Cipselo figlio di Eezione. Gige fu il primo barbaro di cui abbiamo notizia a inviare offerte a Delfi dopo Mida, figlio di Gordio, re di Frigia. Mida aveva consacrato il trono regale da cui amministrava la giustizia, un oggetto che merita di essere visto: questo trono si trova dove sono collocati anche i crateri di Gige. Gli abitanti di Delfi chiamano "Gigade", dal nome del donatore, l'oro e l'argento offerti da Gige. Quando ebbe il potere, anch'egli inviò spedizioni militari contro Mileto e Smirne, ed espugnò la città di Colofone, ma non ci fu nessuna altra impresa durante i 38 anni del suo regno, e anche di questa basterà aver fatto menzione.

15)Mi limiterò a menzionare soltanto anche Ardi, figlio di Gige, che regnò dopo il padre: costui espugnò Priene e organizzò una spedizione contro Mileto; fu durante il suo regno che i Cimmeri, muovendo dalle loro sedi a causa della pressione di nomadi Sciti, si spostarono in Asia e occuparono tutta Sardi a eccezione dell'acropoli.

16)Dopo i 49 anni del regno di Ardi sul trono salì suo figlio Sadiatte, che regnò per 12 anni. Il figlio di Sadiatte, Aliatte, combatté poi una guerra contro Ciassare, il discendente di Deioce, e contro i Medi, scacciò i Cimmeri dall'Asia, prese Smirne, colonia di Colofone e assalì pure Clazomene: da questo conflitto non uscì proprio come aveva sperato, anzi con insuccessi non indifferenti. Però mentre fu al potere realizzò altre imprese degne di essere ricordate.

17)Combatté contro i Milesi una guerra ereditata dal padre, guidando le manovre di offesa e stringendo l'assedio nella maniera seguente: mandava all'attacco l'esercito ogni volta che in quella terra i prodotti erano giunti a maturazione; le operazioni si svolgevano al suono di zampogne, di pettidi e di flauti acuti e gravi. Quando entrava nei territori di Mileto non abbatteva o incendiava le case che si trovavano nei campi; non ne forzava neppure le porte, le lasciava intatte in tutta la contrada; gli alberi e i frutti della terra li faceva distruggere e poi si ritirava. Il fatto è che i Milesi erano padroni del mare, sicché non era possibile per un esercito stringerli d'assedio. Il re lidio non abbatteva le costruzioni affinché i Milesi muovendo da esse potessero coltivare e lavorare la terra e lui, grazie al lavoro di quelli, avesse qualcosa da depredare durante le sue incursioni.

18)Con questo sistema la guerra durò undici anni, durante i quali i Milesi subirono due gravi sconfitte, a Limeneo nel loro territorio e nella piana del Meandro. Per sei anni su undici a capo dei Lidi era stato ancora il figlio di Ardi Sadiatte: era stato lui a suo tempo a invadere con le sue truppe il paese di Mileto, ed era stato anche il responsabile dell'inizio della guerra. Nei successivi cinque anni a combattere fu Aliatte figlio di Sadiatte il quale, come ho già spiegato, ereditò dal padre il conflitto e lo diresse con particolare energia. Nessuna popolazione della Ionia aiutò i Milesi a sostenere il peso di quella guerra tranne i soli abitanti di Chio, che vennero in loro soccorso per ricambiare un analogo favore: infatti in tempi precedenti Mileto aveva condiviso con Chio i disagi della guerra contro Eritrei.

19)Al dodicesimo anno, mentre il raccolto veniva dato alle fiamme dall'esercito, si verificò questo fatto: quando le messi presero a bruciare, il fuoco, spinto dal vento, raggiunse il tempio di Atena Assesia: il tempio si incendiò e rimase completamente distrutto dalle fiamme, cosa alla quale sul momento nessuno fece caso. Ma dopo il ritorno a Sardi dell'esercito, Aliatte si ammalò; e siccome la malattia non guariva, inviò a Delfi degli incaricati, vuoi per suggerimento di qualcuno vuoi avendo deciso da solo di interrogare il dio sulla natura del proprio male. E agli inviati la Pizia rispose che non avrebbe emesso alcun responso se prima non avessero ricostruito il tempio di Atena che avevano incendiato ad Asseso nel territorio di Mileto.

20)Io sono a conoscenza di questi particolari perché mi sono stati raccontati a Delfi, ma i Milesi aggiungono che Periandro, figlio di Cipselo, legato da strettissimi vincoli di ospitalità con l'allora re di Mileto Trasibulo, quando venne a conoscenza dell'oracolo dato ad Aliatte, tramite un messaggero lo riferì a Trasibulo affinché, saputolo prima, potesse regolarsi di conseguenza.

21) Così andarono le cose secondo il racconto dei Milesi. Quando Aliatte ricevette il responso, subito inviò a Mileto un araldo, intenzionato a stipulare una tregua con Trasibulo e con i Milesi per tutto il tempo necessario alla edificazione del santuario. Così, mentre l'inviato era in viaggio verso Mileto, Trasibulo, ormai al corrente di ogni cosa e in grado di prevedere le mosse di Aliatte, preparò la seguente messinscena: fece raccogliere nella piazza principale tutte quante le riserve alimentari della città, pubbliche e private, e ordinò ai cittadini di attendere il suo segnale e poi di abbandonarsi a bevute e a bagordi collettivi.

22)Trasibulo dava queste disposizioni affinché l'araldo di Sardi tornasse a riferire ad Aliatte di aver visto grandi cumuli di vivande ammonticchiate e uomini dediti a festeggiamenti. Come appunto avvenne: l'araldo vide quello spettacolo, riferì a Trasibulo il messaggio del re lidio e ritornò a Sardi; e, secondo le informazioni che ho ricevuto, fu proprio quella la causa della ricomposizione del conflitto. In realtà Aliatte sperava che Mileto fosse ormai in preda a una dura carestia e la cittadinanza ridotta all'estremo limite di sopportazione: invece udì dall'araldo ritornato da Mileto esattamente il contrario di ciò che si aspettava. In seguito stipularono una pace stringendo fra loro vincoli di ospitalità e di alleanza; Aliatte fece costruire ad Asseso non uno ma due templi dedicati ad Atena e guarì della sua malattia. Questo accadde ad Aliatte durante la guerra contro Trasibulo e Mileto.

23) Periandro, quello che aveva informato Trasibulo del responso, era figlio di Cipselo e signore di Corinto; gli abitanti di Corinto narrano (e i Lesbi concordano con loro) che durante la sua vita si verificò un evento portentoso, l'arrivo al Tenaro di Arione di Metimna, in groppa a un delfino. Arione fu il più grande citaredo dell'epoca, il primo uomo a nostra conoscenza a comporre un ditirambo, a dargli nome e a farlo eseguire in Corinto.

24)  Ebbene si narra che Arione, il quale trascorreva accanto a Periandro la maggior parte del suo tempo, aveva provato grande desiderio di compiere un viaggio per mare fino in Italia e in Sicilia; là si era arricchito, poi aveva deciso di ritornare a Corinto. Quando dunque si trattò di ripartire da Taranto, poiché non si fidava di nessuno più che dei Corinzi, noleggiò una nave di Corinto; ma quando furono in mare aperto gli uomini dell'equipaggio tramarono di sbarazzarsi di Arione e di impossessarsi delle sue ricchezze. Arione se ne accorse e cominciò a supplicarli: era disposto a cedere i suoi averi, ma chiedeva salva la vita; tuttavia non riuscì a convincerli, anzi i marinai gli ingiunsero di togliersi la vita così da ottenere sepoltura nella terra oppure di gettarsi in mare al più presto. Arione, vistosi ormai senza scampo, chiese il permesso, poiché avevano deciso così, di cantare in piedi fra i banchi dei rematori in completa tenuta di scena: promise di togliersi la vita al termine del canto. I marinai, piacevolmente attirati dall'idea di ascoltare il miglior cantore del mondo, si ritirarono da poppa verso il centro della nave. Arione indossò i suoi costumi di scena, prese la cetra ed eseguì un canto a tono elevato, stando in piedi tra i banchi dei rematori; alla fine del canto si gettò in mare così com'era, con tutto il costume. Sempre secondo il racconto i marinai fecero poi rotta verso Corinto mentre Arione fu raccolto da un delfino e trasportato fino al Tenaro; qui toccò terra e da qui si diresse verso Corinto, ancora in tenuta di scena; quando vi giunse narrò tutto l'accaduto a Periandro, il quale, alquanto incredulo, decise di trattenere Arione sotto sorveglianza e di concentrare la sua attenzione sull'equipaggio della nave. Così, quando i marinai furono a disposizione, li fece chiamare e chiese loro se potevano dargli notizie di Arione; essi risposero che si trovava vivo e vegeto in Italia, che lo avevano lasciato a Taranto in piena e felice attività; ma Arione si mostrò davanti a loro, ancora vestito come quando era saltato dalla nave, e quelli, sbigottiti e ormai scoperti, non poterono più negare. Questo raccontano i Corinzi e i Lesbi; inoltre sul Tenaro si trova una statua votiva di bronzo di Arione, non grande, che rappresenta un uomo in groppa a un delfino.

25) Aliatte, il re di Lidia che aveva portato a termine la guerra contro Mileto, morì assai più tardi, dopo 57 anni di regno. Guarito dalla malattia, aveva consacrato a Delfi, secondo nella sua famiglia, un grande cratere d'argento e un sottocratere di ferro saldato, oggetto che merita di essere visto più di tutti gli ex-voto di Delfi; è opera di Glauco di Chio che fu l'unico artista a scoprire la tecnica di saldatura del ferro.

26)  Alla morte di Aliatte gli succedette nel regno il figlio Creso che all'epoca aveva 35 anni; egli assalì per primi tra i Greci gli Efesini. In quella circostanza gli Efesini, assediati dall'esercito di Creso, affidarono la città ad Artemide legando una fune dal tempio fino alle mura. Fra la parte antica della città, che era quella allora assediata, e il tempio ci sono sette stadi. Gli Efesini furono solo i primi perché poi in seguito Creso aggredì una per una tutte le città degli Ioni e degli Eoli, prendendo a pretesto le colpe più svariate, muovendo accuse gravi quando poteva trovarne di gravi, ma anche adducendo ragioni di poco conto.

27) Dopo aver costretto tutti i Greci d'Asia al pagamento di un tributo, progettò di far costruire delle navi e di assalire gli abitanti delle isole. Si racconta che, quando ormai tutto era pronto alla costruzione delle navi, giunse a Sardi Biante di Priene (secondo altri era Pittaco di Mitilene): e costui riuscì a fare interrompere i lavori dando a Creso, che gli chiedeva se ci fossero novità dalla Grecia, la seguente risposta: "Signore, gli abitanti delle isole stanno facendo incetta di cavalli per organizzare una spedizione contro Sardi e contro di te". Creso, credendo che stesse parlando seriamente, esclamò: "Magari gli dei glielo mettessero in testa a quegli isolani di venire contro i figli dei Lidi con la cavalleria!" E l'altro replicò: "Mio re, vedo che ti auguri ardentemente di ricevere sul continente degli isolani trasformati in cavalieri, ed è una speranza ben logica; ma poi, cos'altro credi che si augurino gli isolani, da quando hanno saputo che stai facendo costruire navi per assalirli, se non di ricevere i Lidi sul mare, dove potrebbero farti pagare la schiavitù in cui tieni i Greci del continente?" Raccontano che a Creso piacque molto questa conclusione e poiché gli parve molto pertinente si persuase a interrompere la costruzione delle navi. Fu così che strinse un patto di buon vicinato con gli Ioni residenti nelle isole.

28)Col passare del tempo quasi tutte le popolazioni stanziate al di qua del fiume Alis furono sottomesse: Creso assoggettò al suo dominio, tranne Cilici e Lici, tutte le altre genti: Lidi, Frigi, Misi, Mariandini, Calibi, Paflagoni, Traci (Tini e Bitini), Cari, Ioni, Dori, Eoli e Panfili.

29)  Creso li sottomise e ne annesse i territori al regno dei Lidi; così in una Sardi all'apice dello splendore giunsero in seguito tutti i sapienti di Grecia dell'epoca, uno dopo l'altro, e tra gli altri Solone di Atene. Solone formulò le leggi per i propri concittadini, su loro richiesta, e poi soggiornò fuori della patria per dieci anni, partito col pretesto di un viaggio conoscitivo, ma in realtà per non essere costretto ad abrogare alcuna delle leggi che aveva promulgato; perché gli Ateniesi, da soli, non erano in condizione di farlo: solenni giuramenti li vincolavano per dieci anni a valersi delle norme stabilite da Solone.

30)  Per tale ragione e anche per il suo viaggio, Solone rimase all'estero, recandosi in Egitto presso Amasi e, appunto, a Sardi presso Creso. Al suo arrivo fu ospitato da Creso nella reggia: due o tre giorni dopo, per ordine del re, alcuni servitori lo condussero a visitare i tesori e gli mostrarono quanto vi era di straordinario e di sontuoso. Creso aspettò che Solone avesse osservato e considerato tutto per bene e poi, al momento giusto, gli chiese: "Ospite ateniese, ai nostri orecchi è giunta la tua fama, che è grande sia a causa della tua sapienza sia per i tuoi viaggi, dato che per amore di conoscenza hai visitato molta parte del mondo: perciò ora m'ha preso un grande desiderio di chiederti se tu hai mai conosciuto qualcuno che fosse veramente il più felice di tutti. Faceva questa domanda perché riteneva di essere lui l'uomo più ricco, ma Solone, evitando l'adulazione e badando alla verità, rispose: "Certamente, signore, Tello di Atene". Creso rimase sbalordito da questa risposta e lo incalzò con un'altra domanda: "E in base a quale criterio giudichi Tello l'uomo più felice?" E Solone spiegò: "Tello in un periodo di prosperità per la sua patria ebbe dei figli sani e intelligenti e tutti questi figli gli diedero dei nipoti che crebbero tutti; lui stesso poi, secondo il nostro giudizio già così fortunato in vita, ha avuto la fine più splendida: durante una battaglia combattuta a Eleusi dagli Ateniesi contro una città confinante, accorso in aiuto, mise in fuga i nemici e morì gloriosamente; e gli Ateniesi gli celebrarono un funerale di stato nel punto esatto in cui era caduto e gli resero grandissimi onori".

31)  Quando Solone gli ebbe presentato la storia di Tello, così ricca di eventi fortunati, Creso gli domandò chi avesse conosciuto come secondo dopo Tello, convinto di avere almeno il secondo posto. Ma Solone disse: "Cleobi e Bitone, entrambi di Argo, i quali ebbero sempre di che vivere e oltre a ciò una notevole forza fisica, sicché tutti e due riportarono vittorie nelle gare atletiche; di loro tra l'altro si racconta il seguente episodio: ad Argo c'era una festa dedicata a Era e i due dovevano assolutamente portare la madre al tempio con un carro, ma i buoi non giungevano in tempo dai campi; allora, per non arrivare in ritardo, i due giovani sistemarono i gioghi sulle proprie spalle, tirarono il carro, sul quale viaggiava la madre, e arrivarono fino al tempio dopo un tragitto di 45 stadi. Al loro gesto, ammirato da tutta la popolazione riunita per la festa, seguì una fine nobilissima: con loro il dio volle mostrare quanto, per un uomo, essere morto sia meglio che vivere. Intorno ai due giovani gli uomini di Argo ne lodavano la forza, mentre le donne si complimentavano con la madre che aveva avuto due figli come quelli; e la madre, oltremodo felice dell'impresa e della grande reputazione derivatane, si fermò in piedi di fronte all'immagine della dea e la pregò di concedere a Cleobi e a Bitone, i suoi due figli che l'avevano tanto onorata, la sorte migliore che possa toccare a un essere umano. Dopo questa preghiera i giovani celebrarono i sacrifici e il banchetto e poi si fermarono a dormire lì nel tempio; e l'indomani non si svegliarono più: furono colti così dalla morte. Gli Argivi li ritrassero in due statue che consacrarono a Delfi, come si fa con gli uomini più illustri".

32) A quei due dunque Solone assegnava il secondo posto nella graduatoria della felicità; Creso si irritò e gli disse: "Ospite ateniese, la nostra felicità l'hai svalutata al punto da non ritenerci neppure pari a cittadini qualunque?" E Solone rispose: "Creso tu interroghi sulla condizione umana un uomo che sa quanto l'atteggiamento divino sia pieno di invidia e pronto a sconvolgere ogni cosa. In un lungo arco di tempo si ha occasione di vedere molte cose che nessuno desidera e molte bisogna subirle. Supponiamo che la vita di un uomo duri settanta anni; settanta anni da soli, senza considerare il mese intercalare, fanno 25.200 giorni; se poi vuoi che un anno ogni due si allunghi di un mese per evitare che le stagioni risultino sfasate, visto che in settanta anni i mesi intercalari sono 35, i giorni da aggiungere risultano 1050. Ebbene, di tutti i giorni che formano quei settanta anni, cioè di ben 26.250 giorni, non uno solo vede lo stesso evento di un altro. E così, Creso, tutto per l'uomo è provvisorio. Vedo bene che tu sei ricchissimo e re di molte genti, ma ciò che mi hai chiesto io non posso attribuirlo a te prima di aver saputo se hai concluso felicemente la tua vita. Chi è molto ricco non è affatto più felice di chi vive alla giornata, se il suo destino non lo accompagna a morire serenamente ancora nella sua prosperità. Infatti molti uomini, pur essendo straricchi, non sono felici, molti invece, che vivono una vita modesta, possono dirsi davvero fortunati. Chi è molto ricco ma infelice è superiore soltanto in due cose a chi è fortunato, ma quest'ultimo rispetto a chi è ricco è superiore da molti punti di vista. Il primo può realizzare un proprio desiderio e sopportare una grave sciagura più facilmente, ma il secondo gli è superiore perché, anche se non è in grado come lui di sopportare sciagure e soddisfare desideri, da questi però la sua buona sorte lo tiene lontano; e non ha imperfezioni fisiche, non ha malattie e non subisce disgrazie, ha bei figli e un aspetto sempre sereno. E se oltre a tutto questo avrà anche una buona morte, allora è proprio lui quello che tu cerchi, quello degno di essere chiamato felice. Ma prima che sia morto bisogna sempre evitare di dirlo felice, soltanto "fortunato". Certo, che un uomo riunisca tutte le suddette fortune, non è possibile, così come nessun paese provvede da solo a tutti i suoi fabbisogni: se qualcosa produce, di altro è carente, cosicché migliore è il paese che produce più beni. Allo stesso modo non c'è essere umano che sia sufficiente a se stesso: possiede qualcosa ma altro gli manca; chi viva, continuamente avendo più beni, e poi concluda la sua vita dolcemente, ecco, signore, per me costui ha diritto di portare quel nome. Di ogni cosa bisogna indagare la fine. A molti il dio ha fatto intravedere la felicità e poi ne ha capovolto i destini, radicalmente".

33) Creso non rimase per niente soddisfatto di questa spiegazione; non tenne Solone nella minima considerazione e lo congedò; considerava senz'altro un ignorante chi trascurava i beni presenti e di ogni cosa esortava a osservare la fine.

34)  Dopo la partenza di Solone Creso subì la vendetta del dio: la subì, per quanto si può indovinare, perché aveva creduto di essere l'uomo più felice del mondo. Non era trascorso molto tempo quando nel sonno ebbe un sogno rivelatore: sognò le sventure che sarebbero poi effettivamente capitate a suo figlio. Creso aveva due figli, uno dei quali menomato (era muto), mentre l'altro, di nome Atis, primeggiava fra i suoi coetanei in ogni attività; il sogno indicò a Creso chiaramente che Atis sarebbe morto colpito da una punta di ferro. Al risveglio, quando si rese conto del contenuto del sogno, ne provò orrore; allora fece prendere moglie al figlio e siccome prima era abituato a guidare l'esercito lidio, non lo inviò più in nessun luogo per incarichi di questo tipo. Frecce, giavellotti e tutti quegli strumenti che si usano per combattere, li fece asportare dalle sale degli uomini e ammucchiare nelle stanze delle donne, perché nessuno di essi, rimanendo appeso alle pareti, potesse cadere accidentalmente sul figlio.

35)  Quando il figlio era impegnato nelle nozze, giunse a Sardi uno sventurato di nazionalità frigia e di stirpe reale, le cui mani erano impure. Costui si presentò alla reggia di Creso e chiese di ottenere la purificazione secondo le norme locali, e Creso lo purificò. Il rituale di purificazione dei Lidi è pressoché identico a quello dei Greci. Compiuti gli atti rituali, Creso gli chiese chi fosse e da dove venisse: "Straniero, chi sei? Da quale parte della Frigia sei venuto a rifugiarti presso il mio focolare? Quale uomo o quale donna hai ucciso?" E quello rispose: "Signore, io sono nipote di Mida e figlio di Gordio, il mio nome è Adrasto; sono qui perché senza volerlo ho ucciso mio fratello e perché sono stato scacciato da mio padre e privato di ogni cosa". Al che Creso disse: "Si dà il caso che tu sia discendente di persone legate a noi da vincoli di amicizia; e fra amici pertanto tu sei arrivato. Se rimani con noi non ti mancherà nulla e se vivrai di buon cuore questa tua disgrazia, avrai molto da guadagnarci".

36)   E così Adrasto soggiornava presso Creso quando comparve sul monte Olimpo di Misia un grosso esemplare di cinghiale che muovendo dalla montagna distruggeva le coltivazioni dei Misi; più di una volta i Misi avevano organizzato battute di caccia, senza però riuscire ad arrecargli alcun danno, subendone anzi da lui. Infine dei messaggeri Misi si recarono da Creso e gli dissero: "O re, nella nostra regione è comparso un gigantesco cinghiale che ci distrugge le coltivazioni; e noi, con tutto l'impegno che ci mettiamo, non riusciamo ad abbatterlo. Perciò ora ti preghiamo di mandare tuo figlio insieme con giovani scelti e cani, così potremo allontanarlo dai nostri territori". Queste erano le loro richieste, ma Creso, memore del sogno, rispose: "Quanto a mio figlio non se ne parla nemmeno: non lo posso mandare con voi perché si è appena sposato e ora ha da pensare a ben altro. Manderò invece uomini scelti e ogni sorta di equipaggiamento utile alla caccia, e ordinerò agli uomini della spedizione di garantire tutto il loro impegno nell'aiutarvi a scacciare il cinghiale dal vostro paese".

37)  Ma mentre i Misi erano soddisfatti della risposta ricevuta, si fece avanti il figlio di Creso, che aveva udito le richieste dei Misi; visto che suo padre si era rifiutato di inviarlo con loro, il giovane gli disse: "Padre, una volta per noi l'aspirazione più bella e più nobile consisteva nel meritarsi gloria in guerra o nella caccia, ma ora tu mi vieti entrambe le attività; eppure non hai certamente scorto in me qualche segno di vigliaccheria o di paura. Con quale faccia ora devo mostrarmi fra la gente andando e venendo attraverso la città? Che opinione avranno di me i cittadini, e mia moglie, che mi ha appena sposato? Con quale marito crederà di convivere? Adesso perciò o tu mi lasci partecipare alla caccia, oppure mi dai una spiegazione sufficiente a convincermi che è meglio non farlo".

38)E Creso rispose: "Figlio mio, io non agisco così perché abbia scorto in te vigliaccheria o qualche altra cosa spiacevole; ma una visione apparsami nel sonno mi disse che tu avresti avuto una vita breve, che saresti morto colpito da una punta di ferro. Perciò dopo il sogno affrettai le tue nozze e perciò ora non invio te per l'impresa che ho accettato: agisco con cautela per vedere se in qualche modo, finché sono vivo, riesco a sottrarti alla morte. Il destino vuole che tu sia il mio unico figlio: l'altro infatti, che è menomato, non lo considero tale".

39) E il giovane gli rispose: "Ti capisco, padre, e capisco le precauzioni che hai nei miei riguardi dopo un simile sogno. Ma di questo sogno ti è sfuggito un particolare ed è giusto che io te lo faccia notare. Dal tuo racconto risulta che il sogno ti annunciava la mia morte come causata da una punta di ferro: e quali mani possiede un cinghiale? Quale punta di ferro di cui tu possa avere paura? Se ti avesse annunciato la mia morte come provocata da una zanna o da qualcosa del genere, allora sarebbe stato tuo dovere agire come agisci, ma ha parlato di una punta. E allora, visto che non si tratta di andare a combattere contro dei guerrieri, lasciami partire".

40) E Creso concluse: "Figlio mio, si può dire che nell'interpretare il mio sogno tu batti le mie capacità di giudizio: e io, in quanto sconfitto da te, cambio parere e ti lascio partecipare alla caccia".

41)  Detto ciò, Creso fece chiamare il frigio Adrasto al quale, quando lo ebbe davanti, pronunciò il seguente discorso: "Adrasto, - disse - tu eri stato colpito da una dolorosa disgrazia, che non ti rimprovero, e io ti ho purificato e accolto nella mia casa dove ora ti ospito offrendoti ogni mezzo di sussistenza; adesso dunque, visto che per primo ti ho concesso enormi favori, tu sei in debito verso di me di favori uguali; io desidero che tu vegli su mio figlio che sta partendo per una battuta di caccia, che lungo la strada non vi si parino davanti pericolosi ladroni armati di cattive intenzioni. Oltre tutto non puoi esimerti dal recarti là dove tu possa segnalarti con qualche bella impresa: così facevano i tuoi antenati, senza contare che le tue forze te lo consentono ampiamente".

42) E Adrasto gli rispose: "Sovrano, se non me lo chiedessi tu, io non parteciperei a una simile impresa, perché non è decoroso per me, con la disgrazia che ho avuto, accompagnarmi a giovani della mia età dalla vita felice: non è quanto io voglio, anzi ne farei volentieri a meno. Ma ora, poiché sei tu a spingermi e verso di te io devo mostrarmi cortese, in debito come sono di enormi favori, ora sono disposto a farlo; tuo figlio, che affidi alla mia sorveglianza, per quanto dipende da me fai pure conto di vederlo tornare sano e salvo".

43)  Quando Adrasto ebbe dato a Creso la sua risposta, la spedizione partì, con ampio seguito di giovani scelti e di cani da caccia. Giunsero al monte Olimpo e cominciarono a cercare il cinghiale; trovatolo lo circondarono e presero a scagliargli addosso i loro giavellotti: a questo punto l'ospite, proprio quello purificato da Creso, Adrasto, nel tentativo di centrare il cinghiale finì per sbagliarlo colpendo invece il figlio di Creso. Questi, trafitto dalla punta, dimostrò l'esattezza profetica del sogno. Qualcuno corse ad annunciare a Creso l'accaduto: come giunse a Sardi gli raccontò della battuta di caccia e della disgrazia del figlio.

44) Creso, sconvolto dalla morte del figlio, fu ancora più dispiaciuto per il fatto che a ucciderlo era stato l'uomo da lui purificato da un omicidio. Prostrato dalla sciagura, invocava con rabbia Zeus Purificatore, chiamandolo a testimone di ciò che aveva sofferto per mano del suo ospite, e lo invocava come protettore del focolare e dell'amicizia, sempre lo stesso dio ma con attributi diversi: in quanto protettore del focolare perché, avendo accolto nella propria casa lo straniero, senza saperlo aveva dato da mangiare all'uccisore di suo figlio, in quanto protettore dell'amicizia perché lo aveva inviato come difensore e se lo ritrovava ora odiosissimo nemico.

45)  Più tardi tornarono i Lidi portando il cadavere e dietro li seguiva il responsabile della disgrazia: Adrasto, in piedi di fronte al cadavere, si consegnava a Creso protendendo le mani, invitandolo a immolarlo sul corpo del figlio; ricordava la precedente sventura e sosteneva di non avere più diritto di vivere dato che aveva rovinato chi a suo tempo si era fatto suo benefattore. Creso, nonostante il grande dolore per la disgrazia abbattutasi sulla sua famiglia, udendo queste parole ebbe compassione di Adrasto e gli disse: "Ho già da parte tua ogni soddisfazione visto che tu stesso ti assegni la morte come punizione. Tu non hai colpa di questa sciagura se non in quanto ne sei stato strumento involontario: il responsabile forse è un dio, che già da tempo mi aveva preannunciato quanto sarebbe accaduto". Poi Creso diede al figlio degna sepoltura; Adrasto, discendente di Gordio e di Mida, uccisore del proprio fratello e uccisore di chi da quell'omicidio lo aveva purificato, riconoscendo di essere l'uomo più sciagurato del mondo, attese che tutti si fossero allontanati dal sepolcro e lì, proprio sulla tomba, si tolse la vita.

46)  Creso, rimasto privo del figlio, per due anni mantenne un lutto strettissimo. Più tardi la caduta di Astiage figlio di Ciassare e l'assunzione del potere da parte di Ciro, figlio di Cambise, con la conseguente crescita della potenza persiana, distolsero Creso dal suo dolore e determinarono in lui la preoccupazione insistente di frenare, se possibile, l'espansione della potenza dei Persiani prima che divenissero troppo influenti. Con questa idea decise subito di mettere alla prova gli oracoli greci e l'oracolo di Libia inviando corrieri un po' ovunque: a Delfi, ad Abe nella Focide, a Dodona; altri furono mandati ai santuari di Anfiarao e di Trofonio, altri ancora presso i sacerdoti Branchidi, nel territorio di Mileto. Tanti furono gli oracoli greci che Creso mandò a consultare; in Libia inviò un'altra delegazione a interrogare l'indovino di Ammone. In tal modo Creso voleva verificare le conoscenze degli oracoli: se avesse riscontrato che conoscevano la verità, avrebbe inviato nuovi corrieri per chiedere se poteva intraprendere spedizioni militari contro la Persia.

47)  Ai Lidi spediti a saggiare gli oracoli diede le seguenti istruzioni: dovevano tenere il conto esatto dei giorni trascorsi dopo la loro partenza da Sardi; al centesimo giorno dovevano consultare gli oracoli chiedendo loro che cosa stesse facendo in quel momento il re dei Lidi Creso, figlio di Aliatte; dovevano trascrivere parola per parola il responso degli indovini e tornare a riferirlo. Nessuno sa dire quali furono le risposte degli altri oracoli, ma a Delfi, non appena i Lidi furono entrati nel santuario ed ebbero consultato il dio formulando la domanda prescritta, la Pizia diede in versi esametri la seguente rispose:…. “Io della spiaggia conosco le arene e il volume del mare, Il sordomuto comprendo e se pure non parli l’intendo. Di tartaruga dal cuoio robusto un odore mi giunge, Cotta nel bronzo insieme con pezzi di carne di agnello: Bronzo v’è sotto disteso, ed essa di bronzo vestita.”… (  Io so quanti sono i granelli di sabbia e so le dimensioni del mare, io intendo chi è muto e ascolto anche chi non ha voce. Fino a me giunge l'odore di una testuggine dal duro guscio che sta cuocendo nel rame insieme con carni di agnello: c'è bronzo sotto di lei e bronzo sopra).

48)  I Lidi trascrissero il responso della Pizia e partirono per tornare a Sardi. Quando anche gli altri inviati furono presenti, tutti con il loro responso, Creso aprì gli scritti, uno per uno, e ne esaminò il contenuto: nessuno degli altri gli parve soddisfacente, ma quando apprese il responso proveniente da Delfi subito lo accolse con devozione, e ritenne quello di Delfi l'unico vero oracolo, poiché aveva scoperto ciò che lui stava facendo. Infatti, dopo aver inviato i suoi messi presso gli oracoli, aveva tenuto d'occhio con la massima cura la data prestabilita, preparando il suo piano: pensò qualcosa che fosse impossibile indovinare o prendere in considerazione: uccise una testuggine e un agnello e li cucinò personalmente in un lebète di bronzo chiusa da un coperchio, pure di bronzo.

49)  Tale dunque fu il responso che Creso ricevette da Delfi. Quanto all'indovino di Anfiarao non sono in grado di dire quale risposta diede ai Lidi, quando ebbero esaurito il consueto rituale intorno al santuario: nemmeno il testo di questo oracolo ci viene tramandato, ma posso dire che Creso giudicò di avere ricevuto un vaticinio veritiero.

50) Dopodiché Creso cercava di procurarsi il favore del dio di Delfi con offerte imponenti: immolò 3000 capi di bestiame di tutte le specie adatte al sacrificio, ammassò una gigantesca pira sulla quale bruciò lettighe rivestite d'oro e d'argento, boccette d'oro, vesti di porpora e tuniche, sperando di guadagnarsi maggiormente il favore del dio con simili offerte. E a tutti i Lidi ordinò di sacrificare quanto ciascuno potesse. Al termine dei sacrifici fece fondere un enorme quantitativo d'oro e ne ricavò dei mezzi mattoni lunghi sei palmi, larghi tre e spessi uno: erano 117 di numero, di cui quattro di oro puro, ciascuno del peso di due talenti e mezzo, mentre gli altri mezzi mattoni pesavano due talenti essendo costituiti da oro bianco. Fece fondere in oro puro anche la statua di un leone, pesante dieci talenti. Questo leone, quando ci fu l'incendio del tempio di Delfi, cadde dai mattoni, sui quali era appunto collocato: ora si trova nel tesoro di Corinto e pesa sei talenti e mezzo, perché tre talenti e mezzo si fusero e andarono perduti.

51)  Appena pronti tali oggetti, Creso li spedì a Delfi; e vi aggiunse due crateri di grandi dimensioni, uno d'oro e uno d'argento; quello d'oro fu posto a destra di chi entra nel tempio e quello d'argento a sinistra, ma anch'essi vennero dislocati altrove all'epoca dell'incendio del santuario. Ora quello d'oro si trova nel tesoro dei Clazomeni e ha un peso di otto talenti e mezzo e dodici mine, quello d'argento in un angolo del pronao e ha una capacità di 600 anfore: ancora lo usano a Delfi durante le feste delle Teofanie. I Delfi dicono che è opera di Teodoro di Samo, un parere che condivido, perché non è certamente un oggetto fabbricabile da chiunque. Spedì anche quattro orci d'argento, ora nel tesoro dei Corinzi, e offrì due vasi per l'acqua lustrale, uno d'oro e uno d'argento; su quello d'oro c'è una iscrizione che ne attribuisce l'offerta agli Spartani, ma è un falso: l'oggetto è proprio di Creso e la scritta è dovuta a uno di Delfi che voleva ingraziarsi gli Spartani: io ne conosco il nome, ma non lo menzionerò. Dono degli Spartani è il fanciullo dalla cui mano scorre l'acqua, ma certamente non lo sono i due vasi lustrali. Assieme a questi Creso consacrò altri oggetti senza contrassegni e due catini rotondi d'argento e, ancora, una statua d'oro alta tre cubiti, che rappresenta una donna, anzi più precisamente la fornaia di Creso, secondo quanto si dice a Delfi. E inoltre Creso offrì le collane e le cinture della moglie.

52)  Questo è quanto inviò a Delfi. Invece ad Anfiarao, di cui aveva appreso il valore e la sorte sventurata, consacrò uno scudo interamente d'oro e una solida lancia, essa pure d'oro massiccio tanto nell'asta come nelle punte. All'epoca della mia visita entrambi gli oggetti si trovavano ancora a Tebe, e esattamente nel tempio di Apollo Ismenio.

53) Ai Lidi incaricati di portare i doni ai santuari Creso ordinò di chiedere agli oracoli se convenisse muovere guerra ai Persiani e se fosse il caso di aggregarsi qualche esercito amico. I Lidi, giunti a destinazione, consacrarono le offerte e interrogarono gli oracoli: "Creso, re dei Lidi e di altre popolazioni, convinto che questi sono gli unici veri oracoli al mondo, vi destina questi doni degni dei vostri vaticini, e vi chiede se gli conviene muovere guerra contro i Persiani e se è il caso di aggregarsi qualche esercito alleato". Alle loro domande entrambi gli oracoli diedero identica risposta, preannunciando a Creso che, se avesse mosso guerra ai Persiani, avrebbe rovesciato un grande regno; e gli consigliarono di trovare quali fossero i Greci più potenti e di assicurarsene l'amicizia.

54)Venuto a conoscenza dei responsi, Creso se ne compiacque molto: tutto preso dalla speranza di abbattere il regno di Ciro, inviò a Pito una ulteriore delegazione: si informò quanti fossero i Delfi di numero e a ciascuno di loro donò due stateri d'oro. In cambio i Delfi concedettero a Creso e ai Lidi il diritto di precedenza nella consultazione dell'oracolo, l'esenzione dai tributi, il diritto di seggio privilegiato negli spettacoli e la possibilità, per sempre, a ogni Lido che lo desiderasse di diventare cittadino di Delfi.

55) Dopo quei doni Creso si rivolse al santuario per la terza volta: da quando ne aveva riconosciuto la veridicità abusava dell'oracolo. Questa volta chiese se il suo regno sarebbe durato a lungo e la Pizia gli diede il seguente responso: ….”Quando dei Medi re un mulo divenga, tu allor lungo l’Ermo, Ricco di ciottoli, fuggi, re Lidio dai piè delicati; non rimaner, per vergogna di agire da vile fuggendo”….(Quando un mulo sarà divenuto re dei Medi, allora, o Lidio dal piede delicato, lungo l'Ermo ghiaioso fuggi e non fermarti, e non avere vergogna di essere vile).

56)Quando gli giunsero tali parole Creso ne gioì molto più che di tutte le precedenti: non si aspettava certo che un mulo venisse mai a regnare sui Medi al posto di un uomo e quindi né la sua, né la sovranità dei suoi discendenti avrebbero avuto mai fine. Poi si preoccupò di scoprire quali erano i Greci da farsi amici in quanto più potenti, e a forza di indagini risultò che Spartani e Ateniesi prevalevano nettamente all'interno dei loro gruppi etnici, rispettivamente il dorico e lo ionico. Erano in effetti i due popoli preminenti: l'uno di antica origine pelasgica, l'altro di origine ellenica; gli Ateniesi non si erano mai mossi dai territori che occupavano, gli altri avevano compiuto numerosi spostamenti: al tempo del re Deucalione abitavano la Ftiotide, al tempo di Doro figlio di Elleno la regione detta Estiotide alle falde dell'Ossa e dell'Olimpo; cacciati dalla Estiotide ad opera dei Cadmei si erano stanziati a Pindo con il nome di Macedni. Da lì ancora si trasferirono nella Driopide e infine dalla Driopide passarono nel Peloponneso, dove assunsero il nome di Dori.

57) Quale lingua parlassero i Pelasgi non sono in grado di dirlo con esattezza: se è indispensabile fornire qualche indicazione, basandosi sulle popolazioni pelasgiche superstiti, sia quelle insediate oggi nella città di Crestona a nord dei Tirreni e già limitrofe degli attuali Dori nella regione adesso chiamata Tessagliotide, sia quelle che nell'Ellesponto avevano colonizzato Placia e Scilace e avevano condiviso il territorio con gli Ateniesi, o sulle città un tempo pelasgiche ma che poi avevano mutato nome, ebbene, deducendo su queste basi, bisogna concludere che i Pelasgi parlavano una lingua barbara. Se dunque i Pelasgi erano di lingua barbara, allora gli Attici, Pelasgi di stirpe, una volta divenuti Greci dovettero anche cambiare il modo di esprimersi. Infatti, bisogna aggiungere che gli abitanti di Crestona e di Placia parlano due idiomi assolutamente diversi dagli idiomi dei popoli circostanti, ma molto simili fra loro, dimostrando così di avere conservato l'originaria impronta linguistica anche dopo esser immigrati nei rispettivi nuovi territori.

58) A me risulta che il gruppo degli Elleni fin dalla sua origine abbia sempre parlato la stessa lingua: staccatisi dai Pelasgi, erano deboli e poco numerosi, ma poi, estendendo il proprio dominio, crebbero fino all'attuale moltitudine di popolazioni, grazie ai continui apporti di Pelasgi, soprattutto, e di altre etnie barbare. Al confronto mi pare senz'altro che nessun popolo pelasgico, restando barbaro, abbia mai compiuto progressi considerevoli.

59) Di quelle due genti Creso venne a sapere che una, la attica, era retta e tenuta divisa dal figlio di Ippocrate, Pisistrato, allora tiranno di Atene. A Ippocrate era capitato un evento assolutamente prodigioso: si trovava ad Olimpia, come privato cittadino, per assistere ai Giochi e aveva appena terminato un sacrificio quando i lebeti, che erano lì pronti, pieni di acqua e di carni, presero improvvisamente a bollire senza fuoco e a traboccare. Lì accanto per caso c'era Chilone di Sparta; egli, osservato il prodigio, rivolse a Ippocrate i seguenti consigli: per prima cosa non sposare una donna in grado di procreare, se invece aveva già moglie ripudiarla e rinnegare il proprio figlio se era già venuto al mondo. Ma non pare proprio che Ippocrate abbia voluto seguire le indicazioni di Chilone: e così più tardi nacque Pisistrato. Gli Ateniesi della costa e gli Ateniesi dell'interno, i primi capitanati da Megacle figlio di Alcmeone, i secondi da Licurgo figlio di Aristolaide, erano in conflitto fra di loro: Pisistrato mirando al potere assoluto diede vita a una terza fazione: riunì un certo numero di sediziosi, si autodichiarò fittiziamente capo degli Ateniesi delle montagne ed escogitò il seguente stratagemma. Ferì se stesso e le proprie mule e poi spinse il carro nella piazza centrale fingendo di essere sfuggito a un agguato di nemici che, a sentire lui, avrebbero avuto la chiara intenzione di ucciderlo mentre si recava in un suo campo; chiese pertanto che il popolo gli assegnasse un corpo di guardia, anche in considerazione dei suoi meriti precedenti, quando, stratega all'epoca della guerra contro i Megaresi, aveva conquistato il porto di Nisea e realizzato altre grandi imprese. Il popolo ateniese si lasciò ingannare e gli concedette di scegliere fra i cittadini un certo numero di uomini, i quali diventarono i lancieri privati di Pisistrato, o meglio i suoi "mazzieri", visto che lo scortavano armati di mazze di legno. Questo corpo di guardia contribuì al colpo di stato di Pisistrato occupando l'acropoli. Da allora Pisistrato governò su Atene senza riformare le cariche dello stato esistenti e senza modificare le leggi: resse la città amministrandola con oculatezza sulla base degli ordinamenti già in vigore.

60) Non molto tempo dopo i partigiani di Megacle e quelli di Licurgo si misero d'accordo e lo cacciarono dalla città. Così andarono le cose la prima volta che Pisistrato ebbe in mano sua Atene: perse il potere prima che si radicasse saldamente. Ma tra coloro che lo avevano scacciato rinacquero i contrasti e Megacle, messo in difficoltà dai tumulti, finì col mandare un messaggero a Pisistrato offrendogli il potere assoluto a patto che sposasse sua figlia. Pisistrato accettò la proposta e fu d'accordo sulle condizioni; per il suo rientro in Atene ricorsero a un espediente che io trovo assolutamente ridicolo, visto che i Greci fin dall'antichità sono sempre stati ritenuti più accorti dei barbari e meno inclini alla stoltezza e alla dabbenaggine, e tanto più se in quella circostanza attuarono effettivamente un simile disegno in barba agli Ateniesi, che fra i Greci passano per essere i più intelligenti. Nel demo di Peania viveva una donna, di nome Fia, alta quattro cubiti meno tre dita e per il resto piuttosto bella. Vestirono questa donna di una armatura completa, la fecero salire su di un carro, le insegnarono come atteggiarsi per ottenere il più nobile effetto e la guidarono in città facendosi precedere da alcuni araldi, i quali, giunti in Atene, secondo le istruzioni ricevute andavano ripetendo il seguente proclama: "Ateniesi, accogliete di buon grado Pisistrato: Atena in persona, onorandolo sopra tutti gli uomini, lo riconduce sulla acropoli a lei dedicata". Facevano questo annuncio percorrendo la città e ben presto la voce si sparse fino ai demi: "Atena riconduce Pisistrato"; e in città, credendo che Fia fosse la dea in persona, a lei, che era una semplice donna, si rivolsero con devozione; e accolsero Pisistrato.

61) Riavuto il potere nel modo ora esposto, Pisistrato rispettò l'accordo preso con Megacle e ne sposò la figlia; ma poiché aveva già dei figli adulti e correva fama che sugli Alcmeonidi pesasse la maledizione divina, non volendo avere prole dalla nuova moglie, non si univa con lei come vuole natura. La donna, lì per lì, tenne nascosta la cosa, ma poi, che glielo avessero chiesto o meno, ne parlò alla madre; e questa lo riferì al marito. Il fatto fu considerato un terribile affronto da parte di Pisistrato: in preda all'ira com'era, Megacle si riconciliò con quelli della sua fazione. Pisistrato, informato di quanto si stava concretizzando ai suoi danni, non esitò ad allontanarsi dal paese: si rifugiò a Eretria e lì studiò la situazione insieme coi figli. Prevalse il parere di Ippia, di tentare la riconquista del potere, e allora cominciarono a sollecitare doni dalle città che in qualche modo erano obbligate nei loro confronti. E fra le tante città che fornirono ingenti somme di denaro i Tebani superarono tutti con il loro contributo. Insomma, per farla breve, venne il momento in cui tutto era pronto per il rientro in Atene: dal Peloponneso erano arrivati dei mercenari argivi, e un uomo di Nasso, di nome Ligdami, giunse di sua iniziativa, ben fornito di uomini e mezzi, e offrì i suoi servigi.

62) Muovendo da Eretria fecero ritorno in Attica, a distanza di oltre dieci anni dalla loro fuga. In Attica il primo luogo che occuparono fu Maratona; mentre stavano lì accampati si unirono a loro dei ribelli provenienti dalla città, e altri ne affluivano dai demi: tutta gente che abbracciava la tirannide preferendola alla libertà. Costoro quindi si andavano radunando: gli Ateniesi rimasti in città, finché Pisistrato raccoglieva finanziamenti e poi per tutto il tempo che si trattenne a Maratona, non si preoccuparono minimamente; ma quando seppero che stava marciando da Maratona su Atene allora finalmente scesero in campo contro di lui. Mentre l'esercito cittadino marciava incontro agli assalitori, Pisistrato e i suoi si erano mossi da Maratona e avanzavano verso la città; convergendo finirono perciò per incontrarsi nel demo di Pallene, all'altezza del tempio di Atena Pallenide, e lì i due eserciti si schierarono uno di fronte all'altro. In quel momento, spinto da ispirazione divina, si presentò a Pisistrato l'indovino Anfilito di Acarnania, gli si avvicinò e pronunciò la seguente profezia in esametri:…”Ecco, la rete è gettata, distesa è la rete nel mare. Vi si precipiteranno ora i tonni al chiaror della luna”… (La rete è stata lanciata, le sue maglie si sono distese, i tonni vi irromperanno dentro in una notte di luna).

63) Così vaticinava sotto l'ispirazione del dio e Pisistrato comprendendo la profezia dichiarò di accoglierla e guidò in campo l'esercito. Nel frattempo gli Ateniesi della città avevano pensato bene di mangiare e, dopo, si erano messi chi a giocare a dadi, chi a dormire. Pisistrato e i suoi piombarono su di loro e li volsero in fuga. Mentre essi fuggivano Pisistrato trovò la maniera più saggia per impedire che gli Ateniesi si raccogliessero ancora, e anzi per tenerli dispersi. Fece montare a cavallo i suoi figli e li mandò avanti: essi, raggiungendo i fuggitivi, parlavano loro secondo le disposizioni di Pisistrato, esortandoli uno per uno a non avere paura e a tornare ciascuno alle proprie occupazioni.

64)Gli Ateniesi si lasciarono persuadere e così Pisistrato per la terza volta fu padrone di Atene; questa volta rese più saldo il proprio potere grazie alle molte guardie e agli ingenti contributi in denaro, che gli provenivano tanto dall'Attica come dal fiume Strimone. Inoltre prese in ostaggio i figli degli Ateniesi che erano rimasti a combattere senza darsi subito alla fuga e li tenne sequestrati a Nasso (perché Pisistrato aveva sottomesso anche Nasso e l'aveva affidata a Ligdami). Poi obbedendo agli oracoli purificò l'isola di Delo, in questo modo: fece disseppellire e trasportare in un'altra parte dell'isola tutti i resti umani che si trovavano in zone visibili dal santuario. E così Pisistrato fu signore di Atene; ma vari Ateniesi erano caduti nella battaglia e altri avevano seguito gli Alcmeonidi in esilio lontano dalla loro patria.

65)  Questa era la situazione in Atene all'epoca in cui Creso raccoglieva le sue informazioni; dal canto loro gli Spartani erano appena usciti da un periodo di grosse difficoltà e stavano ormai prevalendo nella guerra contro Tegea. Effettivamente nel periodo in cui a Sparta regnarono Leonte ed Egesicle, gli Spartani, che avevano risolto a proprio favore gli altri conflitti, non riuscivano a superare l'ostacolo di Tegea. In epoca ancora precedente a questi avvenimenti erano, si può dire, i più arretrati in tutta la Grecia in fatto di legislazione interna ed erano isolati dal punto di vista internazionale. Il progresso verso un buon ordinamento legislativo avvenne nel modo che ora vi narro. Una volta all'oracolo di Delfi si recò Licurgo, uno degli Spartiati più in vista; non appena fu entrato nel sacrario la Pizia così parlò:…Giungi al mio tempio opulento, Licurgo, da Zeus bene amato, Come da tutti i celesti Dei ch’hanno magione in Olimpo. Come dovrò proclamarti- se umana o divina natura- Esito: ma ti ritengo piuttosto divino, Licurgo”… (Licurgo, tu vieni al mio tempio opulento tu, caro a Zeus e a quanti abitano le dimore dell'Olimpo. Sono in dubbio se dichiararti dio o essere umano ma penso piuttosto che tu sei un dio, Licurgo). Alcuni aggiungono che la Pizia gli suggerì anche l'attuale costituzione degli Spartiati, ma a quanto raccontano gli Spartani stessi, Licurgo la introdusse derivandola da quella di Creta al tempo in cui lui era tutore di suo nipote, il re di Sparta Leobote. Non appena assunse la tutela provvide a riformare tutte le leggi e vigilò che non si verificassero violazioni. In seguito Licurgo fissò gli ordinamenti militari: corpi speciali dell'esercito, unità di trenta uomini, mense comuni, e istituì, inoltre, le cariche di eforo e di geronte.

66)  Con simili riforme gli Spartani ottennero una buona legislazione; e alla morte di Licurgo gli dedicarono un santuario che è tuttora molto venerato. Poiché risiedono in un buon territorio e costituiscono una massa non indifferente di uomini, ebbero un rapido sviluppo e raggiunsero un notevole grado di prosperità. Al punto che non si accontentarono più di vivere in pace, ma, presumendo di essere più forti degli Arcadi, consultarono l'oracolo di Delfi sull'Arcadia intera: e la Pizia diede loro il seguente responso:…” Tu mi domandi l’Arcadia: gran cosa: non te la concedo. Molti mortali ci sono in Arcadia, che mangiano ghiande, E ti terranno lontano. Ma io non t’invidio conquista. Voglio a te dare Tegea percossa dai pie’, per la danza; e la sua bella pianura tu misurerai con la fune.”…. (Mi chiedi l'Arcadia? Chiedi molto: non te la concederò. In Arcadia ci sono molti uomini che si nutrono di ghiande i quali vi respingeranno; ma non voglio opporti solo un rifiuto: ti concederò Tegea, battuta dai piedi, per ballare, e la sua bella pianura, da misurare con la fune). Appresa la risposta gli Spartani si tennero lontani da tutti gli altri Arcadi, ma intrapresero una spedizione militare contro Tegea; e avevano tanta fiducia nell'ambiguo responso che portarono con sé anche le catene, per essere pronti a rendere schiavi i Tegeati. Ma quando furono sconfitti nella battaglia, quanti di loro rimasero prigionieri furono costretti a lavorare la terra della pianura di Tegea dopo aver misurato con la fune la parte spettante a ciascuno e incatenati con gli stessi ceppi che si erano portati dietro. Questi ceppi, gli stessi che servirono a incatenarli, li ho visti io, ancora intatti, a Tegea, appesi tutto intorno al tempio di Atena Alea.

67)  Durante questo primo conflitto gli Spartani continuarono ad avere la peggio negli scontri contro i Tegeati, ma al tempo di Creso e del regno spartano di Anassandride e di Aristone, gli Spartiati ormai avevano acquistato una sicura superiorità bellica, ed ecco come. Visto che in guerra risultavano sempre inferiori ai Tegeati, inviarono a Delfi una delegazione a chiedere quale dio dovessero propiziarsi per prevalere nella guerra contro Tegea. La Pizia rispose che ci sarebbero riusciti quando avessero traslato nella loro città le ossa di Oreste figlio di Agamennone. Ma poiché non erano capaci di scoprire il luogo in cui Oreste era stato seppellito, mandarono di nuovo a chiedere al dio dove esattamente giacesse Oreste. E agli inviati la Pizia diede la seguente risposta: …”V’è nell’Arcadia Tegea, cittade ch’è sita in pianura; Ivi due venti pur soffiano: necessità li costringe. Ivi a percossa percossa risponde, e sul male è un malanno. L’Agamennonide qui la frugifera terra rinchiude. Questi portandoti in patria sarai di Tegea il patrono.”…(In Arcadia c'è una città, Tegea, in una aperta regione: dove soffiano due venti sotto dura costrizione, dove c'è colpo e ciò che respinge il colpo, dove male giace su male, lì la terra, generatrice di vita, racchiude il figlio di Agamennone. Quando lo avrai con te sarai signore di Tegea). Anche dopo aver ricevuto questa risposta, gli Spartani non riuscivano affatto a scoprire il luogo in questione, pur cercandolo dovunque; finché lo trovò un certo Lica, uno degli Spartiati che possono onorarsi del titolo di Agatoergi. Gli Agatoergi sono quei cinque cittadini di anno in anno più anziani fra coloro che si congedano dalla cavalleria: essi per tutto l'anno in cui escono dalle file dei cavalieri hanno l'obbligo di non rimanere inattivi e di accettare missioni all'estero per conto dello stato.

68)Ricopriva dunque questo incarico Lica quando, grazie ad un colpo di fortuna e alla sua intelligenza, trovò a Tegea la tomba di Oreste. Esistevano allora libere relazioni fra Sparta e Tegea; Lica, entrato in una fucina, se ne stava ad osservare ammirato la lavorazione del ferro. Il fabbro si accorse del suo stupore e interrompendo il proprio lavoro gli disse: "Ospite spartano, sono sicuro che rimarresti a bocca aperta se vedessi quello che ho visto io, dal momento che guardi con tanta meraviglia battere il ferro. Devi sapere che io volevo costruire un pozzo nel mio cortile e scavando ho urtato in una bara lunga sette cubiti. Non potendo credere che fossero mai esistiti uomini più alti degli attuali, la scoperchiai e vidi un cadavere lungo quanto la bara. Lo misurai e lo seppellii di nuovo". Il fabbro gli raccontava quanto aveva visto e Lica riflettendoci ne arguì che quel morto fosse Oreste; lo deduceva dal testo dell'oracolo, interpretato così: nei due mantici del fabbro, che aveva sott'occhio, riconobbe i venti, nel martello e nell'incudine il colpo e ciò che respinge il colpo, nel ferro battuto il male che giace sul male, interpretando in base al principio che il ferro sia stato scoperto per il male dell'uomo. Avendo compreso l'enigma, fece ritorno a Sparta e riferì ai suoi concittadini come stavano le cose. Essi lo accusarono di propagazione di notizie false e lo bandirono dalla città. Lica tornò a Tegea e narrando al fabbro quanto gli era accaduto cercò, ma senza successo, di prendere in affitto da lui quel cortile. Col tempo riuscì a convincerlo e vi si poté installare; allora disseppellì la bara, raccolse le ossa di Oreste e con esse rientrò a Sparta. E da quel momento, ogni volta che avevano luogo degli scontri con i Tegeati, gli Spartani avevano sempre la meglio. E ormai essi avevano sottomesso anche la maggior parte del Peloponneso.

69)  Creso, venuto a conoscenza di tutti questi fatti, inviò a Sparta dei messaggeri, latori di doni e di una richiesta di alleanza e bene istruiti sulle parole da riferire. Quando arrivarono a Sparta essi dichiararono: "È stato Creso, re dei Lidi e di altre popolazioni, a mandarci qui, affidandoci questo messaggio: "Spartani, il dio mi ha ordinato per bocca di un oracolo di rendermi amico il popolo greco, e io so che voi siete i primi della Grecia: pertanto obbedendo alla parola del dio a voi rivolgo il mio appello, desideroso di diventare vostro amico e alleato, senza inganni, senza secondi fini". E fu quanto i messaggeri di Creso riferirono da parte del loro re; gli Spartani, a cui era noto il responso in questione, furono molto lieti della venuta dei Lidi e strinsero vincoli giurati di amicizia e di alleanza militare. Del resto erano legati da alcuni benefici ricevuti da Creso in tempi precedenti: a Sardi gli Spartani avevano mandato a comprare dell'oro, di cui intendevano servirsi per la fabbricazione della statua di Apollo che ora si trova sul Tornace, in Laconia, e Creso, benché fossero disposti a pagarlo, gliene aveva offerto in dono.

70) Per questi motivi gli Spartani accettarono il patto di alleanza e anche perché li aveva scelti come alleati anteponendoli a tutti gli altri Greci. E oltre a dichiararsi disponibili a ogni appello fecero fabbricare un cratere di bronzo, decorato con figure lungo il bordo esterno e tanto grande da avere una capacità di 300 anfore: lo donarono a Creso intendendo così contraccambiarlo. Questo cratere non arrivò mai a Sardi, fatto di cui si danno due diverse spiegazioni: gli Spartani sostengono che quando il cratere durante il viaggio verso Sardi venne a trovarsi all'altezza dell'isola di Samo, gli abitanti di Samo, informati, li assalirono con lunghe navi da battaglia e se ne impadronirono; invece i Sami raccontano che gli Spartani incaricati del trasporto avevano ritardato, sicché poi, quando giunse la notizia della caduta di Sardi e della cattura di Creso, decisero di cedere l'oggetto in Samo: lo acquistarono dei privati cittadini per offrirlo al tempio di Era; poi, forse, gli stessi che lo avevano venduto, una volta tornati a Sparta, raccontarono di essere stati depredati dai Sami. Così andarono le cose a proposito del cratere.

 71)Dal canto suo Creso, fraintendendo il senso dell'oracolo, organizzava una invasione della Cappadocia, convinto di abbattere Ciro e la potenza persiana. Mentre Creso si preparava a marciare contro i Persiani, un lido di nome Sandani che già in occasioni precedenti aveva dimostrato di essere un saggio, ma che dopo il parere espresso in questa circostanza si guadagnò la massima reputazione in Lidia, diede a Creso il seguente consiglio: "Mio re, - gli disse - tu stai facendo preparativi per combattere contro uomini che portano brache di cuoio e di cuoio anche il resto dei loro vestiti, che si cibano non di ciò che vogliono ma di ciò che hanno, perché la loro terra è avara; inoltre non toccano vino, ma bevono solo acqua, non hanno fichi da mangiare e nient'altro di buono. Insomma se li batti cosa potrai ricavare da loro, visto che non possiedono nulla? Se invece rimani sconfitto, pensa a quanti beni perdi! Se faranno tanto di gustare le nostre risorse, se le terranno strette e noi non potremo mai più liberarci dei Persiani. Per me io ringrazio gli dèi che non mettono in mente ai Persiani di muovere guerra ai Lidi". Pur con questi argomenti non riusciva a persuadere Creso. In effetti i Persiani prima di sottomettere la Lidia non possedevano nulla di delicato e di buono.

72) Gli abitanti della Cappadocia dai Greci sono chiamati Siri. Questi Siri prima del dominio persiano erano stati sudditi dei Medi; allora lo erano di Ciro. Il confine tra il regno dei Medi e quello dei Lidi correva lungo il fiume Alis, il quale scende dal monte Armeno attraverso la Cilicia e poi, proseguendo nel suo corso, ha sulla riva destra i Matieni e sulla sinistra i Frigi; più avanti risale verso nord e separa i Siri della Cappadocia, sulla destra, dai Paflagoni, sulla sinistra. In tal modo il fiume Alis delimita quasi tutta l'Asia inferiore, a partire dal mare che fronteggia l'isola di Cipro fino al Ponto Eusino; questa zona è un po' come una strozzatura dell'intero continente: un corriere equipaggiato alla leggera impiega cinque giorni a percorrerla.

73)    Creso decise di aggredire la Cappadocia per varie ragioni, un po' per desiderio di nuove terre da annettere ai propri possedimenti, ma soprattutto perché aveva fiducia nell'oracolo e voleva vendicare Astiage contro Ciro. Bisogna sapere che Ciro figlio di Cambise aveva rovesciato dal trono e teneva imprigionato Astiage, figlio di Ciassare e cognato di Creso nonché re dei Medi; cognato di Creso lo era divenuto come sto per raccontare. In seguito a una sedizione una tribù di nomadi Sciti era penetrata nel territorio dei Medi; a quell'epoca re dei Medi era il nipote di Deioce e figlio di Fraorte Ciassare il quale in un primo momento aveva trattato con riguardo questi Sciti, considerandoli supplici; li teneva in tanta considerazione che affidò loro alcuni giovani perché ne imparassero la lingua e la tecnica di tiro con l'arco. Passò del tempo; gli Sciti andavano regolarmente a caccia, e ne tornavano regolarmente con qualche preda, ma una volta accadde che non riuscirono a prendere nulla; vedendoli tornare a mani vuote Ciassare, che era, e lo dimostrò, eccessivamente collerico, si rivolse loro piuttosto duramente, finendo per offenderli. Vistisi oltraggiati in quel modo da Ciassare e convinti di non esserselo meritato, gli Sciti decisero di tagliare a pezzi uno dei giovani affidati alle loro cure, di cucinarne le carni come di solito preparavano la selvaggina e di servirle a Ciassare come se fosse cacciagione; dopo di che sarebbero riparati in tutta fretta a Sardi presso il re Aliatte figlio di Sadiatte. E così avvenne: Ciassare e i suoi compagni di tavola mangiarono quelle carni e gli Sciti, autori del misfatto, si fecero supplici di Aliatte.

74)     Dopo qualche tempo, dato che Aliatte si rifiutava di soddisfare le richieste di Ciassare di consegnare gli Sciti, fra Lidi e Medi scoppiò una guerra, lunga cinque anni, nei quali varie volte i Medi sconfissero i Lidi e varie volte i Lidi sconfissero i Medi; in quella guerra ebbe luogo anche una battaglia notturna. Mantennero un sostanziale equilibrio fino alla fine del conflitto, al sesto anno di lotta, quando, durante una battaglia, nell'infuriare degli scontri, improvvisamente il giorno si fece notte. Questa trasformazione del giorno era stata preannunciata agli Ioni da Talete di Mileto, che aveva previsto come scadenza proprio l'anno in cui il fenomeno si verificò. Lidi e Medi, quando videro le tenebre sostituirsi alla luce, smisero di combattere e si affrettarono entrambi a stipulare un trattato di pace. I mediatori dell'accordo furono Siennesi di Cilicia e Labineto di Babilonia. Costoro sollecitarono anche un giuramento solenne e combinarono un matrimonio incrociato: stabilirono che Aliatte concedesse sua figlia Arieni al figlio di Ciassare Astiage, perché se non ci sono solidi legami di parentela i trattati, di solito, non durano. Presso questi popoli il rituale del giuramento è identico a quello greco: in più si praticano una incisione sulla pelle del braccio e si succhiano a vicenda un po' di sangue.

75)     Ciro, per una ragione che esporrò più avanti, aveva spodestato e teneva prigioniero Astiage, che era suo nonno materno: è quanto Creso gli rimproverava allorché mandò a interrogare l'oracolo sulla possibilità di attaccare la Persia; ottenuto l'ambiguo responso, si illuse di avere l'oracolo dalla propria parte e si mosse contro il territorio persiano. Quando giunse sulla riva del fiume Alis, io credo che fece passare dall'altra parte le sue truppe servendosi dei ponti allora esistenti; ma una versione dei fatti molto diffusa fra i Greci vuole attribuire il merito dell'attraversamento a Talete di Mileto. Si dice infatti che Talete si trovasse lì nell'esercito nel momento in cui Creso era in grave difficoltà non sapendo come traghettare i suoi soldati (perché a quell'epoca non sarebbero esistiti ponti sull'Alis); allora pare che Talete sia riuscito a far scorrere anche sul lato destro dell'esercito quel fiume che prima avevano solo sulla sinistra, e ci riuscì nella maniera seguente. Ordinò di scavare un profondissimo canale semicircolare che iniziava a monte dell'accampamento; lo scopo era quello di incanalare le acque e di farle scorrere alle spalle dell'esercito accampato, per poi farle rifluire nel vecchio letto una volta superato l'accampamento; così il fiume fu diviso in due rami che divennero immediatamente guadabili. C'è persino chi sostiene che l'antico letto fu del tutto prosciugato, un'ipotesi per me del tutto inaccettabile: come avrebbero potuto in tal caso attraversare il canale al ritorno?

76)     Creso dunque attraversò il fiume con le sue truppe e si spinse in quella parte della Cappadocia che viene chiamata Pteria; la Pteria è la regione che si estende grosso modo a sud della città di Sinope sul Ponto Eusino ed è la zona più fortificata del paese; qui si accampò cominciando a devastare i possedimenti dei Siri. Espugnò la città di Pteria e ne ridusse in schiavitù gli abitanti, occupò tutte le località circostanti e si accanì a saccheggiare quella regione, che non aveva nessuna colpa verso di lui. Ciro si diresse contro Creso dopo aver radunato l'esercito e prese con sé tutte le popolazioni che lo separavano dall'invasore. Prima di muovere le sue truppe aveva inviato araldi alle città della Ionia nel tentativo di sollevarle contro Creso; ma gli Ioni non si erano lasciati convincere. Ciro raggiunse Creso e pose il proprio accampamento di fronte al suo: qui, nella regione di Pteria misurarono le rispettive forze. Ci fu una terribile battaglia, con numerosi caduti da entrambe le parti, che si interruppe al sopraggiungere della notte senza che uno dei due eserciti fosse riuscito a prevalere.

77)     Tanto fu l'impegno profuso da tutti i combattenti. Creso, insoddisfatto della consistenza numerica del proprio esercito (le truppe che avevano combattuto erano assai inferiori a quelle di Ciro), a causa di tale sua insoddisfazione e visto che il giorno dopo Ciro non arrischiava un altro assalto, tornò precipitosamente a Sardi con l'intenzione di chiamare in suo aiuto gli Egiziani (aveva stretto una alleanza pure con il re egiziano Amasi ancora prima che con gli Spartani); di far accorrere anche i Babilonesi (anche con loro aveva stipulato un trattato di alleanza militare; a quell'epoca il re di Babilonia era Labineto); di notificare agli Spartani la scadenza entro la quale presentarsi; contava di riunire gli alleati e radunare il proprio esercito, di lasciar passare l'inverno e di marciare contro i Persiani all'inizio della primavera. Con questo piano in mente, appena giunse a Sardi inviò araldi ai diversi alleati per avvisarli che il raduno era fissato a Sardi di lì a quattro mesi. L'esercito di cui già disponeva e che si era battuto contro i Persiani, ed era composto di mercenari, lo congedò tutto e lasciò che si sciogliesse: non avrebbe mai immaginato che Ciro, dopo aver sostenuto una battaglia dall'esito così equilibrato, si sarebbe spinto fino a Sardi.

78)     Mentre Ciro meditava questo suo piano, i sobborghi di Sardi furono invasi dai serpenti; e, al loro apparire, i cavalli, abbandonati i pascoli consueti, accorsero a divorarli. Creso vedendo ciò pensò che si trattasse, come in effetti era, di un presagio; subito inviò degli incaricati ai Telmessi, i famosi indovini. Gli inviati di Creso giunsero a destinazione e appresero il significato del prodigio ma non riuscirono a informarne il re: prima che potessero imbarcarsi per ritornare a Sardi, Creso era stato fatto prigioniero. I Telmessi avevano sentenziato che Creso doveva attendersi l'invasione del proprio paese da parte di un esercito straniero il quale avrebbe assoggettato la popolazione locale: spiegavano che il serpente era il figlio della terra e che il cavallo rappresentava il nemico straniero. I Telmessi diedero questa risposta quando Creso era già stato catturato ma quando ancora non potevano essere al corrente di ciò che era accaduto a lui personalmente e alla città di Sardi.

79)                       Non appena Creso si fu messo sulla via del ritorno, dopo la battaglia svoltasi nella Pteria, Ciro intuì che Creso, dopo essersi ritirato, avrebbe sciolto l'esercito; riflettendo trovò che la cosa fondamentale a quel punto era avanzare su Sardi con la massima celerità possibile, prima che le forze dei Lidi si radunassero una seconda volta. Prese questa decisione e agì con rapidità: spinse le sue truppe in Lidia e in pratica fu lui stesso ad annunciare a Creso il proprio arrivo. Allora Creso, benché messo in grave difficoltà dal corso degli eventi, così diversi da come se li era prospettati, tuttavia guidò i suoi Lidi alla battaglia. A quell'epoca non esisteva in Asia un popolo più valoroso e più forte dei Lidi: combattevano da cavallo, armati di lunghe lance ed erano tutti eccellenti cavalieri.

80)                       Si fronteggiarono nella pianura antistante la città di Sardi, una pianura ampia e sgombra: attraverso di essa scorrono l'Illo e altri torrenti immettendosi nel fiume principale, l'Ermo, che nasce da un monte sacro alla Gran Madre di Dindimo e sfocia poi in mare presso la città di Focea. Ciro, quando vide i Lidi schierati per la battaglia, ebbe paura della loro cavalleria e dietro suggerimento del Medo Arpago operò come segue: radunò tutti i cammelli al seguito del suo esercito per il trasporto di vettovagliamenti e salmerie, li sbarazzò del carico e li fece montare da soldati equipaggiati da cavalieri; al termine di tali preparativi, ordinò a questi soldati di marciare in testa all'esercito contro la cavalleria di Creso; ordinò poi alla fanteria di avanzare dietro ai cammelli e infine alle spalle dei fanti schierò l'intera sua cavalleria. Quando tutti furono al loro posto, diede l'ordine di massacrare senza pietà ogni Lidio che trovassero sulla loro strada, ma di non uccidere Creso, anche se avesse tentato di resistere alla cattura. Queste furono le sue disposizioni: i cammelli li schierò di fronte alla cavalleria nemica perché i cavalli hanno un grande terrore dei cammelli, non riescono a sopportarne la vista e neppure a sentirne l'odore. Appunto per ciò aveva escogitato questo astuto espediente, per impedire a Creso di utilizzare la cavalleria, con la quale invece il re lidio contava di coprirsi di gloria. In effetti quando avvenne lo scontro, non appena ebbero fiutato e visto i cammelli, i cavalli retrocedettero, e Creso vide andare in fumo così tutte le sue speranze. I Lidi tuttavia non si persero di coraggio per questo, anzi, come si resero conto di ciò che stava accadendo, balzarono di sella e si gettarono come fanti contro i Persiani. Alla fine, dopo molte perdite da entrambe le parti, i Lidi presero la fuga: si asserragliarono dentro le mura della città, dove furono assediati dai Persiani.

81)                       I Persiani dunque posero il loro assedio; e Creso, credendo che tale situazione si sarebbe protratta a lungo, cominciò a fare uscire dei messaggeri dalla cinta delle mura inviandoli ai propri alleati. I messaggeri precedenti portavano la richiesta di concentrare gli aiuti a Sardi entro un termine di quattro mesi, questi invece furono mandati a sollecitare soccorsi con la massima urgenza, visto che Creso si trovava già assediato.

82)                       Fra le varie città alleate a cui mandò i suoi messaggi, c'era ovviamente anche Sparta. Proprio in quel periodo gli Spartani avevano una contesa aperta con Argo a proposito di una regione chiamata Tirea: gli Spartani avevano sottratto la Tirea al dominio di Argo e la tenevano in loro potere. Il fatto è che tutta la regione a ovest di Argo fino al capo Malea, tanto la parte continentale quanto Citera e le altre isole, era in mano degli Argivi. Gli Argivi accorsero a difesa del territorio che veniva loro sottratto: allora concordarono, dopo varie trattative, di far combattere trecento soldati per parte e di assegnare la regione ai vincitori. Il grosso dei due eserciti doveva ritirarsi nelle rispettive sedi e non assistere al combattimento per evitare che una delle due parti, vedendo i propri campioni in difficoltà, accorresse in loro aiuto. Stretto questo patto, si ritirarono; i due gruppi di soldati scelti rimasero sul campo e diedero inizio allo scontro. Si batterono con pari successo, finché, di seicento che erano, rimasero in tre: per gli Argivi Alcenore e Cromio, per gli Spartani Otriade. Al calar della notte sopravvivevano solo questi tre. I due Argivi, ritenendosi vincitori, tornarono di corsa ad Argo, invece lo Spartano Otriade spogliò delle armi i cadaveri argivi, le trasportò nel proprio campo e continuò ad occupare il suo posto di combattimento. Il giorno dopo vennero i due eserciti per informarsi sull'esito della lotta e a quel punto entrambi si dichiararono vincitori: gli Argivi sostenendo di essere rimasti in numero superiore, gli Spartani facendo notare che gli avversari erano fuggiti mentre il loro campione era rimasto sul campo e aveva spogliato i cadaveri nemici; insomma, litigando vennero alle mani e ingaggiarono una vera e propria battaglia che fu vinta dagli Spartani dopo grandi perdite da entrambe le parti. A partire da quel momento gli Argivi, che per un ben saldo costume portavano i capelli molto lunghi, si rasarono il capo e stabilirono per legge, con minaccia di maledizione, che nessun Argivo si lasciasse mai più crescere i capelli e che le donne non portassero mai più ornamenti d'oro, fino a quando non avessero riconquistato Tirea. Invece gli Spartani introdussero una norma del tutto contraria: essi, che non avevano mai portato i capelli lunghi, da quel momento se li lasciarono crescere. E si racconta che Otriade, l'unico superstite dei trecento, vergognandosi di ritornare a Sparta mentre tutti i suoi compagni erano morti, si sia tolto la vita ancora lì, nella Tirea.

83)                       Questa era la situazione degli Spartani quando giunse l'araldo di Sardi a richiedere soccorsi per Creso assediato. Nonostante tutto essi, come ebbero udito l'araldo, si mossero per organizzare i soccorsi. Quando ormai avevano terminato i preparativi e le navi erano pronte a salpare, giunse un secondo messaggio ad annunciare che le fortificazioni dei Lidi erano state espugnate e che Creso era stato fatto prigioniero. Gli Spartani, profondamente addolorati per l'accaduto, desistettero dalla spedizione.

84)                       Ecco come i Persiani espugnarono Sardi: Creso subiva ormai l'assedio da quattordici giorni, quando Ciro mandò dei cavalieri attraverso le file del proprio esercito a diffondere un annuncio: prometteva un grosso premio a chi avesse scavalcato per primo le mura nemiche. In seguito, dopo tanti inutili tentativi, quando tutti gli altri ormai avevano rinunciato, ci provò un Mardo, di nome Ireade, scalando quella parte dell'acropoli dove non era stata posta alcuna sentinella proprio perché non si temeva che da lì potesse venire conquistata; infatti su quel lato la rocca scende giù a picco e si presenta inespugnabile. Quello era anche l'unico lato intorno al quale l'antico re di Sardi Melete non aveva fatto passare il leone natogli dalla sua concubina, allorquando i Telmessi avevano sentenziato che Sardi non sarebbe mai caduta se il leone avesse compiuto il giro delle mura; Melete lo aveva condotto intorno alle fortificazioni in ogni punto in cui l'acropoli si prestava a un assalto, ma aveva escluso proprio quello in quanto scosceso e quindi, come credeva, inespugnabile: si tratta del lato della città che guarda verso il Tmolo. Ebbene il Mardo Ireade il giorno prima aveva scorto un Lidio scendere da questa parte dell'acropoli per recuperare un elmo rotolato dall'alto; notato il fatto, non se l'era scordato. Allora diede personalmente la scalata e altri Persiani lo seguirono; quando furono saliti in tanti, Sardi fu presa e l'intera città messa a sacco.

85)                       Ed ecco cosa accadde a Creso personalmente: come ho già una volta ricordato aveva un figlio che era ben dotato per il resto, ma muto. Al tempo delle sue passate fortune Creso aveva fatto di tutto per lui e fra gli altri tentativi escogitati aveva anche mandato a interrogare in proposito l'oracolo di Delfi. E la Pizia così gli aveva risposto:…”Stirpe di Lidi, su molti regnante, stoltissimo Creso, Mal tu desideri udir per le case la voce bramata, Della parola del figlio: molto peggio è per te non udirla. Giorno fatale sarà, quando udrai la sua prima parola.”… (Tu, che sei di stirpe lidia e re di molti popoli, stoltissimo Creso, non augurarti di udire in casa tua la desideratissima voce di tuo figlio. Sarebbe molto meglio che ciò non accadesse. Parlerà per la prima volta in un giorno di sventura). Effettivamente quando le mura furono espugnate, un Persiano che non lo aveva riconosciuto stava aggredendo Creso per ucciderlo; Creso dal canto suo, pur vedendosi assalito, non se ne curò: nella sciagura che ormai gli era toccata non gli importava di morire sotto i colpi. Ma suo figlio, il muto, quando vide che il Persiano lo stava aggredendo, per la paura e per il dolore sciolse la voce e gridò: "Uomo, non uccidere Creso!". Questa fu la prima volta; poi conservò la favella per tutta la vita.

86)                       I Persiani occuparono Sardi e fecero prigioniero Creso al quattordicesimo anno del suo regno e al quattordicesimo giorno di assedio: Creso, come aveva previsto l'oracolo, pose fine a un grande regno, il proprio. Quando i Persiani lo catturarono, lo condussero davanti a Ciro; Ciro ordinò di erigere una grande pira e vi fece salire Creso legato in catene e con lui quattordici giovani Lidi; la sua intenzione era di consacrare queste primizie a qualche dio o forse voleva sciogliere un voto; o forse addirittura, avendo sentito parlare della devozione di Creso, lo destinò al rogo curioso di vedere se qualche dio lo avrebbe salvato dal bruciare vivo. Così agiva Ciro; ma a Creso, ormai in piedi sopra la pira, nonostante la drammaticità del momento, venne in mente il detto di Solone: "Nessuno che sia vivo è felice"; e gli parvero parole ispirate da un dio. Con questo pensiero, sospirando e gemendo, dopo un lungo silenzio, pronunciò tre volte il nome di Solone. Ciro lo udì e ordinò agli interpreti di chiedere a Creso chi stesse invocando; essi gli si avvicinarono e lo interrogarono. Creso dapprima evitò di rispondere alle domande, poi, cedendo alle insistenze rispose: "Uno che avrei dato molto denaro perché fosse venuto a parlare con tutti i re". Ma poiché queste parole suonavano incomprensibili, gli chiesero ulteriori spiegazioni. Visto che continuavano a infastidirlo con le loro insistenze, raccontò come una volta si fosse recato da lui Solone di Atene e dopo aver visto le sue ricchezze le avesse disprezzate; ne riferì anche le affermazioni e narrò come poi tutto si fosse svolto secondo le parole che Solone aveva rivolto non soltanto a lui, Creso, ma a tutto il genere umano e specialmente a quanti a loro proprio giudizio si ritengono felici. Mentre Creso raccontava questi fatti, la pira, a cui era stato appiccato il fuoco, bruciava ormai tutto intorno. Ciro udì dagli interpreti il racconto di Creso e cambiò parere: pensò che lui, semplice essere umano, stava mandando al rogo, ancora vivo, un altro essere umano, che non gli era stato inferiore per fortune terrene; inoltre gli venne timore di una vendetta divina, al pensiero che nella condizione dell'uomo non vi è nulla di stabile e sicuro, e ordinò di spegnere al più presto il fuoco ormai divampante e di far scendere Creso e i suoi compagni. Ma nonostante tutti i tentativi non riuscivano ad avere ragione delle fiamme.

87)                       I Lidi raccontano che a questo punto Creso, resosi conto del cambiamento avvenuto in Ciro e vedendo che tutti si sforzavano di domare il fuoco e non ci riuscivano, invocò ad alta voce Apollo, supplicandolo di stargli accanto e di salvarlo dalla sventura in cui si trovava, se mai una delle sue offerte gli era riuscita gradita. Invocava il dio fra le lacrime quando all'improvviso il cielo, prima sereno e privo di vento, si annuvolò, scoppiò un temporale e cadde un violentissimo acquazzone che spense completamente le fiamme. Allora Ciro, resosi conto che Creso era un uomo giusto e caro agli dei, lo fece scendere dal rogo e gli chiese: "Creso, quale uomo ti convinse a marciare contro le mie terre, a essermi nemico invece che amico?" E Creso rispose: "Sovrano, ho agito così per la tua felicità e per la mia rovina: di tutto questo il colpevole fu il dio dei Greci, che mi esortò alla guerra. Perché nessuno è così folle da preferire la guerra alla pace: in pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono i padri a seppellire i figli. Ma piaceva forse a un dio che le cose andassero come sono andate".

88)                       Così Creso rispose. Ciro lo liberò dalle catene e lo fece sedere al suo fianco trattandolo con molti riguardi: Ciro lo guardava con una sorta di ammirazione e così quelli del suo seguito. Dal canto suo Creso rifletteva in silenzio, ma a un certo punto si sollevò e, vedendo che i Persiani stavano devastando la città dei Lidi, disse: "Signore, nella situazione in cui mi trovo posso dirti quello che penso o devo tacere?" Ciro lo invitò a dire senza timori ciò che voleva e allora Creso gli domandò: "Che cosa sta facendo tutta questa gente con tanto ardore?" Ciro rispose: "Saccheggia la tua città, si spartisce le tue ricchezze". Ma Creso ribatté: "No, non sta saccheggiando la mia città né le mie ricchezze, perché queste cose non appartengono più a me; quelli si stanno portando via la roba tua".

89)                       Ciro fu molto colpito dalle parole di Creso; allontanò i presenti e gli chiese come interpretasse quanto stava succedendo; e Creso rispose: "Visto che gli dei mi hanno dato a te come schiavo, mi pare giusto, se vedo più in là di te, informartene. I Persiani, oltre a essere tracotanti per natura, sono poveri; se tu dunque permetti loro di rapinare e ammassare grandi ricchezze, attenditi pure che uno di loro, quello divenuto più ricco, si ribelli contro di te. Ecco dunque, se convieni con me su quello che ti dico, come dovresti agire: disponi a guardia di tutte le porte della città degli uomini fidati i quali, sequestrando il bottino a chi esce, dichiarino che è assolutamente indispensabile offrirne a Zeus la decima parte. Così non se la prenderanno con te se gli sottrai con la forza la preda di guerra e anzi, riconoscendo che ti comporti giustamente, vi rinunceranno volentieri".

90)                       Ciro fu quanto mai lieto di udire questo consiglio, che gli parve ottimo; lo approvò senz'altro e quando ebbe dato alle sue guardie le istruzioni suggerite da Creso, si rivolse ancora a lui e gli disse: "Creso, visto che sei disposto ad agire e a parlare con la nobiltà di un re, chiedimi pure un dono, quello che vuoi, subito". Creso replicò: "Signore, mi farai un grandissimo favore se mi permetti di mandare queste catene al dio dei Greci, il dio da me più onorato, e di chiedergli se è sua abitudine ingannare chi si comporta bene verso di lui". Ciro gli domandò il motivo di questa preghiera, che rimproveri avesse da muovere al dio, e Creso gli raccontò ogni cosa, risalendo al suo antico progetto e alle risposte degli oracoli: narrò in particolare delle proprie offerte votive e di come avesse mosso guerra ai Persiani spintovi dall'oracolo. Concluse il discorso pregando nuovamente che gli fosse concesso di rivolgere al dio il suo biasimo. Ciro scoppiò a ridere e disse: "Non solo questo tu otterrai da me, ma qualunque altra cosa di cui tu senta la necessità, in qualunque occasione". Udito ciò, Creso mandò a Delfi dei Lidi con l'ordine di posare le catene sulla soglia del tempio e di chiedere al dio se non si vergognasse di aver spinto Creso con i suoi responsi a muovere guerra ai Persiani con la promessa che avrebbe abbattuto l'impero di Ciro; dovevano poi mostrare le catene e dichiarare che erano le primizie ricavate da tale impero; e inoltre dovevano chiedere se è abitudine degli dei Greci essere ingrati.

91)                       Ai Lidi che, giunti a Delfi, la interrogavano secondo le istruzioni ricevute, si dice che la Pizia abbia risposto così: "Neppure un dio può sfuggire al destino stabilito. Creso ha scontato la colpa del suo quinto ascendente, che era una semplice guardia del corpo degli Eraclidi e che, rendendosi complice della macchinazione di una donna, uccise il proprio padrone e si appropriò della sua autorità, senza averne alcun diritto. Il Lossia ha fatto il possibile perché la caduta di Sardi avvenisse sotto i figli di Creso e non durante il suo regno, ma non è stato in grado di stornare le Moire; quanto esse gli hanno concesso, il Lossia lo ha compiuto come un dono per Creso: per tre anni ha differito la presa di Sardi; lo sappia, Creso, di essere stato imprigionato con tre anni di ritardo sul tempo stabilito; e un'altra volta lo ha soccorso quando già si trovava sul rogo. Quanto all'oracolo, Creso muove rimproveri ingiusti. Perché il Lossia gli aveva predetto che, se avesse marciato contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande dominio. Di fronte a questo responso se voleva prendere una decisione saggia doveva mandare a chiedere ancora se il dio intendeva il dominio suo o quello di Ciro. Non ha afferrato le parole del dio né chiesto ulteriori spiegazioni; dunque, consideri se stesso responsabile di quanto è accaduto. E infine consultando l'oracolo non comprese neppure le parole del dio sul mulo: questo mulo era proprio Ciro. Ciro è nato, infatti, da due persone di diversa nazionalità, di più nobile origine la madre, di condizioni più modeste il padre; lei della Media e figlia di Astiage, re dei Medi, lui Persiano, suddito dei Medi: benché le fosse in tutto inferiore, sposò la sua padrona". Questa fu la risposta della Pizia ai Lidi; essi la riportarono a Sardi e la riferirono a Creso, il quale, quando l'ebbe appresa, riconobbe che la colpa era sua e non del dio.

92)                       Questa è la storia del regno di Creso e del primo assoggettamento della Ionia. Esistono in Grecia anche molti altri doni di Creso, non solo quelli già elencati: a Tebe, in Beozia, un tripode d'oro, dedicato ad Apollo Ismenio, a Efeso le vacche d'oro e la maggior parte delle colonne, a Delfi, nel tempio di Atena Pronaa, un grande scudo d'oro. Questi doni si conservano ancora ai miei tempi, altri sono andati perduti. E sono venuto a sapere che gli oggetti dedicati da Creso nel santuario dei Branchidi di Mileto sono pari, per quantità e qualità, a quelli di Delfi. Le offerte a Delfi e al tempio di Anfiarao erano costituite da oggetti suoi personali, derivanti dal patrimonio paterno; tutte le altre provenivano dal patrimonio di un nemico, il quale, prima che Creso salisse al potere, gli si era opposto caldeggiando l'ascesa al trono di Pantaleonte. Pantaleonte era figlio di Aliatte e fratello di Creso, ma non per parte di madre: Creso era figlio di Aliatte e di una donna caria, Pantaleonte di una donna ionica. Creso, quando ottenne il potere per conferimento paterno, uccise il suo oppositore facendolo torturare a morte; i suoi beni poi in base a un voto precedente li dedicò nel modo che si è detto nei templi sopra indicati. E con questo sia chiuso il discorso sulle offerte votive di Creso.

93)                       A differenza di altri paesi, la Lidia non offre molte meraviglie da descrivere, ad eccezione delle pagliuzze d'oro che vengono trasportate giù dal monte Tmolo. Possiede un'unica costruzione veramente gigantesca, la più grande del mondo dopo i monumenti dell'Egitto e della Babilonia: vi si trova la tomba di Aliatte, padre di Creso, il cui basamento è costituito da enormi blocchi di pietra; il resto è un gran tumulo di terra. Contribuirono a erigerla i mercanti della città, gli artigiani e le ragazze con i proventi della prostituzione. Sulla sommità del sepolcro ancora ai miei tempi correvano cinque pilastrini sui quali erano state incise iscrizioni per ricordare il lavoro dovuto a ciascuna categoria: da una adeguata valutazione risultava chiaro che il contributo delle ragazze era il maggiore. Bisogna sapere che tutte le figlie del popolo dei Lidi esercitano la prostituzione, mettendo così insieme la propria dote, e lo fanno fino al momento di sposarsi: e sono loro stesse a procurarsi il marito. Il perimetro del sepolcro misura sei stadi e due pletri, mentre la sua larghezza è di tredici pletri. Immediatamente accanto all'edificio si stende un vasto lago detto Lago di Gige, che i Lidi sostengono essere perenne. E questo è quanto.

94)                       Le usanze dei Lidi sono molto simili a quelle dei Greci, se si eccettua il fatto che prostituiscono le figlie. Per quanto ne sappiamo furono i primi uomini a fare uso di monete d'oro e d'argento coniate e i primi anche a esercitare il commercio al minuto. Secondo i Lidi anche i giochi praticati oggi dai Greci e dai Lidi sarebbero una loro invenzione: sostengono di averli escogitati all'epoca in cui colonizzarono la Tirrenia; ma ecco in proposito la loro versione. Sotto il regno di Atis figlio di Mane si era abbattuta su tutta la Lidia una terribile carestia: per un po' i Lidi avevano resistito, ma poi, visto che la carestia non aveva fine, cercarono di ingannare la fame inventando una serie di espedienti. E appunto allora sarebbero stati ideati i dadi, gli astragali, la palla e tutti gli altri tipi di gioco, tranne i "sassolini"; solo l'invenzione dei "sassolini" non si attribuiscono i Lidi. Ed ecco come fronteggiavano la fame con le loro scoperte: un giorno lo trascorrevano interamente a giocare per non sentire il desiderio di mangiare, il successivo lasciavano perdere i divertimenti e si cibavano. Tirarono avanti con questo sistema di vita per ben diciotto anni. Ma poiché la carestia non terminava e anzi la situazione si faceva sempre più grave, allora il re dei Lidi divise in due parti l'intera popolazione e affidò al sorteggio di decidere quale dovesse restare e quale dovesse emigrare dal paese; alla parte cui sarebbe toccato restare assegnò se stesso come re e a quella che sarebbe partita suo figlio, che si chiamava Tirreno. I Lidi designati dalla sorte a emigrare scesero fino a Smirne, costruirono una flotta e su di essa caricarono quanto possedevano di valore: salparono poi alla ricerca di una terra che procurasse loro i mezzi per vivere; oltrepassarono numerosi paesi finché giunsero fra gli Umbri: qui fondarono delle città e qui abitano a tuttoggi. E cambiarono anche il loro nome assumendo quello del figlio del re, che li aveva guidati: da allora, dal suo nome si chiamarono Tirreni. I Lidi rimasti in patria caddero poi sotto il dominio dei Persiani.

95)                       A questo punto la narrazione esige che si indaghi sulla figura di Ciro, il re che rovesciò il dominio di Creso, e sui Persiani, per spiegare in che modo arrivarono alla conquista dell'Asia intera. Fonderò il mio resoconto sulla base di quanto raccontano alcuni Persiani, quelli che non intendono magnificare la storia di Ciro, ma semplicemente attenersi alla realtà dei fatti; volendo sarei in grado di riferire altre tre versioni su Ciro. Ormai da 520 anni gli Assiri dominavano sulla parte settentrionale dell'Asia, quando i Medi, per primi, cominciarono a ribellarsi; e in qualche modo essi, battendosi contro gli Assiri per l'indipendenza, si mostrarono ben valorosi: riuscirono a scrollarsi di dosso la schiavitù e a ottenere la libertà. Dopo di che altre popolazioni seguirono l'esempio dei Medi.

96)                       Ma quando tutti i popoli del continente furono indipendenti, caddero nuovamente sotto un unico dominio. Ed ecco come. Viveva tra i Medi un uomo molto saggio, che si chiamava Deioce e che era figlio di Fraorte. Questo Deioce fu preso dal desiderio del potere assoluto e agì come segue. I Medi risiedevano in villaggi sparsi; nel proprio villaggio Deioce si segnalò, più di quanto già non fosse stimato, praticando la giustizia con sempre maggiore impegno; e agiva così mentre in tutta la Media quasi non esisteva il rispetto delle leggi e benché sapesse che l'ingiusto è ostile a chi è giusto. I Medi di quel villaggio in considerazione della sua condotta lo scelsero come loro giudice. Lui per la verità era probo e giusto perché aspirava al potere. In questo modo ottenne una notevole stima da parte dei suoi concittadini, cosicché, quando negli altri villaggi si sparse la voce che Deioce era l'unico retto nell'amministrare la giustizia, tutti quanti, prima abituati ad avere a che fare con sentenze inique, appena intesero di Deioce, furono ben lieti di accorrere da lui per dirimere le loro questioni; alla fine non si rivolgevano più a nessun altro.

97)                       La folla cresceva col passare dei giorni perché si sapeva che i processi avevano l'esito dovuto; Deioce, resosi conto di tenere ormai in pugno l'intera situazione, rifiutò di sedersi sullo scranno dove sino ad allora si era installato per dirimere le cause; e dichiarò che non avrebbe più emesso sentenze: non era vantaggioso per i suoi affari occuparsi delle questioni altrui e fare il giudice per tutta la giornata. Così, quando ruberie e illegalità nei vari villaggi furono ancora più frequenti di prima, i Medi si riunirono in assemblea e discussero fra di loro, parlando della situazione presente (a parlare, io credo, furono soprattutto gli amici di Deioce): "Nelle condizioni attuali il nostro paese non è abitabile. Nominiamo re uno di noi; il paese sarà regolato da buone leggi e noi potremo dedicarci ai nostri affari senza i rischi dovuti al disordine pubblico". E con questi ragionamenti si convinsero a darsi un re.

98)                       Quando si trattò di proporre candidati per il trono, Deioce subito venne candidato e decantato da tutti, finché decisero di eleggerlo. Deioce pretese che gli edificassero un palazzo degno della sua condizione di re e che gli conferissero un potere effettivo assegnandogli una scorta. E i Medi obbedirono: gli costruirono una reggia grande e solida nel punto del paese da lui indicato e gli consentirono di scegliersi fra tutti i Medi un corpo di guardia. Una volta assunto il potere Deioce costrinse i Medi a costruire una città e a occuparsi soprattutto di quella trascurando gli altri villaggi. Anche allora i Medi obbedirono e innalzarono una grande e ben munita fortezza, che oggi si chiama Ecbatana, costituita da una serie di mura concentriche. Essa è studiata in modo tale che ogni giro di mura superi il precedente solo per l'altezza dei bastioni. In certo qual modo anche la natura del luogo, che è collinoso, contribuì a una simile realizzazione, ma molto di più agirono le precise intenzioni dei costruttori. In tutto le mura di cinta sono sette: l'ultima racchiude la reggia e i tesori; la più ampia si estende all'incirca quanto il perimetro di Atene. I bastioni del primo giro sono bianchi, quelli del secondo neri; sono rosso porpora al terzo, azzurri al quarto e rosso arancio al quinto; i bastioni delle prime cinque cerchie sono stati tinti con sostanze coloranti, invece le ultime due hanno bastioni rivestiti rispettivamente di argento e d'oro.

99)                       Queste opere murarie Deioce le faceva costruire per sé e intorno alla propria reggia; al resto del popolo ordinò di abitare all'esterno delle mura. Ultimati i lavori, Deioce stabilì, e fu il primo a farlo, il seguente regolamento: a nessuno era consentito presentarsi direttamente al re, ogni comunicazione doveva avvenire tramite araldi, il re non poteva essere visto da nessuno; inoltre era vietato a tutti, come atto indecoroso, anche ridere e sputare in sua presenza. Cercava di rendere solenne tutto ciò che lo circondava, affinché i suoi antichi compagni, cresciuti con lui e non certo a lui inferiori per capacità personali o per nobiltà di nascita, non finissero, vedendolo, per irritarsi contro di lui e non gli cospirassero contro; anzi non vedendolo lo avrebbero sempre considerato diverso da loro.

100)                       Dopo aver introdotto queste norme di comportamento ed essersi rafforzato con l'esercizio del potere, fu poi un inflessibile guardiano della giustizia. Gli facevano pervenire per iscritto i termini di una questione, all'interno della reggia, e Deioce da lì giudicava le cause che gli venivano sottoposte ed emetteva le sue sentenze. Così si regolava per i processi, ma prese anche altri provvedimenti: se veniva a sapere che qualcuno aveva violato le leggi, lo convocava e gli infliggeva una pena commisurata alla colpa commessa; a tale scopo aveva osservatori e informatori sparsi in tutta la regione da lui governata.

101)                       Deioce unificò e governò soltanto il popolo dei Medi, il quale si compone di varie tribù: Busi, Paretaceni, Strucati, Arizanti, Budi, Magi. Queste sono le tribù dei Medi.

102)                       Figlio di Deioce era Fraorte, il quale alla morte del padre (avvenuta dopo un regno durato 53 anni) ereditò il potere. Quando lo ebbe nelle sue mani non si accontentò di regnare soltanto sui Medi, anzi compì una spedizione militare contro i Persiani che furono i primi a subire il suo attacco e i primi a diventare sudditi dei Medi. In seguito, disponendo di queste due popolazioni, forti entrambe, intraprese la conquista dell'Asia intera, avanzando da una nazione all'altra, fino a che entrò in guerra con gli Assiri, o meglio con quelle genti assire che abitavano Ninive e che una volta avevano avuto il dominio su tutti: a quell'epoca invece erano isolate in seguito alla defezione dei loro alleati, ma godevano pur sempre di una ottima situazione interna. Nel corso di quella spedizione Fraorte perì, dopo 22 anni di regno, e con lui fu distrutta la maggior parte dell'esercito.

103)                       Deceduto Fraorte gli successe Ciassare, figlio suo e nipote di Deioce. Si racconta che Ciassare fosse ancor più valoroso, e molto, dei suoi antenati. Fu anche il primo a dividere in corpi le truppe dell'Asia e a schierare separatamente i soldati armati di lancia, quelli armati di arco e i cavalieri; prima di lui stavano tutti mescolati in grande confusione. Era lui quello che combatteva contro i Lidi quando durante la battaglia il giorno si oscurò per farsi notte e fu lui a unificare sotto il proprio scettro tutta l'Asia al di là del fiume Alis. Raccolse tutte le forze di cui era a capo e marciò contro Ninive con l'intenzione di vendicare il padre e di distruggere la città. Aveva sconfitto in battaglia gli Assiri e stava assediando Ninive quando sopraggiunse un grosso esercito di Sciti, guidato dal re degli Sciti Madie, figlio di Protothie; essi erano penetrati in Asia dopo aver scacciato dall'Europa i Cimmeri e si erano spinti fino alla regione dei Medi proprio inseguendo i Cimmeri in fuga.

104)                       Un corriere equipaggiato alla leggera impiega trenta giorni di cammino per arrivare dalla palude Meotide al fiume Fasi e alla Colchide; poi dalla Colchide non occorre molto tempo per trasferirsi nella terra dei Medi: solo una popolazione si frappone fra i due territori, i Saspiri, superati i quali si è subito nella Media. Comunque gli Sciti non penetrarono da quella parte, ma seguirono un percorso più settentrionale e assai più lungo, tenendosi sulla sinistra della catena del Caucaso. I Medi si scontrarono con gli Sciti, ma furono sconfitti in battaglia e persero la loro egemonia: gli Sciti occuparono tutta l'Asia.

105)                       Da lì si diressero verso l'Egitto, ma quando giunsero nella Siria Palestina il re d'Egitto Psammetico andò loro incontro e con donativi e suppliche li distolse dall'avanzare più oltre. Essi poi, durante la loro ritirata, toccarono la città di Ascalona, in Siria, e mentre la maggior parte di loro proseguì senza causare danni, alcuni, rimasti indietro, saccheggiarono il tempio di Afrodite Urania. Questo santuario, a quanto risulta dalle informazioni che ho ricevuto, è il più antico di tutti quelli dedicati ad Afrodite; anche il tempio di Cipro trasse origine da lì, come raccontano gli abitanti stessi dell'isola, e quello di Citera l'hanno costruito dei Fenici che erano per l'appunto nativi della Palestina. Sugli Sciti che saccheggiarono il tempio di Ascalona e sui loro discendenti la dea scatenò la 'malattia femminile': sono gli Sciti stessi a dare questa spiegazione per la loro malattia, e del resto chi si reca in Scizia può constatare in che stato si trovino coloro che gli Sciti chiamano "Enarei".

106)                       Gli Sciti furono padroni dell'Asia per 28 anni e ridussero tutto in uno stato disastroso con le loro violenze e la loro incuria. Da un lato esigevano dai singoli i tributi che avevano ad essi imposto, dall'altro, indipendentemente dai tributi, percorrevano il paese saccheggiando tutto quello che trovavano. Ciassare e i Medi riuscirono a eliminarne un gran numero ospitandoli e facendoli ubriacare; in tal modo i Medi riottennero il loro predominio, assoggettarono le stesse popolazioni di prima ed espugnarono Ninive (in che modo lo spiegherò in un'altra parte del mio racconto), sottomettendo tutta l'Assiria a eccezione del territorio di Babilonia.

107)                       Più tardi Ciassare morì, dopo quaranta anni di regno, compresi quelli del predominio scita. Nel regno gli succedette il figlio Astiage. Astiage ebbe una figlia che chiamò Mandane; e una volta sognò che Mandane orinava con tanta abbondanza da sommergere la sua città e inondare l'Asia intera. Sottopose questa visione all'attenzione di quei Magi che interpretano i sogni e si spaventò molto quando essi gli spiegarono ogni particolare. Più avanti, quando Mandane fu in età da marito, non volle concederla in moglie a nessun pretendente medo, per degno che fosse: per la paura, sempre viva in lui, di quel sogno, la diede a un Persiano, che si chiamava Cambise: lo trovava di buona casata, di carattere tranquillo e lo giudicava molto al di sotto di un Medo di normale condizione.

108)                       Durante il primo anno di matrimonio di Cambise e Mandane, Astiage ebbe una seconda visione: sognò che dal sesso della figlia nasceva una vite e che la vite copriva l'Asia intera. Dopo questa visione e consultati gli interpreti, fece venire dalla Persia sua figlia, che era vicina al momento del parto, e quando arrivò la mise sotto sorveglianza, intenzionato a eliminare il bambino che lei avrebbe partorito. Perché i Magi interpreti dei sogni gli avevano spiegato, in base alla visione, che il figlio di Mandane avrebbe regnato al posto suo. Perciò Astiage prese tutte le precauzioni e quando Ciro nacque chiamò Arpago, un parente, il più fedele dei Medi e suo uomo di fiducia in ogni circostanza, e gli disse: "Arpago, bada di eseguire con grande attenzione l'incarico che ora ti affido e di non ingannarmi; se abbracci la causa di altri col tempo te ne dovrai pentire. Prendi il bambino partorito da Mandane, portalo a casa tua e uccidilo; poi fa sparire il cadavere come preferisci". E Arpago rispose: "Mio re, tu non vedesti mai nulla in me, io credo, che non ti fosse gradito e anche in avvenire starò bene attento a non commettere mai alcuna mancanza nei tuoi confronti. E se ora vuoi che questo sia fatto, è mio dovere per quanto dipende da me, servirti pienamente".

109)                       Dopo questa risposta gli fu consegnato il bambino, già avvolto nei panni funebri; Arpago si avviò verso casa piangendo. Quando vi giunse riferì a sua moglie tutte le parole di Astiage, ed essa gli chiese: "E tu ora che cosa hai intenzione di fare?" Le rispose: "Non certo di obbedire agli ordini di Astiage, neppure se sragionerà o se impazzirà peggio di quanto già ora deliri: non mi associerò al suo disegno e non eseguirò per lui un simile delitto. Non ucciderò il bambino per molte ragioni, perché è mio parente e perché Astiage è vecchio e non ha figli maschi; se dopo la morte di questo bambino il potere passerà a Mandane, di cui ora lui fa uccidere il figlio servendosi di me, cos'altro dovrò aspettarmi se non il più grave dei pericoli? Per la mia incolumità è necessario che questo bambino muoia, ma a ucciderlo dovrà essere uno di Astiage e non uno dei miei".

110)                       Disse così e immediatamente inviò un messo a un mandriano di Astiage che a quanto sapeva si trovava nei pascoli più adatti al suo disegno, su montagne popolate da numerose bestie feroci: si chiamava Mitradate e viveva con una donna, sua compagna di schiavitù, che si chiamava Spaco e il cui nome in greco suonerebbe Cino, dato che i Medi chiamano "spaco" appunto il cane. Le falde dei monti su cui questo mandriano pascolava il suo bestiame si trovano a nord di Ecbatana in direzione del Ponto Eusino; infatti la Media in questa direzione, verso i Saspiri, è assai montuosa, elevata e coperta di boscaglie, mentre il resto del paese è tutto pianeggiante. Il bovaro, dunque, convocato, si presentò con sollecitudine e Arpago gli disse: "Astiage ti ordina di prendere questo bambino e di andarlo a esporre sul più solitario dei monti affinché muoia al più presto. E mi ha ordinato di avvisarti che se non lo uccidi e in qualche maniera lo risparmi ti farà morire tra i più terribili supplizi. Io ho il compito di controllare che il bambino venga esposto".

111)                       Udito ciò il mandriano prese il bambino, se ne tornò indietro per la stessa strada e giunse al suo casolare. Per l'appunto anche sua moglie era in attesa di partorire un figlio da un giorno all'altro e, forse per opera di un dio, lo diede alla luce durante il viaggio in città del marito. Erano preoccupati entrambi, l'uno per l'altro, lui in apprensione per il parto della moglie, e lei perché non era cosa abituale che Arpago mandasse a chiamare suo marito. Quando lui ritornò, fu la moglie, come se avesse disperato di rivederlo, a chiedergli per prima per quale ragione Arpago lo avesse chiamato con tanta fretta. E lui rispose: "Moglie mia, sono andato in città e ho visto e udito cose che vorrei non aver visto e che non fossero mai accadute ai nostri padroni: tutta la casa di Arpago era in preda al pianto e io vi entrai sconvolto. Appena dentro ti vedo un neonato, lì in terra, che si agita e piange con indosso un vestitino ricamato e ornamenti d'oro. Arpago come mi vede mi ordina di prendere il bambino, di portarlo via con me e di andarlo poi a esporre sulle montagne più infestate dalle fiere, dicendo che questi sono ordini di Astiage e aggiungendo molte minacce nel caso io non li esegua. E io l'ho preso con me credendo che fosse figlio di qualche servo. Non potevo immaginare da chi era nato. Ma mi sembravano un po' strani quegli ornamenti d'oro e quei tessuti preziosi e il pianto generale che regnava nella casa di Arpago. Più avanti lungo la strada vengo a sapere tutta la verità dal servo incaricato di accompagnarmi fuori le mura e di consegnarmi il neonato: è il bambino di Mandane, la figlia di Astiage, e di Cambise, figlio di Ciro, e Astiage ordina di ucciderlo! Ora eccolo qua".

112)                       Il mandriano diceva queste parole e intanto svolgeva il fagotto per mostrare il bambino. Quando lei vide il neonato così sano e bello, scoppiò a piangere e afferrando le ginocchia del marito lo scongiurava di non esporlo, in nessuna maniera. Ma lui sosteneva di non poter fare altrimenti; sarebbero venuti degli spioni di Arpago a controllare, e lui sarebbe stato condannato a una morte orribile se non avesse eseguito gli ordini. Non riuscendo a persuadere il marito la donna tentò una seconda strada e gli disse: "Visto che non riesco a persuaderti a non esporlo, tu almeno fai come ti dico io, se proprio è assolutamente inevitabile che la si veda esposta, questa creatura: devi sapere che anch'io ho partorito, ma ho dato alla luce un bambino morto; prendilo ed esponilo e noi invece alleviamoci il nipotino di Astiage come se fosse nostro. In questo modo non si accorgeranno della tua colpa verso i padroni e noi non avremo preso una brutta decisione: il nostro bambino morto avrà una sepoltura da re e l'altro non perderà la vita".

113)                       Al mandriano parve assai saggia in quella circostanza la proposta della moglie e immediatamente la mise in opera. Affidò alla moglie il bambino che aveva portato con sé per ucciderlo, quindi prese il cadaverino del proprio figlio e lo pose nel cesto dentro cui aveva trasportato l'altro; lo vestì con gli arredi regali, lo portò sul più solitario dei monti e ve lo lasciò. Due giorni dopo l'esposizione del bambino, il mandriano tornò in città dopo aver lasciato lassù di guardia uno dei suoi aiutanti; si recò in casa di Arpago e si dichiarò pronto a mostrare il corpo senza vita del neonato. Arpago mandò le più fedeli delle sue guardie del corpo a constatare per lui il fatto: ma quello che seppellirono fu il figlioletto del mandriano. E così mentre l'uno fu seppellito, la moglie del pastore tenne con sé l'altro, che più tardi fu chiamato Ciro e lo allevò, dandogli un altro nome e non quello di Ciro.

114)                       Quando il ragazzo aveva dieci anni si verificò un episodio che rivelò la sua identità: giocava nel villaggio dove erano anche gli stazzi del bestiame, giocava per strada con dei coetanei; e giocando i bambini lo avevano eletto loro re, lui che per tutti era "il figlio del mandriano". E lui distribuiva le mansioni: voi dovete costruirmi un palazzo, voi essere le mie guardie; tu sarai "l'occhio del re", a te tocca l'incarico di portare i messaggi: insomma a ognuno assegnava il suo compito. Ma uno dei bambini che giocavano con lui era il figlio di Artembare, uomo di grande prestigio fra i Medi, e non volle obbedire agli ordini di Ciro; allora Ciro comandò agli altri ragazzi di arrestarlo e, quando essi ebbero obbedito, punì assai duramente il ribelle facendolo fustigare. Appena lasciato libero, il ragazzo, ancora più infuriato al pensiero di aver subito un trattamento indegno della sua condizione, si recò in città a lamentarsi col padre dell'affronto ricevuto da Ciro, naturalmente non parlando di Ciro (non poteva essere questo il nome) ma del "figlio del mandriano" di Astiage. Artembare, adirato com'era, si recò da Astiage conducendo con sé il figlioletto e si lamentò di aver subito dei mostruosi oltraggi: "Signore, - disse - ecco la violenza insolente che abbiamo patito da parte di un tuo servo, dal figlio di un bovaro"; e mostrava la schiena del figlio.

115)                       Astiage udì e vide; e desiderando vendicare il bambino per riguardo ad Artembare, fece chiamare il mandriano e il suo ragazzo. Quando furono entrambi presenti, Astiage, guardando in faccia Ciro, disse: "Dunque tu, che sei figlio di un pover'uomo, hai osato trattare così ignominiosamente il figlio di un uomo che è il primo nella mia corte?" E il ragazzo rispose: "Signore, quello che gli ho fatto è stato secondo giustizia: i ragazzi del villaggio, lui compreso, mentre giocavamo mi elessero loro re ritenendomi il più adatto a questo titolo. Ora, tutti gli altri bambini eseguivano i miei ordini, lui invece non li voleva ascoltare e non ne teneva il minimo conto, fino a quando ha avuto la giusta punizione. Se dunque, per questo, mi merito un castigo, sono qui a tua disposizione".

116)                       Mentre il bambino dava questa risposta poco per volta Astiage lo riconosceva: gli pareva che i lineamenti del viso fossero molto simili ai propri, troppo libero il tono della risposta; e anche l'epoca dell'esposizione corrispondeva all'età del ragazzo. Impressionato da questi particolari, per un po' rimase senza parola; poi, ripresosi a stento, aprì bocca per congedare Artembare e per poter interrogare da solo a solo il mandriano: "Artembare - disse - agirò in maniera che tu e tuo figlio non possiate lamentarvi". Mandò via Artembare e diede ordine ai servi di condurre Ciro in un'altra stanza. Quando il mandriano rimase solo, Astiage gli chiese dove avesse trovato quel bambino e chi glielo avesse consegnato. Rispose che era figlio suo e che la donna che lo aveva dato alla luce viveva ancora con lui. Ma Astiage ribatté che non era una buona idea quella di candidarsi ad atroci supplizi, e intanto faceva cenno alle guardie di arrestarlo; mentre veniva condotto alla tortura confessò ogni cosa. A cominciare dall'inizio raccontò tutto per filo e per segno e giunse infine a pregare e a implorare il perdono.

117)                       Dopo che il mandriano gli ebbe rivelato la verità, Astiage non si curò più di lui: ormai era enormemente adirato con Arpago e ordinò alle sue guardie di andarlo a chiamare. Quando Arpago fu al suo cospetto, Astiage gli chiese: "Arpago, che sorte hai riservato al bambino che ti consegnai, e che era nato da mia figlia?" E Arpago, vedendo lì nella sala il mandriano, non tentò più la via della menzogna, per non correre il rischio di venire smentito e disse: "Mio re, appena ebbi in mano il bambino studiai come regolarmi secondo la tua volontà e nello stesso tempo non risultare colpevole verso di te, non essere un omicida agli occhi di tua figlia e ai tuoi. Decisi di agire così: chiamai il mandriano qui presente e gli consegnai il neonato, dicendogli che eri tu a ordinare di ucciderlo; e con queste parole io non mentivo perché proprio tu avevi dato quelle disposizioni. Glielo consegnai precisando che doveva esporlo su di un monte deserto e restare lì di guardia fino a quando fosse morto, e aggiunsi le più varie minacce nel caso che non eseguisse gli ordini. Quest'uomo eseguì quanto gli era stato comandato e il bambino morì, allora io mandai i più fedeli dei miei eunuchi e attraverso di loro constatai l'accaduto e feci seppellire il neonato. Ecco come andarono le cose, mio signore, e questa è la sorte che toccò al bambino".

118)                       Arpago quindi disse tutta la verità e Astiage, nascondendo la rabbia che lo divorava per quanto era successo, per prima cosa ripeté ad Arpago la versione dei fatti come l'aveva appresa dal mandriano; poi alla fine del racconto disse che il bambino era vivo e che era bene che tutto fosse finito così. "Ero molto addolorato - disse - al pensiero di ciò che avevo fatto a questo bambino e mi pesava il rancore di mia figlia. Ora visto che tutto è andato per il meglio, manda qui tuo figlio presso il ragazzo appena arrivato e poi, visto che ho intenzione di offrire un sacrificio di ringraziamento per l'avvenuta salvezza agli dei cui spetta questo onore, vieni a cena da me".

119)                       Udito ciò Arpago si prosternò e si avviò verso casa contento che la sua colpa avesse avuto un esito positivo e di essere stato invitato a cena con tanti buoni auspici. Appena entrò in casa si affrettò a inviare a corte il proprio unico figlio, che aveva circa tredici anni, ordinandogli di andare da Astiage e di fare tutto quello che lui comandasse. Poi, tutto lieto, andò a raccontare alla moglie quanto era accaduto. Ma Astiage, quando il figlio di Arpago fu da lui, lo uccise, lo squartò in tanti pezzi e ne fece cucinare le carni una parte lessate e una parte arrosto e le tenne pronte. Venne l'ora della cena: si presentarono tutti i convitati fra i quali Arpago. Davanti agli altri e allo stesso Astiage furono imbandite mense ricolme di carne di montone, invece ad Arpago furono servite tutte le carni del figlio, tranne la testa e le mani e i piedi, che stavano a parte celate in un canestro. Quando Arpago si sentì sazio di cibo, Astiage gli domandò se le portate erano state di suo gusto e Arpago rispose che gli erano piaciute molto; allora dei servi, precedentemente istruiti, gli misero davanti la testa, le mani e i piedi del ragazzo ancora coperte e standogli di fronte lo invitarono a scoperchiare il piatto e a servirsi liberamente. Arpago obbedì, scoperchiò il piatto, vide i resti del figlio: li vide, ma rimase impassibile e riuscì a dominarsi. Astiage gli chiese se riconosceva l'animale delle cui carni si era cibato e lui rispose che lo riconosceva e che per lui andava bene ogni cosa che il re facesse. Dopo aver così risposto, raccolse i resti delle carni e se ne tornò a casa. E lì, credo, li ricompose e seppellì.

120)                       E questa fu la punizione che Astiage inflisse ad Arpago. Nei confronti di Ciro, rifletté un po' e poi mandò a chiamare gli stessi Magi che a suo tempo gli avevano interpretato il sogno; quando furono davanti a lui, Astiage chiese loro di ripetergli la spiegazione della visione, ed essi ribadirono che il bambino era destinato a regnare se fosse rimasto in vita e non fosse morto prima. Il re ribatté: "Il bambino c'è ed è vivo e mentre viveva in campagna i bambini del suo villaggio lo hanno eletto re: lui si è comportato esattamente come un vero sovrano: ha creato guardie del corpo, custodi delle porte, messaggeri e tutto il resto, e ha regnato. E ora tutto questo, secondo voi, a che cosa porta?" I Magi risposero: "Se il ragazzo è vivo e ha regnato senza un disegno predisposto, allora per quanto lo riguarda puoi stare tranquillo e rallegrarti: non regnerà una seconda volta. Infatti è già successo che alcuni dei nostri vaticinii si siano risolti in poca cosa e che il contenuto dei sogni abbia perso ogni sua consistenza". E Astiage concluse: "Anch'io, Magi, sono quasi del tutto convinto che il sogno si è già realizzato: questo bambino ha già ricevuto il titolo di re, e dunque non rappresenta più per me un pericolo. Tuttavia esaminate per bene la questione e aiutatemi a prendere una decisione che garantisca la massima sicurezza per la mia casa e per voi stessi". Al che i Magi risposero: "Sovrano, anche per noi è molto importante che il potere rimanga ben saldo nelle tue mani, perché se passa a questo ragazzo, che è Persiano, cade nelle mani di un'altra nazione e noi che, siamo Medi, diventeremo schiavi e non godremo del minimo prestigio presso i Persiani, essendo stranieri. Se invece rimani re tu, che sei nostro concittadino, abbiamo anche noi la nostra parte di potere e riceviamo da te grandi onori. Perciò è assolutamente nostro interesse vegliare su di te e sul tuo regno; e ora, se vedessimo qualche motivo per avere paura, te ne avviseremmo senz'altro. Ma ora, poiché il sogno si è risolto in una cosa da nulla, da parte nostra abbiamo fiducia e ti consigliamo di fare altrettanto. Questo ragazzo mandalo lontano dai tuoi occhi, fra i Persiani, dai suoi genitori".

121)                       Astiage fu lieto di udire questo consiglio, fece chiamare Ciro e gli disse: "Ragazzo, io sono stato ingiusto con te a causa di un sogno risultato vano, e tu sei vivo perché così ha voluto il tuo destino. Ora sii contento di andare fra i Persiani; io ti farò scortare fino là. Là troverai un padre e una madre ben diversi da Mitradate, il bovaro, e da sua moglie".

122)                       Così disse e congedò Ciro. Ad accogliere Ciro di ritorno nella casa di Cambise c'erano i suoi genitori i quali, quando seppero chi era, lo salutarono con grande affetto, perché lo credevano morto subito a suo tempo; e continuavano a chiedergli come fosse riuscito a salvarsi. E lui raccontò che fino a poco prima era vissuto nell'errore ignorando ogni cosa e che solo lungo il viaggio era venuto a conoscenza di tutte le sue vicissitudini; si era sempre creduto figlio di un mandriano di Astiage, invece, dopo la partenza da Ecbatana, aveva appreso tutta la verità dai suoi accompagnatori. Raccontò di essere stato allevato dalla moglie del mandriano e non smetteva di profondersi in lodi nei suoi confronti: e in tutti i suoi discorsi non parlava che di Cino. I genitori tennero a mente questo nome e, per dare agli occhi dei Persiani una coloritura miracolosa alla avvenuta salvezza del fanciullo, misero in giro la voce che Ciro, esposto, era stato allevato da una cagna. Di qui ebbe origine questa leggenda.

123)                       Poi Ciro si fece adulto ed era il più coraggioso fra i suoi coetanei e il più benvoluto. Arpago faceva di tutto per ingraziarselo mandandogli doni, desideroso com'era di vendicarsi di Astiage: non vedeva come da solo, essendo un comune cittadino, avrebbe potuto vendicarsi, ma vedeva Ciro crescere e cercava di farselo alleato, paragonando i gravi torti da entrambi subiti. Già prima si era dato da fare in questo senso: sfruttando il comportamento odioso di Astiage nei confronti dei Medi, Arpago, avvicinando ciascuno dei maggiorenti medi, tentava di convincerli che occorreva deporre Astiage e offrire il regno a Ciro. Compiute queste manovre, quando si sentì pronto, Arpago volle esporre il suo piano a Ciro, il quale però viveva in Persia; le strade erano sotto controllo e perciò, in mancanza di altre soluzioni, ricorse a un espediente. Si servì di una lepre alla quale aprì il ventre senza rovinarne il pelo, ma lasciandolo intatto; nel ventre nascose un messaggio in cui descriveva il suo piano; ricucì il ventre della lepre che consegnò, insieme con una rete, come se fosse un cacciatore, al più fidato dei suoi servitori; lo inviò in Persia con l'ordine di consegnare la lepre a Ciro personalmente e di invitarlo a sventrare la bestia di sua mano e quando nessuno fosse presente.

124)                       Così dunque fu fatto e Ciro, avuta la lepre, la squarciò; vi trovò dentro la lettera, la prese e la lesse. Il contenuto del messaggio suonava così: "Figlio di Cambise, gli dei ti guardano con favore, altrimenti non saresti mai giunto a tanta fortuna; e allora vendicati di Astiage, il tuo assassino: se fosse dipeso dai suoi desideri tu saresti morto, se sei vivo lo devi agli dei e a me. Credo che tu sia a conoscenza ormai da un pezzo di quello che hanno fatto a te e di quello che ho subito io da parte di Astiage, per non averti ucciso ma consegnato al mandriano. Tu dunque, se mi darai ascolto, potrai regnare su tutta la terra su cui ora regna Astiage. Convinci i Persiani a ribellarsi e marcia contro la Media. E se io sarò nominato da Astiage generale in capo contro di te, tutto ciò che vorrai è già tuo. E così sarà pure se viene designato un altro dei Medi più illustri. Essi saranno i primi a ribellarsi ad Astiage e a passare dalla tua parte e faranno di tutto per abbatterlo. Considera che tutto qui è pronto e agisci, ma agisci in fretta".

125)                       Apprese queste notizie, Ciro pensò al modo più accorto per convincere i Persiani alla rivolta e riflettendo trovò il più opportuno e lo mise in opera: scrisse quanto serviva al suo scopo in una lettera e convocò una assemblea dei Persiani. Quindi aprì la lettera e scorrendola dichiarò che Astiage lo nominava capo dei Persiani: "Ora, Persiani, - disse - vi invito a presentarvi qui ciascuno con una falce". Proprio questo fu l'ordine di Ciro. Le tribù persiane sono numerose; Ciro convocò e indusse a ribellarsi ai Medi solo quelle a cui fanno capo poi tutti i Persiani: Pasargadi, Marafi e Maspi. Fra questi i più nobili sono i Pasargadi, ai quali appartiene anche la famiglia degli Achemenidi, da dove provengono i re discendenti di Perseo. Altri Persiani sono i Pantialei, i Derusiei, i Germani; si tratta di tribù tutte dedite all'agricoltura, le rimanenti invece sono nomadi: i Dai, i Mardi, i Dropici, i Sagarti.

126)                       Quando furono tutti presenti con in mano la falce, allora Ciro ordinò loro di andare a falciare prima di sera un terreno che si trovava lì in Persia, tutto coperto di sterpi ed esteso per un quadrato di 18 o 20 stadi di lato. I Persiani compirono la fatica ordinata e Ciro diede loro una seconda disposizione: dovevano presentarsi la mattina seguente dopo aver fatto il bagno. Nel frattempo Ciro radunò tutte le greggi di capre e di pecore e tutte le mandrie di suo padre, le fece macellare e cucinare, pronto ad ospitare la massa di Persiani, e vi aggiunse vino e cibarie, tra i più squisiti. La mattina dopo Ciro sistemò su di un prato i Persiani venuti e offrì loro un grande banchetto. Quando ebbero finito di mangiare Ciro domandò se preferivano il trattamento attuale o quello del giorno prima. Ed essi risposero che c'era una gran bella differenza: il giorno prima gli erano toccati solo guai, al presente invece solo cose belle. Ciro colse al volo queste parole e, manifestando la sua intenzione, disse: "Persiani, dipende proprio da voi: se volete darmi ascolto vi attendono questi e molti altri piaceri e non conoscerete più fatiche da schiavi; se invece non volete obbedirmi vi attendono innumerevoli fatiche pari a quella di ieri. Seguite me, dunque, e sarete liberi. Io credo di essere nato col divino soccorso della sorte per condurre con le mie mani questa impresa e ritengo che voi siate uomini per nulla inferiori ai Medi, né in guerra né in nessun altro campo. Questa è la realtà dei fatti e ora voi ribellatevi contro Astiage al più presto".

127)                       I Persiani, avendo trovato un capo, furono ben lieti di lottare per la libertà: già da tempo non tolleravano più di essere comandati dai Medi. Astiage, come seppe dei preparativi di Ciro, mandò un messaggero a convocarlo, ma Ciro ordinò al messaggero di riferire ad Astiage che sarebbe arrivato da lui prima di quando Astiage stesso avrebbe desiderato. Udita tale risposta, Astiage mise in armi tutti i Medi e nominò loro comandante Arpago, dimenticando, quasi fosse accecato da un dio, tutto il male che gli aveva fatto. Quando i Medi scesero in campo e si scontrarono con i Persiani, alcuni di loro combatterono, quanti non erano a parte della congiura, altri passarono dalla parte dei Persiani, i più scelsero la strada della viltà e si dispersero.

128)                       Non appena Astiage venne a sapere che l'esercito medo si era vergognosamente dissolto, esclamò con tono di minaccia per Ciro: "Nonostante tutto Ciro non potrà rallegrarsene!" Disse così e per prima cosa fece impalare quei Magi interpreti di sogni che gli avevano consigliato di risparmiare Ciro, poi armò tutti i Medi rimasti in città, giovani e vecchi. Li guidò fuori delle mura e con loro attaccò i Persiani, ma fu sconfitto: Astiage stesso fu catturato e perse i Medi che aveva fatto scendere in campo.

129)                       Allora Arpago piazzatosi di fronte ad Astiage, ormai prigioniero, lo derideva e lo beffeggiava, con parole che potessero ferirgli il cuore: in particolare, in cambio del banchetto che gli aveva offerto con le carni del figlio, gli chiedeva come trovasse la schiavitù dopo essere stato re. Astiage guardandolo in faccia gli domandò se considerava opera sua l'impresa di Ciro; al che Arpago rispose che era stato lui a scrivere a Ciro, e che quindi riteneva a ragione opera sua quell'impresa. Allora Astiage gli dimostrò a rigor di logica che era l'uomo più imbecille e più colpevole del mondo: il più imbecille perché potendo diventare re lui stesso, se tutto davvero era accaduto grazie a lui, aveva rimesso il potere nelle mani di un altro; e il più colpevole perché a causa di una cena aveva reso schiavi i Medi: se proprio doveva affidare a qualcun altro il regno e non tenerlo nelle proprie mani sarebbe stato più giusto trasmetterlo a un Medo e non a un Persiano; ora invece i Medi senza averne alcuna colpa da padroni erano diventati schiavi, mentre i Persiani, che prima erano schiavi dei Medi, erano diventati ora i loro padroni.

130)                       Astiage dunque fu spodestato dal trono dopo 35 anni di regno e i Medi, a causa della sua crudeltà, piegarono il capo davanti ai Persiani; essi avevano mantenuto per 128 anni la sovranità sui territori asiatici dell'alto corso dell'Alis meno il periodo del predominio scita. Molto più tardi si pentirono del loro antico comportamento e insorsero contro Dario; ma dopo essersi ribellati, conobbero la sconfitta sul campo e vennero nuovamente assoggettati. I Persiani e Ciro, sollevatisi contro i Medi al tempo di Astiage, furono da allora i padroni dell'Asia. Ciro non si accanì ulteriormente contro Astiage e lo tenne presso di sé fino a quando morì. Così Ciro nacque e fu allevato e così ottenne il regno: in seguito, come ho già raccontato, sottomise Creso, che aveva dato lui l'avvio alle ingiustizie; e quando lo ebbe sottomesso estese la propria egemonia su tutta l'Asia.

131)                       Io so per averlo constatato di persona che presso i Persiani sono in vigore le seguenti usanze: non è loro consuetudine erigere statue degli dei o templi o altari e anzi accusano di stoltezza quanti lo fanno; a mio parere ciò si spiega perché non hanno mai pensato, come i Greci, che gli dei abbiano figura umana. Essi di solito offrono sacrifici a Zeus salendo sulle montagne più alte; e chiamano Zeus l'intera volta del cielo. Sacrificano al sole, alla luna, alla terra, al fuoco, all'acqua e ai venti. Queste sono le sole divinità cui dedicano offerte fin dalle origini; più tardi hanno appreso dagli Assiri e dagli Arabi a compiere sacrifici anche a Urania. Gli Assiri chiamano questa dea Afrodite Militta, gli Arabi la chiamano Alilàt e i Persiani Mitra.

132)                       Ed ecco come si svolge presso i Persiani il rito di sacrificio agli dei or ora ricordati: quando devono fare la loro offerta non costruiscono altari e non accendono il fuoco; non praticano la libagione, non usano flauti, né bende sacre né grani d'orzo salati. Chi voglia compiere sacrifici a uno di quegli dei conduce la vittima in un luogo puro, si lega intorno alla tiara una coroncina, di mirto per lo più, e invoca il dio. Non è lecito pregando chiedere vantaggi per sé personalmente: chi invoca del bene lo fa per tutti i Persiani e per il re; lui stesso ovviamente risulta compreso fra tutti i Persiani. Quando poi ha tagliato a pezzetti le carni della vittima e le ha bollite, le depone tutte su un tappeto d'erba la più tenera possibile (per lo più trifoglio) da lui precedentemente preparato; dopo che le ha ben sistemate, un Mago lì presente canta una teogonia, come essi stessi definiscono la formula dell'invocazione; si noti che essi non compiono mai un sacrificio se non è presente un Mago. Il sacrificante si trattiene un po' di tempo: quindi si riporta via le carni che usa poi come meglio gli aggrada.

133)                       Fra tutti i giorni dell'anno è loro costume onorare particolarmente quello del compleanno: in questa circostanza ritengono giusto mangiare con più abbondanza che negli altri giorni: i più benestanti si fanno servire un vitello, un cavallo, un cammello e un asino cotti al forno tutti interi: i poveri, invece, si cucinano animali domestici di taglia minore. In generale non hanno molti piatti principali, ma usano molto i contorni, distribuiti per tutto il pasto; per questo i Persiani dicono che i Greci hanno ancora appetito quando smettono di mangiare, perché non si fanno servire dopo il pranzo nessuna leccornia: altrimenti, aggiungono, non smetterebbero di mangiare. Per il vino i Persiani hanno una vera passione. A loro è vietato vomitare e orinare di fronte ad altri; e rispettano accuratamente questa norma, ma hanno l'abitudine di discutere le questioni più serie in stato di ubriachezza; le decisioni eventualmente prese vengono riproposte il giorno seguente, da sobri, dal padrone della casa in cui si trovano a discutere: se le approvano anche da sobri le confermano altrimenti le lasciano cadere. Se la prima decisione avviene quando sono lucidi, la ridiscutono da ubriachi.

134)                       Quando due Persiani si incontrano per strada allora si può stabilire se sono di pari condizione: infatti in questo caso invece di salutarsi, si baciano sulla bocca; se però uno dei due è di condizione appena inferiore, si baciano sulle guance; se il divario di rango è notevole allora l'inferiore si getta ai piedi dell'altro e si prosterna. Dopo se stessi, fra tutti stimano in primo luogo i popoli insediati più vicini a loro, poi quelli subito oltre e così via, proporzionando la stima alla distanza: si considerano da ogni punto di vista gli uomini migliori, mentre gli altri, pensano, si attengono alla virtù in misura inversamente proporzionale: e perciò quelli che abitano più lontano da loro sarebbero i peggiori. All'epoca della sovranità dei Medi esisteva un criterio gerarchico fra le varie popolazioni: i Medi dominavano su tutti i popoli e in particolare sui più vicini; questi a loro volta sui propri confinanti e così via; è lo stesso criterio in base al quale i Persiani attribuiscono la loro stima: ogni popolazione prevaleva sull'altra dominandola ed esercitando su di essa un diritto di tutela.

135)                       Quello persiano è il popolo più di ogni altro disposto ad accogliere usanze straniere: tanto è vero che indossano vestiti medi, trovandoli più belli dei propri, e in guerra portano corazze egiziane. Quando vengono a sapere di qualche usanza piacevole, da qualunque parte provenga, subito la adottano: per esempio hanno imparato dai Greci a praticare l'amore con gli adolescenti. Ogni Persiano può sposare legalmente molte donne e ancora più numerose sono le concubine che si procura.

136)                       Dimostra una autentica virtù virile chi, oltre ad essere un buon combattente, mette al mondo molti figli. Annualmente il re invia un premio a chi ne ha messi al mondo di più; si ritiene che il numero sia forza. Ai loro bambini, da quando hanno cinque anni fino ai venti, insegnano tre sole cose: cavalcare, tirare con l'arco e dire la verità. Prima dei cinque anni il bambino non si presenta mai al cospetto del padre ma vive assieme alle donne. Fanno questo perché, se il bambino muore nel periodo dell'allevamento, il padre non ne debba soffrire.

137)                       Io approvo questa usanza e ne approvo anche un'altra: per una sola colpa neppure il re può mettere a morte qualcuno; e nessun altro Persiano può recare un danno irreparabile a uno dei suoi schiavi per una sola colpa; solo quando si è ben riflettuto e si è stabilito che i torti sono più numerosi e più rilevanti dei servigi, allora si lascia libero campo alla collera. Sostengono che nessuno ancora ha ucciso il proprio padre o la propria madre: esaminando tutti i casi di questo tipo già verificatisi, si giungerebbe inevitabilmente a concludere che gli assassini erano figli supposti o adulterini; essi ritengono inverosimile che un autentico genitore possa morire per mano del proprio figlio.

138)                       Presso i Persiani delle cose che non è lecito fare non è lecito neppure parlare. La cosa più vergognosa è considerata la menzogna; secondariamente avere debiti, e ciò per molte e svariate ragioni ma soprattutto perché chi ha un debito, dicono, necessariamente si troverà anche a mentire. Il cittadino colpito dalla lebbra o dal morbo bianco si tiene lontano dalla città ed evita il contatto con gli altri Persiani. Secondo loro soffre di queste malattie chi ha commesso una colpa nei confronti del Sole. Scacciano dal paese ogni straniero affetto da tali piaghe e molti pure le colombe bianche, adducendo la medesima ragione. Evitano di orinare e di sputare in un fiume e neppure vi si sciacquano le mani o permettono che un altro lo faccia; per i fiumi hanno un enorme rispetto religioso.

139)                       Ed ecco un'altra particolarità, sfuggita agli stessi Persiani ma non a noi: i loro nomi, che sono adeguati alle qualità fisiche e a una idea di magnificenza, finiscono tutti con la stessa lettera, quella chiamata "san" dai Dori e "sigma" dagli Ioni. Se si indaga in questo senso, si trova che i nomi dei Persiani terminano tutti nella stessa maniera, senza eccezioni.

140)                       Tutte queste notizie posso fornirle con assoluta sicurezza, perché mi derivano da personale esperienza. Invece quanto si dice circa il trattamento dei cadaveri è avvolto in un alone di mistero e non è certo: pare che il cadavere di un Persiano non venga seppellito prima di essere stato straziato da un cane o da un uccello; so con certezza che almeno i Magi si comportano così, perché lo fanno apertamente. Comunque i Persiani cospargono di cera il cadavere e lo inumano. I Magi sono molto diversi dagli altri uomini e in particolare dai sacerdoti egiziani; questi infatti ritengono empietà uccidere degli esseri viventi, tranne quelli destinati al sacrificio rituale, invece i Magi uccidono con le loro mani qualsiasi animale tranne il cane e l'uomo e lo fanno con grande impegno eliminando indistintamente formiche e serpenti e altri animali terrestri o volatili. Ma lasciamo pure questa usanza come stava quando ebbe origine e riprendiamo il filo del nostro racconto.

141)                       Gli Ioni e gli Eoli, non appena i Lidi furono sottomessi dai Persiani, mandarono a Sardi dei messaggeri, presso Ciro: desideravano essere sudditi di Ciro alle stesse condizioni di cui godevano sotto Creso. Ciro ascoltò le loro proposte; poi cominciò a raccontare un aneddoto: narrò di un suonatore di flauto che aveva visto in mare dei pesci e che suonava il suo flauto convinto di attirarli verso la terra ferma: deluso nelle sue speranze prese una rete, la lanciò, trascinò a riva una grande quantità di pesci; e guardandoli guizzare disse loro: "Smettetela di danzare: quando io suonavo il flauto non siete mica voluti uscir fuori a ballare!" Ciro raccontò questo aneddoto agli Ioni e agli Eoli perché gli Ioni, tempo prima, invitati da Ciro a ribellarsi contro Creso, non lo avevano ascoltato, mentre allora, a cose fatte, erano pronti a seguirlo. Chiaramente Ciro rispose in questo modo perché serbava rancore. Quando gli Ioni udirono la risposta riferita nelle varie città, tutti fortificarono le proprie mura e si riunirono a Panionio; tutti tranne i Milesi, i soli con cui Ciro aveva stipulato un accordo alle stesse condizioni di Creso. Gli altri decisero di comune accordo di mandare messaggeri a Sparta con una richiesta di soccorso.

142)                       Questi Ioni, quelli a cui appartiene il Panionio, di tutti gli uomini a nostra conoscenza sono quelli che hanno edificato le loro città nei luoghi migliori del mondo per bellezza di cielo e condizioni climatiche; a nord e a sud della Ionia , come a oriente e a occidente, la situazione è assai differente: più a nord c'è la morsa del freddo e della pioggia, più a sud del caldo e della siccità. Questi Ioni non parlano la stessa lingua, bensì quattro varietà di dialetto. Mileto è la città più meridionale, poi vengono Miunte e Priene: tutte si trovano nella Caria e adoperano lo stesso dialetto. In Lidia si trovano Efeso, Colofone, Lebedo, Teo, Clazomene e Focea, che non si servono dello stesso dialetto delle città sopra nominate, ma che usano fra loro la stessa parlata. Restano ancora tre città ioniche, di cui due situate su isole, Samo e Chio, e la terza, Eritre, sul continente. A Chio e a Eritre parlano lo stesso dialetto, i Sami invece ne usano uno proprio. Ed ecco quindi i quattro diversi caratteri linguistici.

143)                       Fra gli Ioni i Milesi non avevano motivo di preoccupazione grazie all'accordo stipulato con Ciro e quelli delle isole stavano tranquilli perché i Fenici non erano sudditi dei Persiani e perché i Persiani non erano marinai. Gli Ioni d'Asia si separarono dagli altri Ioni per una semplice ragione; se già tutta la gente greca era in una condizione di debolezza, gli Ioni costituivano, fra tutti, il gruppo più debole e il meno importante: e infatti, se si esclude Atene, non c'era nessuna città degna di nota. Perciò gli altri di quel ceppo e gli Ateniesi non gradivano l'appellativo di Ioni e cercavano di evitarlo; e mi pare che ancora adesso molti di loro si vergognino di tale denominazione. Invece queste dodici città ne erano orgogliose e si costruirono un santuario riservato a loro che chiamarono Pan-Ionio; e decisero di non consentire l'accesso al tempio a nessuna altra gente ionica (del resto mai nessuno chiese di accedervi, ad eccezione degli abitanti di Smirne).

144)                       Allo stesso modo i Dori dell'attuale territorio della Pentapoli, lo stesso che una volta si chiamava Esapoli, si guardano bene dall'accettare nel loro santuario Triopico gli altri Dori confinanti, anzi da sempre escludono da ogni partecipazione al tempio anche quelli di loro che ne abbiano violato le regole. Ai giochi in onore di Apollo Triopio avevano posto anticamente come premio per i vincitori dei tripodi di bronzo, che però non potevano essere portati via da chi se li fosse guadagnati, ma dovevano essere dedicati al dio, lì sul posto. Una volta accadde che un uomo di Alicarnasso, di nome Agasicle, dopo aver vinto non rispettò la norma: si portò via il tripode e lo fissò al muro di casa sua. Per questa ragione le cinque città, cioè Lindo, Ialiso, Camiro, Cos, e Cnido, vietarono l'accesso al tempio a tutti gli abitanti di Alicarnasso, sesta città dell'Esapoli. Tale fu il castigo che imposero loro.

145)                       A mio parere gli Ioni formarono dodici città e non vollero aggiungerne altre perché anche prima, quando vivevano nel Peloponneso, erano divisi in dodici regioni, esattamente come adesso il territorio degli Achei, che a suo tempo scacciarono gli Ioni, è suddiviso in dodici parti: Pellene è la prima, a partire da Sicione, poi Egira ed Ege, in cui scorre il Crati, dal flusso perenne e dal quale ha preso nome l'omonimo fiume italiano, poi Bura ed Elice, in cui ripararono gli Ioni sconfitti in battaglia dagli Achei; poi ancora Egio, Ripe, Patre, Fare, Oleno, in cui scorre il grande fiume Piro, nonché Dime e Tritea, l'unica città situata nell'interno. Questi sono i dodici distretti degli Achei, che una volta appartenevano agli Ioni.

146)                       Ed ecco perché anche gli Ioni d'Asia costruirono dodici città: è una grande sciocchezza definire costoro più Ioni degli altri Ioni o di nascita più elevata: una parte non piccola di loro sono Abanti, provenienti dall'Eubea, che non hanno niente a che vedere con gli Ioni, neppure per il nome; e inoltre a loro si sono mescolati dei Mini di Orcomeno, dei Cadmei, dei Driopi, dei Focesi dissidenti; e Molossi, Pelasgi d'Arcadia, Dori di Epidauro e molte altre popolazioni. Quelli partiti dal Pritaneo di Atene, che ritenevano di essere i più nobili fra gli Ioni, non portarono con sé le donne nella nuova colonia, ma si procurarono mogli in Caria, uccidendone i padri. A causa di questo delitto tali donne si imposero come regola con tanto di giuramento, e la trasmisero alle figlie, di non mangiare mai in compagnia dei mariti e di non chiamarli mai per nome; e ciò perché avevano ucciso i loro padri e mariti e figli e, dopo, se le erano sposate. Questo è quanto avvenne a Mileto.

147)                       Come re una parte degli Ioni d'Asia si scelse i Lici discendenti di Glauco figlio di Ippoloco, una parte i Cauconi di Pilo discendenti di Codro figlio di Melanto, e altri si scelsero re di entrambe le stirpi. E visto che sono tanto affezionati al loro nome, più di tutti gli altri Ioni, consideriamoli dunque gli Ioni puri. In realtà sono Ioni tutti quelli che vengono da Atene e che celebrano la festa delle Apaturie; la celebrano tutti tranne gli abitanti di Efeso e di Colofone, gli unici a non celebrarla col pretesto di un omicidio.

148)                       Il Panionio è un luogo sacro di Micale, rivolto verso nord e dedicato per comune accordo dagli Ioni a Posidone Eliconio. Micale è un promontorio del continente che si stende verso occidente in direzione dell'isola di Samo, sul quale gli Ioni delle varie città si radunavano per celebrare la loro festa, chiamata Panionie. Non solo le feste degli Ioni, ma proprio tutte le feste della Grecia intera hanno un nome terminante con la medesima lettera, come succede per i nomi dei Persiani.

149)                       Queste sono le città ioniche; le eoliche sono Cuma, detta anche Friconide, Larissa, Neontichos, Temno, Cilla, Nozio, Egiroessa, Pitane, Egee, Mirina, Grinia: ecco le undici antiche città eoliche; un'altra loro città, Smirne, fu staccata ad opera degli Ioni; infatti erano dodici anche gli insediamenti eolici sul continente. Gli Eoli si trovarono a colonizzare una regione ancora più fertile di quella degli Ioni, ma che quanto a clima non regge il paragone.

150)                       Gli Eoli persero Smirne così. Avevano accolto a Smirne dei cittadini di Colofone sconfitti in una lotta intestina e perciò messi al bando dalla patria. Più tardi i profughi di Colofone aspettarono che gli abitanti di Smirne celebrassero fuori delle mura una festa in onore di Dioniso e, chiudendone le porte, si impadronirono della città. Poiché tutti gli Eoli erano accorsi a difendere gli interessi degli abitanti di Smirne, vennero a un accordo: gli Eoli avrebbero abbandonato la città se gli Ioni avessero restituito almeno le loro masserizie. Così fu fatto: le altre undici città si divisero gli ex abitanti di Smirne, conferendo loro la piena cittadinanza.

151)                       Queste insomma sono le città eoliche continentali, eccetto quelle situate sull'Ida, che vanno considerate a parte. Di quante si trovano nelle isole cinque si dividono il territorio di Lesbo (la sesta città abitata di Lesbo, Arisba, la ridussero in schiavitù i Metimni, benché fossero del medesimo sangue); a Tenedo vi è una sola città, una sola anche nelle cosiddette Cento Isole. Gli abitanti di Lesbo e di Tenedo non avevano nulla da temere, esattamente come le popolazioni ioniche delle isole. Alle altre città eoliche piacque di seguire la sorte degli Ioni, dovunque questi le avessero condotte.

152)                       I messi degli Ioni e degli Eoli quando giunsero a Sparta (tutto fu fatto in gran fretta) scelsero a parlare per tutti il rappresentante di Focea, il cui nome era Pitermo. Costui indossò una veste di porpora affinché gli Spartiati, informati del particolare, accorressero in numero maggiore; davanti a loro parlò a lungo, chiedendo aiuto per gli Ioni. Ma gli Spartani non gli diedero retta e decisero di non inviare soccorsi agli Ioni. I messaggeri degli Ioni si ritirarono. Gli Spartani, dopo averli allontanati, inviarono tuttavia degli uomini, su di una pentecontere, immagino come osservatori delle vicende di Ciro e della Ionia. Arrivati a Focea, da lì questi uomini inviarono a Sardi il più stimato di loro, che si chiamava Lacrine, perché riferisse a Ciro un messaggio degli Spartani: Ciro non doveva toccare nessuna città della Grecia, perché essi non l'avrebbero tollerato.

153)                       Si dice che quando l'araldo ebbe riferito il suo messaggio Ciro chiese ai Greci che erano presenti che uomini fossero e quanti questi Spartani per mandargli un simile avvertimento; ottenuta risposta, si rivolse all'ambasciatore degli Spartiati: "Io non ho mai avuto paura di gente che nella propria città, al centro, ha riservato uno spazio, in cui riunirsi per ingannarsi a vicenda con dei giuramenti. Questa gente, se resto vivo e in buona salute, non avrà da ciarlare delle disgrazie degli Ioni, ma delle proprie". Ciro pronunciò queste parole sprezzanti nei confronti di tutti i Greci perché essi compiono i loro acquisti e le loro vendite sulla piazza principale adibita a mercato; invece i Persiani non hanno l'abitudine di servirsi di piazze per il mercato, anzi non hanno mercati del tutto. In seguito Ciro affidò Sardi al Persiano Tabalo, e al Lido Pattia il compito di trasportare l'oro di Creso e dei Lidi; poi partì alla volta di Ecbatana, portando con sé Creso e quasi senza più tener conto, inizialmente, dell'esistenza degli Ioni. Aveva problemi con Babilonia, i Battri, i Saci e gli Egiziani: contro costoro decise di guidare personalmente l'esercito, contro gli Ioni invece di inviare un altro generale.

154)       Appena Ciro si fu allontanato da Sardi, Pattia sollevò i Lidi contro Tabalo e contro di lui: scese verso il mare e, visto che disponeva di tutto l'oro di Sardi, assoldò mercenari e convinse le popolazioni della costa a schierarsi con lui. Poi mosse il suo esercito contro Sardi e strinse d'assedio Tabalo che si asserragliò sull'acropoli.

155)                       Ciro apprese questi fatti mentre era in viaggio e disse a Creso: "Creso, come andranno a finire tutte queste faccende? I Lidi a quanto pare non smetteranno di procurarmi e di procurarsi dei problemi. Mi chiedo se non sarebbe molto meglio ridurli definitivamente in schiavitù: io ho l'impressione di essermi comportato come uno che abbia ucciso il padre e risparmiato i figli. Perché ho catturato e mi porto via te, che sei più che un padre per i Lidi, e la città l'ho rimessa nelle loro stesse mani; e poi mi meraviglio se mi si ribellano". Ciro diceva quanto pensava e Creso, temendo che volesse distruggere Sardi, gli rispose: "Sire, il tuo discorso è logico, però non abbandonarti assolutamente all'ira, non distruggere una antica città che non ha alcuna colpa delle vicende passate e presenti; tutto quanto è accaduto in passato fu opera mia e con la mia persona ne sconto la pena. Ciò che accade ora è colpa di Pattia, a cui tu hai affidato Sardi, e sia lui, allora, a pagarne le conseguenze. Perdona i Lidi e fai in modo che non possano più ribellarsi e costituire un pericolo per te. Mandagli l'ordine di non tenere armi da guerra, imponigli di indossare tuniche sotto le vesti normali e di calzare coturni; invitali a insegnare ai loro figli a suonare la cetra e gli altri strumenti musicali e a fare i mercanti. In questo modo, Signore, tu li vedrai presto trasformati da uomini in donne e non dovrai più temere una loro ribellione".

156)                       Creso suggeriva queste misure perché le trovava per i Lidi preferibili al rischio di essere venduti come schiavi; sapeva bene che senza proporre un valido rimedio non avrebbe dissuaso Ciro dalla sua idea; e aveva paura che i Lidi, quand'anche l'avessero scampata per il momento, prima o poi segnassero la propria condanna ribellandosi ai Persiani. Ciro soddisfatto dei suggerimenti lasciò cadere la sua ira e disse a Creso che lo aveva convinto. Convocò il Medo Mazare e lo incaricò di ordinare ai Lidi quanto gli aveva indicato Creso: e in più gli ingiunse di ridurre in schiavitù quanti altri avevano marciato su Sardi con i Lidi e di condurre davanti a lui Pattia, a ogni costo, e vivo.

157)                       Ciro diede queste disposizioni mentre era in viaggio; quindi ripartì verso le sedi persiane; Pattia, informato che non lontano c'era un esercito in marcia contro di lui, atterrito, corse a rifugiarsi a Cuma. Mazare il Medo spinse contro Sardi tutta la parte dell'esercito di Ciro di cui disponeva e, non trovandovi più gli uomini di Pattia, per prima cosa costrinse i Lidi a eseguire gli ordini di Ciro; e fu proprio in seguito a queste imposizioni che i Lidi cambiarono completamente il loro sistema di vita. Poi Mazare inviò messaggeri a Cuma con l'ordine di consegnare Pattia; i cittadini di Cuma stabilirono di rimettersi, per consiglio, al dio dei Branchidi; là esisteva da lungo tempo un oracolo al quale tutti gli Ioni e gli Eoli erano soliti ricorrere: questo luogo si trova nel territorio di Mileto sopra il porto di Panormo.

158)                       Gli abitanti di Cuma mandarono i loro incaricati presso i Branchidi e chiesero come avrebbero dovuto regolarsi nei confronti di Pattia per fare cosa gradita agli dei; questo chiedevano, e il responso fu di consegnare Pattia ai Persiani. Quando la risposta del dio fu riferita ai Cumani, essi si apprestarono alla estradizione. Già il popolo si era deciso in tal senso, quando uno dei più ragguardevoli cittadini, Aristodico figlio di Eraclide, non credendo al responso e convinto che gli incaricati non dicessero la verità, trattenne i Cumani dal farlo fino a quando altri messi, tra cui lo stesso Aristodico, non fossero andati una seconda volta a consultare il dio sulla sorte di Pattia.

159)                       Quando poi questa delegazione giunse presso i Branchidi, fu Aristodico fra tutti a interrogare l'oracolo, dicendo: "Signore, presso di noi venne il lido Pattia, come supplice, fuggendo la morte violenta che gli riservavano i Persiani; ora essi lo reclamano ordinando ai Cumani di consegnarlo. E noi, pur temendo la potenza persiana, non abbiamo osato consegnarlo fino a quando non fosse fermamente chiaro il tuo responso su ciò che dobbiamo fare". Questa fu la sua domanda; e il dio diede nuovamente la stessa risposta, esortandoli a consegnare Pattia ai Persiani. Di fronte a queste parole Aristodico agì come aveva premeditato: girando intorno al tempio, scacciò i passeri e tutte le altre specie di uccelli che vi avevano nidificato. E mentre lui faceva così dai penetrali del tempio, si dice, si levò una voce all'indirizzo di Aristodico: "Come osi fare questo, - diceva - maledetto sacrilego? Scacci i miei supplici dal mio tempio?" Aristodico, per nulla turbato, rispose: "Signore, e così tu assicuri il tuo aiuto ai supplici tuoi, e poi ordini ai Cumani di consegnare il loro?" E l'oracolo ribatté: "Sì lo ordino, perché voi, comportandovi da empi, possiate andare in rovina più presto: così non verrete più qui in futuro a chiedere all'oracolo se sia il caso di consegnare dei supplici".

160)     Questa risposta fu riportata ai Cumani; quando la conobbero, essi decisero di mandare Pattia a Mitilene, non volendo né riconsegnarlo, e quindi rovinarsi, né tenerlo presso di loro, e quindi subire un assedio. Mazare mandò dei messaggi agli abitanti di Mitilene, i quali si dichiararono pronti a consegnare Pattia in cambio di un adeguato riscatto; non so precisarne con esattezza l'entità, perché poi la cosa andò in fumo. Infatti, appena i Cumani appresero le intenzioni dei Mitilenesi, mandarono subito una imbarcazione a Lesbo e trasferirono Pattia a Chio. Là a consegnarlo furono gli abitanti dell'isola che lo strapparono via dal tempio di Atena protettrice della città: ottennero in compenso il territorio di Atarneo, che si trova nella Misia, di fronte a Lesbo. I Persiani, dopo aver ricevuto Pattia, lo tenevano sotto sorveglianza con il proposito di consegnarlo a Ciro. Per un periodo di tempo non breve nessun cittadino di Chio offrì ad alcun dio grani d'orzo di Atarneo né preparò focacce col frumento proveniente da là: tutti i prodotti di quella regione erano esclusi da qualsiasi sacro rito.

161)                       E così i Chii consegnarono Pattia; Mazare più tardi marciò contro le popolazioni che avevano partecipato all'assedio di Tabalo: ridusse in schiavitù la cittadinanza di Priene e percorse l'intera pianura del Meandro abbandonandola ai saccheggi del suo esercito, e lo stesso fece con Magnesia. Subito dopo cadde ammalato e morì.

162)                       Gli succedette alla guida dell'esercito Arpago, anche lui Medo, quello stesso Arpago che il re dei Medi Astiage aveva invitato all'orribile banchetto e che poi aveva aiutato Ciro a impadronirsi del regno. Costui, nominato da Ciro comandante dell'esercito, quando arrivò nella Ionia, cominciò a espugnare le città servendosi di terrapieni: ogni volta, infatti, costringeva i nemici dentro le loro mura, faceva ammassare enormi quantitativi di terra contro gli spalti e poi li assaltava.

163)                       La prima città della Ionia di cui si impadronì fu Focea. Questi Focei furono i primi Greci a compiere lunghe navigazioni: furono loro a scoprire l'Adriatico, la Tirrenia, l'Iberia e la regione di Tartesso: non navigavano con grandi navi da carico ma con delle penteconteri. Giunti a Tartesso strinsero amicizia con il re locale, che si chiamava Argantonio e che fu signore di Tartesso per ottanta anni, vivendo in tutto per 120 anni. I Focesi divennero così amici suoi che egli li invitò prima ad abbandonare la Ionia e a stabilirsi nel suo paese, ovunque volessero; in seguito, non essendo riuscito a convincerli e avendo saputo com'era cresciuta la potenza dei Medi, regalò denaro ai Focesi perché potessero munire di fortificazioni la loro città; e il regalo fu molto generoso, tanto è vero che il perimetro delle mura di Focea si sviluppa per non pochi stadi; ed esse sono tutte costituite da grandi blocchi di pietra ben connessi tra loro.

164)                       Fu così che i Focei costruirono le loro mura; Arpago fece avanzare il suo esercito e pose l'assedio; ma gli sarebbe bastato, proclamò, che i Focei abbattessero anche uno soltanto dei bastioni del muro e consacrassero anche una sola casa. I Focei, non tollerando la schiavitù, dissero che volevano discutere tra loro per un giorno; poi avrebbero dato la risposta; per l'intanto invitarono Arpago a ritirare l'esercito da sotto le mura per il periodo di tempo in cui deliberavano. Arpago rispose di sapere bene quanto stavano per fare: tuttavia avrebbe permesso loro di consultarsi. E dunque mentre Arpago portava il suo esercito lontano dalle mura, i Focesi misero in mare delle penteconteri, vi imbarcarono le donne, i bambini e tutte le loro masserizie e vi aggiunsero le statue e le offerte votive che poterono trarre dai templi: a eccezione degli oggetti in bronzo e in pietra e dei dipinti caricarono tutto il resto, si imbarcarono sulle navi e fecero rotta alla volta di Chio. I Persiani occuparono una Focea completamente deserta.

165)                       I Focei pensavano di acquistare le isole chiamate Enusse ma i Chii non gliele vollero vendere per paura che diventassero un emporio e che la loro isola venisse tagliata fuori dai commerci; di conseguenza si diressero a Cirno. Nell'isola di Cirno venti anni prima in base ad un oracolo avevano fondato una città chiamata Alalia. A quell'epoca ormai Argantonio era morto. Nel dirigersi verso Cirno, in un primo momento, fecero una puntata fino a Focea dove uccisero la guarnigione persiana a cui Arpago aveva affidato il presidio della città; poi, compiuta questa impresa, pronunciarono durissime maledizioni contro chi di loro avesse abbandonato la spedizione. Inoltre gettarono in mare un blocco rovente di ferro e giurarono che non avrebbero fatto ritorno a Focea prima che questo blocco di ferro fosse riemerso a galla. Ma mentre puntavano su Cirno più di metà di loro fu presa dalla nostalgia e dal rimpianto della città e delle abitudini del loro paese; e così violarono i giuramenti e tornarono indietro voltando la prua verso Focea. Quelli che rispettarono il giuramento proseguirono il viaggio prendendo il largo dalle isole Enusse.

166)                       Giunti a Cirno, per cinque anni coabitarono con le genti che vi erano arrivate prima di loro e vi edificarono dei templi. Ma visto che derubavano e depredavano tutte le popolazioni limitrofe, Tirreni e Cartaginesi di comune accordo mossero contro di loro, entrambi con una flotta di sessanta navi. Anche i Focesi equipaggiarono delle imbarcazioni, in numero di sessanta, e affrontarono la flotta avversaria nelle acque del mare chiamato di Sardegna. Si scontrarono in una battaglia navale e ai Focesi toccò una vittoria cadmea; infatti delle loro navi quaranta furono affondate e le restanti venti risultarono inutilizzabili, avendo i rostri torti all'indietro. Allora navigarono fino ad Alalia, imbarcarono le donne, i bambini e tutto ciò che le navi potevano trasportare e abbandonarono Cirno dirigendosi verso Reggio.

167)                      I Cartaginesi e i Tirreni si spartirono gli uomini delle navi affondate: gli abitanti di Agilla, ai quali toccò il gruppo più numeroso, li condussero fuori città e li lapidarono. Più tardi ad Agilla ogni essere che passava accanto al luogo in cui giacevano i Focei lapidati diventava deforme, storpio o paralitico, fossero pecore o bestie da soma o uomini, senza distinzione. Allora gli Agillei, desiderosi di rimediare alla propria colpa, si rivolsero all'oracolo di Delfi. E la Pizia impose loro un obbligo che adempiono ancora oggi: infatti offrono imponenti sacrifici e bandiscono giochi ginnici ed equestri in onore dei morti. Ed ecco cosa toccò a questi Focei; quelli invece fuggiti verso Reggio, muovendo di là si impadronirono di una città nella terra di Enotria, città oggi chiamata Iela; essi la colonizzarono dopo aver appreso da un uomo di Posidonia che la Pizia ordinando loro di "edificare a Cirno" non intendeva riferirsi all'isola, bensì all'eroe.

168)                       Così dunque andarono le cose riguardo la città ionica di Focea. Vicende molto simili toccarono anche agli abitanti di Teo. Infatti, quando Arpago espugnò le mura di Teo col sistema del terrapieno, si imbarcarono tutti sulle loro navi e si allontanarono facendo rotta verso la Tracia; qui colonizzarono la città di Abdera. Prima di loro Abdera era stata colonizzata da Timesio di Clazomene, ma senza trarne vantaggi perché i Traci lo avevano cacciato: ora è onorato come eroe dai cittadini di Teo stanziatisi ad Abdera.

169)                  Focei e Tei furono i soli fra gli Ioni ad abbandonare la loro patria non potendo tollerare la schiavitù; gli altri Ioni, eccetto gli abitanti di Mileto, combatterono contro Arpago, come gli Ioni poi emigrati, e dimostrarono il loro valore battendosi ciascuno per la propria patria; ma, sconfitti e catturati, restarono ciascuno nel proprio paese obbedendo agli ordini che ricevevano. Invece i Milesi, come ho già ricordato, avevano stretto un patto giurato con Ciro e vissero in pace. Così, per la seconda volta, la Ionia fu asservita. Non appena Arpago si fu impadronito della Ionia continentale, gli Ioni delle isole, terrorizzati da quegli avvenimenti, si consegnarono nelle mani di Ciro.

170)                  Nonostante le loro avversità gli Ioni si radunavano ugualmente al Panionio e io so che una volta Biante di Priene espose a tutti un vantaggiosissimo progetto, che avrebbe consentito loro, se lo avessero seguito, di raggiungere il più alto grado di benessere fra i Greci: li esortava a salpare, tutti uniti in un'unica flotta, via dalla Ionia, a raggiungere la Sardegna e a fondarvi un'unica città di tutti gli Ioni; in questo modo, liberati dalla schiavitù, avrebbero vissuto felicemente, insediati nella più grande di tutte le isole e dominando su altre popolazioni. Invece, se fossero rimasti nella Ionia, non vedeva più - diceva - speranza di libertà. Questa fu l'idea di Biante di Priene anche se esposta agli Ioni ormai dopo la loro disfatta. Ma prima della disfatta, sarebbe risultata utile anche l'idea di Talete di Mileto, la cui famiglia era di antica origine fenicia: aveva suggerito di istituire un Consiglio della Ionia, di dargli sede a Teo (visto che Teo si trova nel centro della Ionia), e che le altre città, pur restando abitate, venissero considerate alla stregua di demi. Tali progetti Biante e Talete esposero agli Ioni.

171)                  Arpago dopo aver sottomesso la Ionia compì una spedizione contro la Caria, la Caunia e la Licia, conducendo con sé anche Ioni ed Eoli. Di questi popoli i Cari erano giunti in continente provenienti dalle isole: anticamente erano stati sudditi di Minosse e col nome di Lelegi avevano abitato le isole: non erano costretti a pagare alcun tributo, per quanto indietro nel tempo io possa risalire con le mie informazioni; però, ogni volta che Minosse lo richiedeva, gli fornivano gli equipaggi per le navi. E dal momento che Minosse aveva sottomesso una regione assai ampia e aveva fortuna in guerra, il popolo dei Cari era quello tenuto, allora, in maggior prestigio fra tutti. Ai Cari vanno attribuite tre invenzioni di cui poi si servirono i Greci: per primi insegnarono a fissare dei pennacchi sugli elmi, scolpirono figure sui loro scudi e applicarono all'interno di questi delle imbracciature. Fino ad allora i soldati che abitualmente si armavano di scudo lo reggevano senza imbracciature, muovendolo per mezzo di cinghie di cuoio portate intorno al collo e alla spalla sinistra. In seguito, molto tempo dopo, i Cari furono scacciati dalle isole ad opera dei Dori e degli Ioni e così giunsero nel continente. Questo è quanto dei Cari raccontano i Cretesi; ma dal canto loro i Cari non sono d'accordo in proposito: essi ritengono di essere originari del continente e di avere avuto sempre il medesimo nome di adesso. Esibiscono come prova l'antico tempio di Zeus Cario a Milasa che appartiene anche ai Misi e ai Lidi, in quanto parenti dei Cari; perché Lido e Miso, dicono, erano fratelli di Caro. Misi e Lidi accedono a questo santuario mentre tutte le popolazioni d'altra origine etnica, pur avendo adottato la lingua dei Cari, ne sono escluse.

172)                  A me pare che autoctone siano le popolazioni della Caunia, le quali invece sostengono di provenire da Creta. I Cauni assunsero la lingua dei Cari (o i Cari quella dei Cauni, non saprei dirlo con esattezza), ma le loro usanze sono assai diverse da quelle degli altri popoli, Cari compresi. Il loro massimo divertimento consiste nell'andare a bere in compagnia: lo fanno a gruppi secondo l'età e l'amicizia, uomini, donne, bambini. Poiché avevano edificato santuari di divinità straniere, più tardi, quando cambiarono parere e decisero di venerare soltanto gli dei dei loro padri, tutti i Cauni adulti si armarono e si diressero in corteo sino ai confini di Calinda, percuotendo l'aria con le lance e dicendo che stavano scacciando gli dei stranieri.

173)                  Queste sono le loro usanze; quanto ai Lici, essi sono nativi di Creta; anticamente l'intera isola di Creta era occupata da popolazioni barbare. A Creta scoppiò una contesa per il regno fra Sarpedonte e Minosse, figli di Europa; qundo riuscì a prevalere nella lotta per il potere Minosse scacciò Sarpedonte e i suoi partigiani. Allontanati dal loro paese essi giunsero in Asia nella regione Miliade: infatti la regione ora abitata dai Lici anticamente era la Miliade, e i suoi abitanti a quell'epoca si chiamavano Solimi. Fino a quando Sarpedonte fu il loro re essi conservarono l'antico nome di Termili, col quale tuttora i Lici vengono chiamati dalle popolazioni confinanti. Ma quando da Atene giunse fra i Termili, presso Sarpedonte, Lico figlio di Pandione, scacciato anche lui dal fratello Egeo, col tempo, dal nome di Lico, essi furono detti Lici. Hanno usanze in parte cretesi in parte carie; ce n'è una sola tipicamente loro e che non ha assolutamente uguali presso altri popoli: derivano il nome dalla madre e non dal padre: quando uno chiede a un altro come si chiami, quello si qualifica col matronimico e precisa la sua genealogia secondo la linea materna. E se una donna con piena cittadinanza s'unisce a uno schiavo, i suoi figli sono considerati di alto lignaggio. Se invece è un uomo ad avere una moglie straniera o una concubina, fosse pure il più illustre dei cittadini, i suoi figli non godono del minimo diritto.

174)                  I Cari furono asserviti da Arpago senza aver compiuto alcuna impresa significativa, né i Cari, dico, né tutti quei Greci che abitano nel loro paese. In effetti anche altre popolazioni vi sono insediate, per esempio i coloni spartani di Cnido: il loro paese, che si chiama Triopio, si protende tutto sul mare a partire dal Chersoneso Bibassio: l'intero territorio, eccetto una piccola parte, è circondato dalle acque ed è compreso tra il golfo Ceramico a nord e il mare di Sime e di Rodi a sud: in quel tratto, che misura in larghezza circa cinque stadi, i cittadini di Cnido volevano scavare un canale al tempo in cui Arpago sottometteva la Ionia; l'intenzione era di trasformare in isola il loro paese, tutto compreso al di qua dell'istmo: infatti l'istmo che volevano tagliare segna proprio la linea di confine tra la Cnidia e il continente. Gli Cnidi lavoravano con grande impiego di braccia, ma visto che rompendo la roccia gli operai si ferivano più del normale (e quindi forse per opera di un dio) in tutte le parti del corpo e specialmente agli occhi, inviarono degli incaricati a Delfi per chiedere cosa li avversava. E la Pizia, come essi raccontano, vaticinò come segue in trimetri giambici:…”Oh non scavate e non munite l’istmo! Non volle fare Zeus di Cnido un’isola.”… (Non fortificate l'istmo e non scavate un canale. Zeus avrebbe fatto un'isola se l'avesse voluto). Considerato il responso della Pizia, gli Cnidi interruppero lo scavo e senza colpo ferire si consegnarono nelle mani di Arpago, che stava avanzando in forze contro di loro.

175)                  Sopra Alicarnasso, nell'interno, abitavano i Pedasei, alla cui sacerdotessa di Atena cresce una lunghissima barba ogni volta che a loro o ai loro confinanti sta per accadere qualcosa di spiacevole: tre volte questo fenomeno si è già verificato. Unici in tutto il territorio della Caria essi si opposero ad Arpago per qualche tempo e lo misero in grave difficoltà fortificando il monte chiamato Lide. Col tempo i Pedasei furono spazzati via.

176)                  I Lici, quando Arpago spinse il suo esercito nella pianura di Xanto, gli uscirono incontro e pur combattendo in netta inferiorità numerica compirono prodigi di valore; sconfitti, si asserragliarono nella loro città, radunarono sull'acropoli le mogli, i figli, i loro beni, i servi e vi appiccarono il fuoco perché bruciasse tutta. Dopo di che si vincolarono con un giuramento terribile, e uscirono dalla città lanciandosi contro i nemici: gli Xanti morirono tutti con le armi in pugno. La maggior parte degli attuali abitanti di Xanto che ora sostengono di essere Lici sono in realtà forestieri, tranne ottanta famiglie; queste ottanta famiglie in quella circostanza erano casualmente lontane dalla città e poterono salvarsi. Fu così che Arpago occupò Xanto; e in maniera molto simile occupò anche Cauno, visto che anche i Cauni seguirono per lo più l'esempio dei Lici.

177)                  Le regioni costiere dell'Asia le mise a ferro e fuoco Arpago; le regioni più interne invece fu Ciro in persona a devastarle, sottomettendo ogni popolazione, nessuna esclusa. Noi ne trascureremo la maggior parte per ricordare soltanto quelle che gli diedero più filo da torcere e che sono le più degne di memoria.

178)                  Ciro, una volta impadronitosi di tutto il continente, si rivolse contro gli Assiri. Nell'Assiria ci sono certamente molte grandi città, ma la più rinomata e insieme la più potente, quella dove era stata stabilita la reggia dopo la caduta di Ninive, era Babilonia; Babilonia è così fatta: giace in una grande pianura e ha forma quadrangolare e ogni lato è lungo 120 stadi cosicché il perimetro della città misura in tutto 480 stadi. E se tale è già l'estensione di Babilonia, la sua bella struttura, poi, non ha rivali tra le altre città a noi note. Tanto per cominciare la circonda un fossato largo e profondo, colmo d'acqua, e il muro di cinta, poi, è spesso cinquanta cubiti reali e alto duecento. Il braccio reale è tre dita più lungo del braccio ordinario.

179)                  A tutto ciò bisogna poi aggiungere quale uso fu fatto della terra scavata dal fossato e in che modo fu realizzato il muro. Con la terra estratta dallo scavo fabbricarono mattoni, che, appena furono in numero sufficiente, fecero cuocere nelle fornaci; usando bitume caldo come malta e inserendo dei graticci di canne ogni trenta file di mattoni costruirono prima gli argini del fossato e poi il muro stesso, con la medesima tecnica. Sulla sommità del muro, lungo gli spalti, alzarono costruzioni a un solo piano, rivolte l'una verso l'altra; fra di esse lasciarono uno spazio sufficiente al passaggio di un carro trainato da quattro cavalli. Nel giro del muro sono inserite cento porte, interamente di bronzo, stipiti e architravi compresi. A otto giorni di viaggio da Babilonia c'è un'altra città, chiamata Is e attraversata da un fiume non grande, esso pure chiamato Is, e affluente dell'Eufrate. L'Is insieme con le acque trascina dei grumi di bitume; da lì fu portato a Babilonia il bitume per le mura.

180)                  E così fu fortificata Babilonia. La città è divisa in due settori separati da un fiume, l'Eufrate; l'Eufrate discende dai monti Armeni, ampio, profondo, rapido e va poi a sfociare nel mare Eritreo. Dalle due parti i bracci del muro si spingono fino al fiume: a questa altezza si piegano a gomito e procedono lungo la corrente formando su entrambe le rive dell'Eufrate argini di mattoni cotti. La città in sé, ricca di case a tre o quattro piani, è attraversata da strade rettilinee, tutte, comprese le trasversali che portano al fiume; all'altezza di ciascuna strada nell'argine che costeggia il fiume aprirono delle porticine, in numero pari alle viuzze. Anche queste porte erano di bronzo e immettevano direttamente sul fiume.

181)                  Questo muro è una specie di corazza: al suo interno se ne trova un secondo, poco meno robusto del precedente, ma alquanto più stretto. Al centro dei due settori della città furono eretti due edifici fortificati: da una parte la reggia munita di un ampio e robusto muro di cinta, dall'altra il santuario di Zeus Belo con le porte di bronzo, di forma quadrata con ogni lato pari a due stadi, esistente ancora ai miei tempi. Al centro del santuario si trova una solida torre, lunga e larga uno stadio: sulla prima torre ne è stata alzata una seconda, sulla seconda una terza e così via fino a un totale di otto torri; per accedere alle torri è stata costruita una scala a chiocciola che corre tutto intorno all'esterno dell'edificio. A metà della scala c'è un pianerottolo con dei sedili per riposarsi, sui quali quanti salgono possono sedersi a riprendere fiato. Sopra l'ultima torre si trova un grande tempio; al suo interno è collocato un ampio letto ben fornito di cuscini con accanto una tavola d'oro. Dentro non c'è assolutamente alcuna statua; e nessun essere umano vi passa la notte se non una sola donna babilonese che il dio abbia scelto fra tutte, come dicono i Caldei, cioè i sacerdoti di questa divinità.

182)                  Sempre costoro aggiungono, ma io non ci credo, che il dio in persona viene nel tempio a riposarsi su quel letto; tutto accadrebbe esattamente come a Tebe d'Egitto, secondo quanto asseriscono gli Egiziani (anche là infatti una donna dorme nel tempio di Zeus Tebano; e anche di costei come della donna babilonese si dice che non ha rapporti con alcun uomo) e così farebbe pure la profetessa del dio a Patara in Licia, quando c'è: lì l'oracolo non è sempre attivo, ma quando c'è allora di notte la sacerdotessa viene chiusa col dio nel tempio.

183)                  Nel grande santuario di Babilonia, in basso, si trova un altro tempio, in cui sono collocate una grande statua di Zeus assiso, in oro, e accanto una grande tavola d'oro; e d'oro sono altresì il basamento e il trono. A sentire i Caldei per la loro fabbricazione sarebbero stati impiegati 800 talenti d'oro. All'esterno di questo tempio c'è un altare d'oro: e c'è anche un secondo altare, grande, sul quale vengono offerte in sacrificio le vittime adulte: infatti sull'altare d'oro è consentito sacrificare esclusivamente animali da latte; sempre sull'altare più grande i Caldei bruciano ogni anno mille talenti d'incenso, quando celebrano la festa del dio. Nell'area del santuario a quell'epoca si trovava anche una statua d'oro massiccio alta dodici cubiti; io personalmente non l'ho vista, riferisco quanto affermano i Caldei. Dario figlio di Istaspe che pure l'avrebbe voluta, non si sentì di portarsi via questa statua: fu suo figlio Serse ad asportarla, arrivando a uccidere il sacerdote che cercava di proibirgliene la rimozione. E questo è l'arredamento del santuario; dentro poi vi sono anche molte offerte di privati.

184)                  Molti, credo, furono i sovrani di Babilonia (e di essi farò menzione nei miei Racconti Assiri) che attesero alla edificazione delle mura e del santuario, e fra essi anche due donne; una si chiamava Semiramide e visse cinque generazioni prima della successiva: costei fece erigere nella pianura argini che meritano di essere visti; prima regolarmente il fiume allagava le campagne.

185)                  La seconda delle due regine si chiamava Nitocri: dotata di maggior lungimiranza della sovrana che l'aveva preceduta sul trono, lasciò sì i monumenti che descriverò più avanti, ma in più, vedendo la potenza dei Medi ormai grande e inquieta, forte delle città già annesse, tra cui anche Ninive, prendeva contro di loro tutte le precauzioni in suo potere. Cominciò occupandosi dell'Eufrate, il fiume che attraversa Babilonia; aveva andamento rettilineo, ma lei, facendo scavare dei canali lungo tutto il suo corso, lo rese tanto tortuoso che ora esso tocca addirittura tre volte un villaggio dell'Assiria. Questo villaggio si chiama Ardericca: quanti viaggiano dal nostro mare verso Babilonia discendendo l'Eufrate, costeggiano Ardericca per ben tre volte nell'arco di tre giorni. Nitocri dunque attuò quest'opera grandiosa; inoltre fece costruire su entrambe le sponde del fiume degli argini che lasciano stupefatti tanto sono spessi e alti. Abbastanza a monte di Babilonia, poi, fece scavare l'invaso per un lago, non molto discosto dal fiume, scendendo in profondità fino a trovare l'acqua e ampliandolo in estensione per un perimetro di 420 stadi; utilizzò il materiale estratto dallo scavo ammucchiandolo lungo le rive del fiume. Quando il bacino fu pronto vi costruì intorno un parapetto con pietre precedentemente trasportate sul luogo. Realizzò tutto questo, la tortuosa canalizzazione del fiume e la trasformazione dell'invaso in palude, affinché il fiume, deviato in molti meandri, scorresse più lentamente, la navigazione verso Babilonia risultasse tortuosa e una volta finita la navigazione si dovesse ancora percorrere il lungo perimetro della palude. Eseguì tali lavori nella parte del paese dove c'erano le vie d'accesso e le strade più brevi provenienti dalla Media, per impedire ai Medi di frequentare Babilonia e di ottenere informazioni sulla sua situazione.

186)                  Con le opere di scavo realizzò queste costruzioni; e ne ricavò un vantaggio ulteriore. Dal momento che la città è divisa in due settori separati dal fiume, all'epoca dei re precedenti chi voleva recarsi da un settore all'altro della città era costretto ad attraversare il fiume con una imbarcazione, una cosa, mi pare, assai fastidiosa. Nitocri vi pose rimedio e approfittando dello scavo per il bacino poté trasmettere ai posteri un altro grande ricordo del proprio operato: fece tagliare immense lastre di pietra che furono pronte quando anche il bacino era stato ultimato; allora deviò l'intera corrente del fiume nell'invaso preparato, e mentre questo si riempiva e quindi l'antico letto si prosciugava, rivestì di mattoni cotti, con la stessa tecnica usata per le mura, le sponde del fiume all'interno della città e il fondo delle strade che dalle porticine conducono al fiume; poi quasi esattamente nel centro della città con le pietre di riporto dello scavo costruì un ponte, legando le pietre con barre di ferro e di piombo. Di giorno vi faceva stendere sopra una passerella di tronchi di legno squadrati, su cui i Babilonesi transitavano; di notte la passerella veniva tolta, perché non andassero in giro a derubarsi da una parte all'altra. Quando l'invaso colmato dalle acque del fiume era ormai diventato uno stagno e i lavori intorno al ponte erano terminati, ricondusse l'Eufrate dalla palude nel suo antico alveo; in questo modo lo scavo, divenuto palude, apparve in tutta la sua utilità e intanto i cittadini ebbero un ponte.

187)                  Questa stessa regina escogitò anche un bell'inganno: ordinò che si allestisse la sua tomba a mezz'aria, cioè sopra la porta più frequentata della città; e su di essa fece incidere una iscrizione che diceva: "Se uno dei re di Babilonia miei successori, si troverà a corto di denaro, apra la tomba e prenda tutte le ricchezze che vuole: la apra soltanto se ha davvero bisogno di denaro, e per nessuna altra ragione, o non ne avrà alcun vantaggio". Questa tomba rimase intatta finché il regno non venne nelle mani di Dario; a Dario sembrava assurdo non potersi servire di quella porta e non toccare le ricchezze ivi giacenti quando persino l'iscrizione invitava a prenderle. Non si serviva della porta perché se l'avesse attraversata si sarebbe trovato il cadavere sopra la testa. Dario fece aprire la tomba ma ricchezze non ne trovò, solo il cadavere e una scritta che diceva: "se tu non fossi insaziabile di denaro e ignobilmente avido, non violeresti le tombe dei defunti". Ecco, come si narra, che genere di donna fu questa regina.

188)                  Ciro combatté contro il figlio di Nitocri, che portava lo stesso nome di suo padre, Labineto, e regnava sull'Assiria. Il grande re persiano compì la sua spedizione militare ben fornito di vettovaglie e di bestiame persiano; tra l'altro aveva con sé persino acqua del Coaspe, il fiume che scorre vicino a Susa: un re persiano beve solo acqua di questo fiume e di nessun altro. Perciò molti carri a quattro ruote trainati da mule seguono sempre il re, dovunque vada, carichi di acqua bollita del Coaspe contenuta in recipienti d'argento.

189)                  Ciro nella sua marcia verso Babilonia giunse a un certo momento al fiume Ginde. Il Ginde ha le sue sorgenti sui monti dei Matieni, attraversa il paese dei Dardani e poi va ad affluire in un altro fiume, il Tigri, il quale a sua volta scorre presso la città di Opis e sfocia nel Mare Eritreo. Dunque, mentre Ciro tentava di attraversare il Ginde, che è navigabile, uno dei suoi sacri cavalli bianchi entrò impetuosamente nel fiume tentando di guadarlo, ma la corrente lo travolse sott'acqua e lo trascinò via. Ciro si infuriò nei confronti del fiume, autore di un simile oltraggio, lo minacciò di renderlo tanto debole che in seguito anche le donne avrebbero potuto guadarlo facilmente, senza bagnarsi neppure le ginocchia. Pronunciata la minaccia trascurò la spedizione contro Babilonia e divise il suo esercito in due parti: su ciascun lato del Ginde disegnò con delle corde tese in linea retta il tracciato di 180 canali rivolti in ogni direzione, distribuì i suoi uomini sulle due rive del fiume e ordinò di cominciare lo scavo. Poiché la manodopera era assai numerosa l'impresa fu condotta a termine, tuttavia passarono l'estate intera a scavare in quella zona.

190)                  Consumata la sua vendetta disperdendo il corso del Ginde in 360 canali, Ciro al sorgere della primavera successiva si spinse contro Babilonia. I Babilonesi lo attesero schierati fuori della città; quando nella sua marcia fu vicino a Babilonia, lo assalirono, ma poi, sconfitti nella battaglia, ripiegarono dentro la rocca. Poiché da tempo sapevano che Ciro non era tipo da starsene tranquillo e anzi lo vedevano aggredire senza distinzioni qualunque popolo, si erano premuniti raccogliendo viveri per molti anni. Così non si preoccupavano minimamente dell'assedio, mentre Ciro era in grave difficoltà: il tempo passava senza che la situazione registrasse per lui alcun progresso.

191)                  Infine, vuoi che qualcuno lo avesse consigliato in tal senso, vedendolo in difficoltà, vuoi che lui stesso si fosse reso conto del da farsi, prese una decisione: schierò il suo esercito all'imboccatura del fiume, cioè nel punto in cui esso entra in Babilonia e dispose altri uomini al capo opposto della città, dove il fiume esce dal centro abitato e ordinò ai soldati di attendere che la corrente fosse divenuta guadabile e poi di entrare in città per quella via. Dopo aver schierato le sue truppe e impartiti i relativi ordini, condusse via con sé gli uomini meno adatti al combattimento. Giunse fino al bacino artificiale e lì ripeté l'operazione compiuta a suo tempo dalla regina Nitocri per il fiume e lo stagno: per mezzo di un canale deviò il fiume nella palude; in tal modo al ritirarsi delle acque il letto del fiume divenne percorribile. Quando ciò accadde i Persiani che erano stati opportunamente schierati lungo il corso dell'Eufrate poterono penetrare in città per questa via: il livello del fiume si era abbassato al punto che l'acqua arrivava appena a metà coscia. Se i Babilonesi avessero avuto notizia delle manovre di Ciro o se ne fossero accorti, avrebbero consentito ai Persiani di penetrare in città per poi massacrarli; infatti, sbarrando tutte le porte che danno sul fiume e salendo sugli spalti che corrono lungo le rive, li avrebbero presi come in una nassa. E invece i Persiani piombarono loro addosso all'improvviso. A causa dell'estensione di Babilonia, come raccontano i suoi stessi abitanti, quando già i quartieri periferici della città erano stati espugnati, ancora i Babilonesi residenti nel centro non se ne erano accorti; e anzi, dato che per combinazione era un giorno di festa, in quel momento erano dediti a danze e divertimenti; fino a quando, naturalmente, non si resero conto esattamente della situazione. In tal modo Babilonia fu espugnata, allora, per la prima volta.

192)                  Mostrerò con molti argomenti quanto siano immense le risorse della Babilonia e già con una semplice considerazione. Il grande re ha suddiviso l'intero territorio del suo dominio in varie zone che provvedono a turno, indipendentemente dai tributi annuali, al mantenimento suo e del suo esercito. Ebbene, per quattro mesi, sui dodici che compongono un anno, è la Babilonia a provvedere, per gli altri otto tutto il resto dell'Asia; ciò vuol dire che l'Assiria assomma la terza parte delle risorse dell'Asia intera. E il governatorato di questa regione, o satrapia, come lo chiamano i Persiani, è fra tutti di gran lunga il più potente; tanto è vero che a Tritantecme figlio di Artabazo, che aveva ricevuto dal re questo territorio, affluiva una rendita quotidiana di una artaba di argento (l'artaba è l'unità di misura persiana, corrispondente a un medimno e tre chenici attici); e possedeva privatamente, senza tener conto dei cavalli da guerra, 800 stalloni e 16.000 femmine per la riproduzione, poiché ogni stallone montava venti cavalle. Inoltre allevava un tale numero di cani d'India che quattro grandi villaggi della pianura erano incaricati del loro mantenimento, e non pagavano altro tributo che questo. Tale era l'appannaggio del governatore di Babilonia.

193)                  Però la terra degli Assiri riceve poca pioggia, appena sufficiente a far spuntare la radice del frumento; è poi grazie alla irrigazione che le messi crescono e il grano giunge a maturazione, non però come avviene in Egitto, dove il fiume stesso straripa nelle campagne, bensì grazie al lavoro manuale e all'uso di mazzacavalli. In effetti la Babilonia, come l'Egitto, è interamente attraversata da canali, il più grande dei quali, navigabile, si sviluppa in direzione sud-est a partire dall'Eufrate immettendosi nell'altro fiume, il Tigri; lungo il Tigri sorgeva la città di Ninive. Fra tutte le regioni a nostra conoscenza questa è certamente la più indicata per la produzione del frutto di Demetra, tanto è vero che non si tenta nemmeno di far crescere altri tipi di piante, né fichi, né viti, né olivi; è talmente adatta alla coltura dei cereali che in media frutta 200 se si semina 1 e quando rende al massimo delle proprie possibilità frutta persino 300. In quella terra le foglie del grano e dell'orzo raggiungono tranquillamente una larghezza di quattro dita. Quanto all'altezza raggiunta dalle piante del miglio e del sesamo, anche se la conosco eviterò di segnalarla: so bene che a chi non è mai stato nella Babilonia sembrano del tutto incredibili anche i dati che ho esposto sui cereali. Non usano olio di oliva ma estraggono olio dal sesamo. In tutta la pianura crescono spontaneamente le palme, quasi tutte fruttifere; da esse ricavano cibi solidi, vino e miele; curano queste palme come si fa con i fichi, in particolare quelle che i Greci chiamerebbero "maschio": ne legano i frutti intorno alle palme da datteri affinché lo pseno penetrando nei datteri li porti a maturazione e il frutto della palma non vada perduto; infatti le palme "maschio" portano nei loro datteri lo pseno esattamente come i fichi selvatici.

194)                  Ma ora parlerò di quella che a mio parere costituisce la meraviglia più grande di Babilonia, dopo la città naturalmente: possiedono imbarcazioni, di forma circolare e interamente di cuoio, che arrivano fino a Babilonia scendendo lungo la corrente del fiume. Nella regione d'Armenia, a nord dell'Assiria, essi fabbricano lo scafo con vimini tagliati opportunamente e vi distendono intorno delle pelli per ricoprirle, come un impiantito; non differenziano la poppa e non modellano una prua più stretta: le fanno invece rotonde come uno scudo; poi ricoprono di canne tutta l'imbarcazione, la riempiono di mercanzie e lasciano che sia il fiume a portarla; per lo più imbarcano recipienti fenici colmi di vino. Con due pertiche due uomini in piedi ne governano la direzione: mentre uno tira verso di sé la pertica l'altro la spinge in fuori. Imbarcazioni di questo tipo ne costruiscono di molto grandi e di piccole: le più grandi hanno una stazza di 5000 talenti. Su ogni battello viaggia un asino vivo, sulle barche più grandi ve n'è più d'uno; una volta arrivati a Babilonia scendendo lungo la corrente e, smerciato il carico, vendono lo scafo e tutte le canne al miglior offerente; le pelli invece le caricano sull'asino e se ne ritornano in Armenia. Infatti in nessun modo è possibile risalire il fiume in battello per via della corrente troppo forte; e questo è anche il motivo per cui non costruiscono imbarcazioni di legno bensì di pelli. Quando con i loro asini sono nuovamente tornati in Armenia si costruiscono altre imbarcazioni nella stessa maniera. Tali sono i loro mezzi per la navigazione fluviale.

195)                 Come indumenti adoperano una tunica di lino lunga fino ai piedi sulla quale indossano un'altra tunica di lana e una mantellina bianca, gettata intorno alle spalle. Ai piedi portano calzature locali simili ai sandali che si usano in Beozia. Portano capelli lunghi e se li legano con nastri; si profumano tutto il corpo. Ciascuno di loro ha un anello con sigillo e un bastone lavorato a mano; il pomo di ciascun bastone è scolpito in forma di mela, di rosa, di giglio, di aquila o d'altro; non è loro abitudine portare un bastone senza un contrassegno. Questo per quanto riguarda l'abbigliamento.

196)                  Veniamo adesso alle loro leggi. Ecco secondo me la più saggia (in uso, a quanto apprendo, anche fra i Veneti di Illiria). Una volta all'anno, in ogni villaggio si faceva così: conducevano in un unico luogo, allo scopo di riunirle tutte, le ragazze che si trovassero in età da marito e intorno ad esse si radunava una folla di uomini. Poi un araldo le faceva alzare in piedi, una per una, e le vendeva: cominciava dalla più bella, poi, quando questa aveva trovato un generoso compratore, metteva all'asta la seconda per bellezza. La vendita si faceva a scopo matrimoniale. I Babilonesi benestanti in età da prendere moglie superandosi a vicenda con le offerte si acquistavano le più graziose; invece gli aspiranti mariti del popolo, che non badavano all'estetica, si prendevano le ragazze più brutte e una somma di denaro. Infatti quando il banditore aveva terminato di vendere le più belle, faceva alzare la più brutta oppure una storpia, se c'era, e la offriva a chi accettasse di sposarla con il compenso più basso; finché la ragazza veniva aggiudicata a chi s'accontentava della somma minore. Il denaro derivava dalla vendita delle ragazze avvenenti: in questo modo erano le belle ad accasare le brutte e le menomate. Nessuno aveva il diritto di dare la propria figlia in moglie a chi volesse lui e senza garanzie non era possibile portarsi via la ragazza comprata; l'acquirente doveva prima fornire garanzie che avrebbe sposato effettivamente la ragazza, poi poteva condurla con sé; se poi non andavano d'accordo, il denaro doveva per legge essere restituito. Chiunque volesse partecipare all'asta poteva farlo, anche venendo da un altro villaggio. Questa era dunque la loro tradizione più bella; ora però non è più in vigore e hanno studiato un nuovo sistema (per non danneggiare le loro donne e per impedire che vengano condotte in un altro paese). Da quando la conquista di Babilonia ha ridotto male e rovinato i suoi abitanti, tutti i popolani, che non hanno di che vivere, prostituiscono le figlie.

197)                  Ed ecco l'usanza in vigore presso di loro seconda per saggezza: non avendo medici portano sulla pubblica piazza i loro infermi. Chi si avvicina al malato esprime un parere sulla sua malattia, se per caso ha avuto gli stessi sintomi o se ha saputo di qualcuno che li abbia avuti. Dunque si accostano per dar consigli e ciascuno esorta a fare ciò che lui stesso ha fatto o visto fare a un altro per guarire da una analoga affezione. Non è consentito passare oltre in silenzio senza chiedere all'infermo di quale malattia soffra.

198)                  Seppelliscono i morti nel miele; i lamenti funebri sono assai simili a quelli in uso in Egitto. Ogni volta che un Babilonese ha fatto l'amore con la propria moglie, brucia delle sostanze aromatiche e si siede accanto al fumo; la stessa cosa, separatamente, fa anche la donna. All'alba entrambi provvedono a lavarsi e non toccano nessun vaso se prima non si sono lavati. Identica cosa fanno anche gli Arabi.

199)                  Ed ecco la peggiore delle usanze babilonesi. Ogni donna di quel paese deve sedere nel tempio di Afrodite una volta nella sua vita e fare l'amore con uno straniero. Molte, sentendosi superiori per la loro ricchezza, sdegnano di mescolarsi con le altre e si fanno trasportare sopra un carro coperto fino al tempio e lì si fermano, con un gran seguito di servitù. La maggior parte invece si comporta come segue: nel recinto sacro di Afrodite siedono in molte con una corona di corda intorno alla testa, alcune arrivano, altre se ne vanno; con delle funi tese fra le donne si ottengono dei corridoi rivolti in tutte le direzioni: gli stranieri passano attraverso di essi e fanno la loro scelta. Una donna che si sia lì seduta non se ne torna a casa se prima uno straniero qualsiasi non le ha gettato in grembo del denaro e non ha fatto l'amore con lei all'interno del tempio; gettando il denaro deve pronunciare una formula: "Invoco la dea Militta". Con il nome di Militta gli Assiri chiamano Afrodite. L'ammontare pecuniario è quello che è e non sarà rifiutato: non è lecito perché tale denaro diventa sacro. La donna segue il primo che glielo getti e non respinge nessuno. Dopo aver fatto l'amore, e aver soddisfatto così la dea, fa ritorno a casa e da questo momento non le si potrà offrire tanto da poterla possedere. Le donne avvenenti e di alta statura se ne vanno rapidamente, ma quelle brutte rimangono lì molto tempo senza poter adempiere l'usanza; e alcune rimangono ad aspettare persino per tre o quattro anni. Una usanza assai simile esiste anche in qualche parte dell'isola di Cipro.

200)                  E questi sono i costumi dei Babilonesi. Fra loro vi sono tre tribù che si nutrono esclusivamente di pesce, opportunamente seccato al sole dopo la pesca, preparandolo così: lo gettano in un mortaio, lo sminuzzano con il pestello e lo passano al setaccio; poi lo mangiano preparandolo come pastone o cuocendolo al forno, come fosse pane, secondo i gusti.

201)                  Quando Ciro ebbe sottomesso anche questo popolo, fu preso dal desiderio di ridurre in suo potere i Massageti. I Massageti hanno fama di essere un popolo grande e valoroso: le loro sedi si trovano a est, dove sorge il sole, al di là del fiume Arasse, di fronte agli Issedoni; c'è chi sostiene che questo popolo sia di razza scita.

202)                  Quanto all'Arasse ora lo si dice più grande ora più piccolo dell'Istro. Si racconta anche che in mezzo al fiume ci sono numerose isole estese quasi quanto Lesbo: su di esse vivrebbero uomini che d'estate si cibano di radici di ogni tipo estraendole dalla terra e d'inverno di frutti staccati dagli alberi e messi in serbo nel periodo della maturazione; e pare che essi abbiano trovato altre piante il cui frutto possiede strane proprietà: quando si riuniscono in gruppi in uno stesso luogo e accendono i falò, vi siedono attorno e gettano nel fuoco questi frutti, aspirando i vapori che se ne sprigionano; con tali effluvi si ubriacano esattamente come i Greci con il vino: e più frutti gettano nel fuoco più si inebriano, fino al punto di alzarsi per danzare e di mettersi a cantare. Tale sarebbe, a quanto si racconta, il loro modo di vivere. Il fiume Arasse scorre dal paese dei Matieni, come pure il Ginde (quello disperso da Ciro in 360 canali), e riversa poi le sue acque in quaranta ramificazioni, le quali tutte, tranne una, sfociano in stagni e paludi; qui vivono, a quanto si dice, uomini che si cibano di pesci crudi e che si vestono normalmente con pelli di foca. L'unico ramo dell'Arasse a scorrere libero e aperto sfocia nel Mar Caspio. Il Caspio è un mare a sé senza alcuna comunicazione con l"altro mare'; effettivamente le acque percorse dalle navi greche, quelle situate al di là delle colonne d'Ercole, dette Atlantico, e il Mare Eritreo, formano un unico mare.

203)                  Le acque del Caspio formano un secondo mare a parte, lungo quindici giorni di navigazione a remi e largo otto, nel tratto di maggiore larghezza. Sulla riva occidentale si stende il Caucaso, il complesso montuoso più vasto e più elevato del mondo. Nella zona del Caucaso abitano numerose popolazioni di tutte le razze, che vivono per lo più di frutti selvatici. Da quelle parti, si dice, esisterebbero piante dalle cui foglie triturate e mescolate con acqua ottengono una tintura per disegnare figure sulle loro vesti; e queste figure non sbiadiscono affatto, si consumano con il resto della stoffa come se vi fossero state intessute fin dall'origine. Pare che fra queste genti gli accoppiamenti avvengano davanti a tutti come fra gli animali.

204)                  Dicevamo che il Caucaso delimita la parte occidentale del mare Caspio; invece procedendo verso est, verso il sorgere del sole, si estende una pianura immensa, a perdita d'occhio; una parte non piccola di questa sconfinata pianura è abitata dai Massageti, contro i quali appunto Ciro era ansioso di marciare. Molte e importanti ragioni lo spingevano e lo sollecitavano in tal senso: prima di tutto la sua nascita, la convinzione di essere qualcosa di più che un uomo, in secondo luogo la sua buona sorte, quale si era rivelata nelle guerre precedenti: dovunque infatti avesse diretto le sue truppe, nessuna popolazione era riuscita a trovare scampo.

205)                  Sui Massageti, da quando le era morto il marito, regnava una donna, di nome Tomiri. Ciro le mandò un messaggio in cui la chiedeva in matrimonio dicendo di volerla per moglie; ma Tomiri, comprendendo che lui non aspirava tanto alla sua mano quanto al regno dei Massageti, rifiutò i suoi approcci. Allora Ciro, visto che con l'astuzia non aveva ottenuto alcun risultato, si spinse fino all'Arasse e dichiarò apertamente guerra ai Massageti; gettò dei ponti fra le due rive del fiume per il passaggio dell'esercito e costruì torri di difesa sulle imbarcazioni che attraversavano il fiume.

206)                  Mentre era impegnato in questi lavori, la regina Tomiri gli inviò un araldo con il seguente messaggio: "O re dei Medi, smettila con gli sforzi che stai compiendo: tu non sai se l'impresa ti riuscirà felice. Desisti, regna sui tuoi territori e lascia che noi regniamo sui nostri sudditi. Ma so già che non vorrai accettare i miei suggerimenti e anzi tutto vorrai fuorché startene in pace. Perciò, se davvero aspiri tanto a misurarti con i Massageti, lascia perdere il ponte sul fiume, che ti costa tanta fatica; passa pure nel nostro territorio, le nostre truppe si ritireranno a tre giorni di cammino dal fiume. Se invece preferisci essere tu ad accogliere noi nel vostro paese, allora fai tu le stesse cose". Sentita questa proposta, Ciro convocò i Persiani più autorevoli e quando li ebbe radunati espose i termini della questione, chiedendo consiglio sul da farsi. E i pareri di tutti concordemente lo esortarono a ricevere Tomiri e il suo esercito sul suolo persiano.

207)                  Ma Creso il Lido, presente alla discussione, criticò questo parere ed espose la sua opinione, che era esattamente opposta: "Signore, - disse - già altre volte ti ho promesso, poiché Zeus mi ha dato nelle tue mani, che mi sarei impegnato a fondo per scongiurare qualunque sciagura io vedessi incombere sulla tua casa. Le mie sventure personali, così spiacevoli, mi hanno insegnato molto. Ora, se tu credi di essere immortale e di comandare a un esercito immortale, non ha senso che io ti esponga il mio parere; ma se riconosci di essere un uomo anche tu e di comandare ad altri uomini, sappi prima di tutto che le vicende umane sono una ruota, che gira e non permette che siano sempre gli stessi a godere di buona fortuna. Circa la presente questione io la penso al contrario di costoro: se decideremo di ricevere i nemici in territorio persiano tu corri un bel rischio: se rimani sconfitto perdi tutto il tuo regno perché è chiaro che i Massageti, vincendo, non torneranno più indietro ma avanzeranno contro i tuoi domini. Invece se li batti, non vinci tanto quanto vinceresti se trovandoti già in casa loro potessi inseguire i Massageti in fuga. La conseguenza infatti sarebbe uguale ma contraria alla precedente: se sconfiggi tu i nemici, sarai tu a puntare dritto sul dominio di Tomiri. Inoltre, indipendentemente da quanto ti ho già esposto, mi pare vergognoso e intollerabile che Ciro, il figlio di Cambise, ceda a una donna e si ritiri. Pertanto il mio parere è di passare il fiume e avanzare di quanto i nemici arretreranno; e là tentare di sconfiggerli con la seguente tattica. A quanto mi risulta i Massageti non hanno mai gustato i piaceri persiani e non hanno mai provato grandi delizie. Per uomini così dunque facciamo a pezzi bestiame in abbondanza, cuciniamolo e prepariamo un banchetto nel nostro campo: e aggiungiamo generosamente grandi orci di vino puro e cibarie d'ogni sorta; dopo di che si lascino sul posto i contingenti meno validi e gli altri si ritirino nuovamente verso il fiume. E vedrai, se non mi inganno, che i Massageti a vedere tutto quel ben di dio vi si getteranno sopra e a quel punto a noi non resterà che compiere notevoli gesta".

208)                  Questi furono gli opposti pareri; Ciro trascurò il primo e accettò il suggerimento di Creso: avvisò la regina Tomiri di ritirare le sue truppe, perché sarebbe stato lui ad attraversare il fiume. Ed essa si ritirò come aveva promesso. Ciro affidò Creso nelle mani di suo figlio Cambise, erede designato del regno, con molte esortazioni a onorarlo e a trattarlo degnamente, nel caso la spedizione contro i Massageti non avesse buon esito. Con queste raccomandazioni li rimandò in Persia, poi passò il fiume con il suo esercito.

209)                  La notte successiva al passaggio dell'Arasse, mentre dormiva nella terra dei Massageti, ebbe un sogno: nel sonno gli parve che il figlio maggiore di Istaspe avesse due ali sulle spalle: con una gettava ombra sull'Asia, con l'altra sull'Europa. Il maggiore dei figli di Istaspe, figlio di Arsame, della famiglia degli Achemenidi, era Dario, che allora aveva circa vent'anni e per questo, non avendo l'età per combattere, era stato lasciato in Persia. Ciro si svegliò, e rifletteva sul sogno; e poiché gli sembrava una visione importante, mandò a chiamare Istaspe, lo prese da parte e gli disse: "Istaspe, tuo figlio è stato sorpreso a complottare contro di me e il mio potere. Come mai lo so con certezza, ora te lo spiego. Gli dei hanno cura di me e mi preannunciano tutto ciò che mi minaccia; ebbene la notte scorsa dormendo ho visto in sogno il maggiore dei tuoi figli avere sulle spalle due ali e con una gettare ombra sull'Asia, con l'altra sull'Europa. Non c'è altra spiegazione per questo sogno, se non che tuo figlio sta tramando contro di me. Pertanto ti ordino di rientrare immediatamente in Persia; e bada di sottoporre tuo figlio al mio giudizio, quando avrò assoggettata questa terra e sarò di ritorno in Persia".

210)                  Ciro parlò così convinto che Dario stesse cospirando contro di lui, mentre il dio voleva soltanto rivelargli che doveva morire lì, in quel paese, e che il suo potere sarebbe finito nelle mani di Dario. Istaspe gli rispose: "O re, io mi auguro che non sia nato un Persiano che complotta contro di te, ma se esiste, allora muoia al più presto! Tu, da schiavi che eravamo, ci hai resi liberi, tu ci hai reso da servi signori. Se un sogno ti annuncia che mio figlio sta preparando una ribellione contro di te, sarò io stesso a consegnarlo nelle tue mani, perché tu ne faccia quello che vorrai". Dopo questa risposta Istaspe riattraversò l'Arasse e tornò in Persia per tenere suo figlio Dario a disposizione di Ciro.

211)                  Ciro avanzò oltre il fiume per circa una giornata di cammino e mise in pratica i suggerimenti di Creso. Poi indietreggiò verso l'Arasse con le truppe più valide lasciando sul posto i meno adatti a combattere. Allora un terzo dell'esercito massageta sopraggiunse e sterminò, nonostante la loro resistenza, i soldati lasciati sul posto da Ciro; ma, come videro le mense imbandite, appena spazzati via i nemici, si sdraiarono a banchettare: infine, rimpinzati di cibo e di vino si addormentarono. Sopraggiunsero i Persiani e uccisero molti di loro, e ancor più ne presero prigionieri incluso il figlio della regina Tomiri, che comandava l'esercito dei Massageti e si chiamava Spargapise.

212)                  Quando la regina seppe quanto era accaduto all'esercito e a suo figlio, mandò un araldo a Ciro col seguente messaggio: "Ciro, insaziabile di sangue, non esaltarti per ciò che è avvenuto, se col frutto della vite, riempiendovi del quale anche voi impazzite, fino al punto che il vino scendendo nel vostro corpo vi fa salire alla bocca sconce parole, non esaltarti se con l'inganno di questo veleno hai sconfitto mio figlio, e non in battaglia misurando le vostre forze. Io ora ti do un buon consiglio e tu seguilo: restituiscimi mio figlio e potrai andartene dal mio paese senza pagare per l'oltraggio inflitto a un terzo del mio esercito; altrimenti, lo giuro sul sole, signore dei Massageti, benché tu ne sia avido, ti sazierò di sangue!"

213)                  Queste parole furono riferite a Ciro, ma lui non le prese in considerazione. Il figlio della regina Tomiri, Spargapise, quando svanirono i fumi del vino e si rese conto della sua sciagurata situazione, pregò Ciro di essere liberato dalle catene e l'ottenne, ma come fu sciolto e padrone delle sue mani si suicidò. Così morì Spargapise.

214)                  E Tomiri, poiché Ciro non le aveva prestato ascolto, raccolse tutte le sue truppe e lo attaccò. Io ritengo questa battaglia la più dura di quante i barbari abbiano mai combattuto fra loro. Ed ecco come si svolse secondo le mie informazioni. In un primo momento si tennero a distanza e si lanciarono frecce, poi, terminate le frecce, si gettarono gli uni contro gli altri brandendo lance e spade. Per lungo tempo si protrasse lo scontro senza che una delle due parti accennasse a fuggire; infine prevalsero i Massageti. La maggior parte dell'esercito persiano fu distrutto e sul campo cadde Ciro stesso. Aveva regnato complessivamente per 29 anni. Tomiri riempì un otre di sangue umano e fece cercare fra i cadaveri dei Persiani il cadavere di Ciro; quando lo trovò immerse la sua testa nell'otre e mentre così infieriva su di lui, disse: "Tu hai ucciso me, anche se sono viva e ti ho sconfitto, sopprimendo con l'inganno mio figlio; ora io ti sazierò di sangue, esattamente come ti avevo minacciato". Fra le tante versioni correnti sulla morte di Ciro questa che ho raccontato mi pare la più degna di fede.

215)                  I Massageti hanno un modo di vestire e un regime di vita simili a quelli degli Sciti. Combattono a cavallo o a piedi (sono esperti in entrambi i campi), sono arcieri e lancieri; abitualmente hanno pure una scure bipenne. Per ogni cosa adoperano oro e bronzo: usano il bronzo per le punte delle lance e delle frecce e per le bipenni, mentre si ornano d'oro l'elmo, la cintura e le tracolle; allo stesso modo corazzano con il bronzo il petto dei cavalli mentre ne rivestono di oro le briglie, il morso e le borchie. Non si servono assolutamente di ferro e di argento perché nel loro paese non se ne trova. Mentre abbondano l'oro e il bronzo.

216)                  Ed ecco le loro usanze: ciascuno sposa una donna ma le donne poi sono in comune per tutti. I Greci sostengono che sono gli Sciti a comportarsi così, ma non è vero: non sono gli Sciti bensì i Massageti; ogni Massageta che desideri una donna appende una faretra al suo carro e fa tranquillamente l'amore con lei. Essi non hanno prefissato un limite alla loro vita, però quando uno è divenuto assai vecchio, tutti i suoi parenti si riuniscono, lo uccidono insieme con altri animali domestici, ne fanno cuocere le carni e se lo mangiano. E questa è considerata da loro la fine più bella; non si cibano invece di chi muore per malattia, anzi lo seppelliscono, considerando una disgrazia che non sia giunto all'età di essere sacrificato. Non praticano l'agricoltura ma vivono di allevamento e di pesca, pesci ne trovano tanti nel fiume Arasse. Sono bevitori di latte. Venerano il sole quale unico dio e gli sacrificano cavalli in base alla seguente considerazione: al più veloce di tutti gli dei offrono il più veloce degli esseri mortali.

 

            

           

 

           

 

  

 

 

 

 

 

 

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