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CRESO E CIRO
Erodoto
di Alicarnasso espone qui il risultato delle sue ricerche storiche; lo
scopo è di impedire che avvenimenti determinati dall'azione degli
uomini finiscano per sbiadire col tempo, di impedire che perdano la
dovuta risonanza imprese grandi e degne di ammirazione realizzate dai
Greci come dai barbari; fra l'altro anche la ragione per cui vennero a
guerra tra loro. 1)
I
dotti persiani affermano che i responsabili della rivalità furono i
Fenici. Costoro giunsero in queste nostre acque provenienti dal mare
detto Eritreo; insediatisi nella regione che abitano tutt’oggi,
subito, con lunghi viaggi di navigazione, presero a fare commercio in
vari paesi di prodotti egiziani ed assiri, e si spinsero fino ad Argo.
A quell'epoca Argo era da ogni punto di vista la città più
importante fra quante sorgevano nel territorio oggi chiamato Grecia. I
Fenici arrivarono ad Argo e vi misero in vendita le loro mercanzie.
Quattro o cinque giorni dopo il loro arrivo, ormai quasi esaurite le
merci, scesero sulla riva del mare diverse donne, tra le quali si
trovava la figlia del re Inaco: si chiamava Io, anche i Greci
concordano su questo punto. Secondo i dotti persiani, mentre le donne
si trattenevano accanto alla poppa della nave, per acquistare i
prodotti che più desideravano, i marinai si incoraggiarono a vicenda
e si avventarono su di loro: molte riuscirono a fuggire, ma non Io,
che fu catturata insieme con altre; risaliti sulle navi, i Fenici si
allontanarono, facendo rotta verso l'Egitto. 2)
Secondo
i Persiani Io giunse in Egitto così e non come narrano i Greci; e
questo episodio
avrebbe segnato l'inizio dei misfatti. In seguito alcuni Greci (essi
non sono in grado di precisarne la provenienza), spintisi fino a Tiro,
in Fenicia, vi rapirono la figlia del re, Europa; è possibile che
costoro fossero di Creta. E fino a qui la situazione era in perfetta
parità, ma poi i Greci si resero responsabili di una seconda colpa:
navigarono con una lunga nave fino ad Ea e alle rive del fiume Fasi,
nella Colchide, e là, compiuta la missione per cui erano venuti,
rapirono Medea, la figlia del re dei Colchi; questi mandò in Grecia
un araldo a reclamare la restituzione della figlia e a chiedere
giustizia del rapimento, ma i Greci risposero che i barbari non
avevano dato soddisfazione del ratto dell'argiva Io e che quindi per
parte loro avrebbero fatto altrettanto. 3)
Narrano che nella generazione successiva Alessandro, figlio di
Priamo, a conoscenza di quei fatti, volle procurarsi moglie in Grecia
per mezzo di un rapimento; era assolutamente convinto che non ne
avrebbe mai dovuto rendere conto ai Greci perché questi in precedenza
non lo avevano fatto nei confronti dei barbari. E così, quando ebbe
rapito Elena, i Greci decisero per prima cosa di inviare messaggeri a
chiedere la sua restituzione e a pretendere giustizia del rapimento;
di fronte a tale istanza i barbari rinfacciarono loro il ratto di
Medea: non era accettabile che proprio i Greci, rei di non avere
pagato il proprio delitto e di non avere provveduto a nessuna
restituzione malgrado le richieste, pretendessero ora di ottenere
giustizia dagli altri. 4)
Comunque,
fino a quel momento, fra Greci e barbari non c'era stato altro che una
serie di reciproci rapimenti; a partire da allora invece i maggiori
colpevoli sarebbero diventati i Greci: essi infatti cominciarono a
inviare eserciti in Asia prima che i Persiani in Europa. Ora, i
barbari ritengono che rapire donne sia azione da delinquenti, ma che
preoccuparsi di vendicare delitti del genere sia pensiero da
dissennati: l'unico atteggiamento degno di un saggio è non tenere il
minimo conto di donne rapite, perché è evidente che non le si
potrebbe rapire se non fossero consenzienti. Secondo i Persiani gli
abitanti dell'Asia non si curano minimamente delle donne rapite; i
Greci invece per una sola donna di Sparta radunarono un grande
esercito, si spinsero fino in Asia e abbatterono la potenza di Priamo;
da allora e per sempre i Persiani avrebbero guardato con ostilità a
tutto ciò che è greco. In effetti essi considerano loro proprietà
l'Asia e le genti barbare che vi abitano e ben separate, a sé stanti,
l'Europa e il mondo greco. 5)
Insomma
i Persiani descrivono così la dinamica degli eventi: fanno risalire
alla distruzione di Ilio l'origine dell'odio che nutrono per i Greci.
Però, a proposito di Io, i Fenici non concordano con i Persiani;
secondo la loro versione essi condussero sì Io in Egitto, ma non dopo
averla rapita, bensì perché lei ancora in Argo aveva avuto una
relazione con il timoniere della nave; accortasi di essere rimasta
incinta, per la vergogna aveva preferito partire con i Fenici, per non
doverlo confessare ai propri genitori. Ecco dunque le versioni dei
Persiani e dei Fenici; quanto a me, riguardo a tali fatti, non mi
azzardo a dire che sono avvenuti in un modo o in un altro; io so
invece chi fu il primo a rendersi responsabile di ingiustizie nei
confronti dei Greci e quando avrò chiarito di costui procederò nel
racconto. Verrò a parlare di varie città, ma senza distinguere fra
grandi e piccole: il fatto è che alcune erano importanti
nell'antichità e poi, in gran parte, sono decadute, altre, notevoli
ai miei tempi, prima invece erano insignificanti; io, ben consapevole
che la condizione umana non è mai stabile e immutabile, le ricorderò
senza fare distinzioni. 6)
Creso
era di stirpe lidia e figlio di Aliatte; era re delle popolazioni al
di qua di quel fiume Alis che, scorrendo da sud fra i Siri e i
Paflagoni, procede verso settentrione fino al Ponto Eusino. Creso, per
primo fra i barbari di cui abbiamo notizia, sottomise alcune città
greche al pagamento di un tributo, mentre di altre cercava di
acquistarsi l'amicizia: le vittime furono gli Ioni, gli Eoli e i Dori
d'Asia, i privilegiati furono gli Spartani. Prima del regno di Creso
tutti i Greci erano indipendenti: anche all'epoca dell'invasione della
Ionia ad opera di un esercito di Cimmeri, alquanto prima del regno di
Creso, non si erano avute sottomissioni di città, bensì soltanto
scorrerie e saccheggi ai loro danni. 7)
In
Lidia il potere apparteneva agli Eraclidi; pervenne alla famiglia di
Creso, ai Mermnadi, come ora vi narro. A Sardi il re era Candaule, dai
Greci chiamato Mirsilo, discendente di un figlio di Eracle, Alceo. Il
primo dei discendenti di Eracle a divenire re di Sardi era stato
Agrone, che era figlio di Nino il quale a sua volta era figlio di Belo
e nipote di Alceo; l'ultimo fu Candaule, figlio di Mirso. Quanti
avevano regnato sul paese prima di Agrone erano discendenti di Lido,
figlio di Atis; da Lido presero nome i Lidi, prima chiamati Meoni. Gli
Eraclidi, progenie di Eracle e di una schiava di Iardano, ottennero il
potere in affidamento dai discendenti di Lido in base a un oracolo e
lo esercitarono per ventidue generazioni, vale a dire per 505 anni,
trasmettendoselo di padre in figlio fino a Candaule figlio di Mirso. 8)
Questo
Candaule era molto innamorato della propria moglie e perciò era
convinto che fosse di gran lunga la più bella donna del mondo. Con
una simile convinzione, poiché era solito confidarsi anche sugli
argomenti più delicati con un certo Gige, una guardia del corpo, suo
favorito, figlio di Dascilo, finì in particolare per esaltargli
l'aspetto fisico della moglie. Ma era fatale che a Candaule ne
derivasse un grave danno: poco tempo dopo disse a Gige: "Gige, ho
l'impressione che tu non mi credi quando ti parlo del corpo di mia
moglie; succede certo che gli uomini abbiano le orecchie più
incredule degli occhi, ma allora fai in modo di vederla nuda". Ma
Gige protestando gli rispose: "Signore, ma che razza di discorso
insano mi fai? Mi ordini di guardare nuda la mia padrona? Quando una
donna si spoglia dei vestiti si spoglia anche del pudore; i buoni
precetti sono ormai un patrimonio antico dell'umanità e da essi
bisogna imparare: uno dice che si deve guardare solo ciò che ci
appartiene. Io crederò che lei è la più bella donna del mondo e ti
prego di non chiedermi assurdità". 9)
Insomma,
rispondendo così, opponeva il suo rifiuto: temeva che da quella
situazione gli potesse derivare qualche guaio. Ma Candaule insistette:
"Coraggio, Gige, non avere paura di me, come se ti facessi un
simile discorso per metterti alla prova, né di mia moglie, che per
opera sua ti possa accadere qualcosa di male; tanto per cominciare io
studierò la maniera che lei non si accorga di essere osservata da te.
Ecco, ti metterò dietro la porta spalancata della stanza in cui
dormiamo; più tardi, quando io sarò entrato, anche mia moglie verrà,
per mettersi a letto. Vicino alla porta c'è una sedia su cui lei,
spogliandosi, appoggerà le vesti, una per una; e così potrai
guardartela in tutta tranquillità; ma quando lei si sposterà dalla
sedia verso il letto, dandoti la schiena, allora esci dalla stanza, ma
fai attenzione che lei non ti veda". 10)
Non
avendo via di scampo, Gige era pronto a obbedire. Candaule, quando gli
parve ora di andare a dormire, condusse Gige nella sua camera; subito
dopo comparve anche la moglie: Gige la osservò mentre entrava e
posava i propri vestiti. Appena la donna si voltò per avvicinarsi al
letto, dandogli le spalle, Gige uscì dal nascondiglio e si allontanò;
lei lo scorse mentre usciva, ma, pur avendo compreso il misfatto del
marito, invece di gridare per la vergogna, finse di non essersi
accorta di niente, con l'intenzione però di vendicarsi di Candaule.
Bisogna sapere che presso i Lidi, come presso quasi tutti gli altri
barbari, è grande motivo di vergogna persino che sia visto nudo un
uomo. 11)
Sul
momento non lasciò trasparire nulla e rimase tranquilla; ma non
appena fu giorno diede istruzioni ai servi che vedeva a sé più
fedeli e mandò a chiamare Gige. Gige credeva che lei ignorasse
l'accaduto e si presentò subito: era abituato anche prima ad
accorrere ogni volta che la regina lo chiamava. Quando lo ebbe
davanti, la donna gli disse: "Ora tu, caro Gige, hai di fronte a
te due strade e io ti concedo di scegliere quale preferisci
percorrere: o uccidi Candaule e ottieni me e il regno dei Lidi, oppure
è necessario che tu muoia subito, così non sarai più costretto a
vedere ciò che non devi per obbedire a tutti gli ordini del tuo
padrone. Non ci sono alternative: o muore il responsabile di tutte
queste macchinazioni o muori tu che mi hai vista nuda e che hai
compiuto azioni così poco lecite". Gige dapprima rimase
sbalordito dalle parole della regina, poi supplicò per un po' di non
costringerlo a compiere una simile scelta; ma non riuscì a
persuaderla, anzi si rese conto senza più dubbi di trovarsi di fronte
all'ineluttabile: uccidere il proprio padrone o venire ucciso lui
stesso da altri, e scelse la propria salvezza. Rivolgendosi alla donna
le chiese: "Poiché mi costringi a uccidere il mio padrone contro
la mia volontà, voglio almeno sapere in che modo lo
aggrediremo". E lei gli rispose: "L'aggressione avverrà
esattamente dallo stesso luogo dal quale lui mi ha mostrata nuda e il
colpo si farà mentre dorme". 12)
Studiarono
i particolari del piano e appena scese la notte Gige seguì la donna
nella camera da letto: gli era stato impedito di allontanarsi e non
aveva nessuna possibilità di sottrarsi a quel compito: era
inevitabile la morte sua o di Candaule. La regina lo nascose dietro la
stessa porta dopo avergli consegnato un pugnale. Più tardi, quando
Candaule si addormentò, Gige uscì dal suo nascondiglio, lo uccise ed
ebbe così insieme la donna e il regno. Archiloco di Paro, vissuto
nella stessa epoca, menzionò Gige in un suo trimetro giambico. 13)
Ottenne
il regno e vide consolidato il suo potere grazie all'oracolo di Delfi,
perché quando già i Lidi, considerando la gravità dell'assassinio
di Candaule, erano in armi, i partigiani di Gige e gli altri Lidi
vennero a un accordo: se l'oracolo lo avesse designato re dei Lidi,
allora Gige avrebbe regnato, in caso contrario avrebbe restituito il
potere agli Eraclidi. L'oracolo gli fu favorevole e così Gige fu re.
La Pizia vaticinò che gli Eraclidi si sarebbero rivalsi sul quinto
discendente di Gige, ma di questa profezia i Lidi e i loro sovrani non
si curarono più fino a quando non si compì. 14)Ecco
insomma come i Mermnadi avevano conquistato il potere, sottraendolo
agli Eraclidi. Gige, quando fu re, inviò rilevanti offerte a Delfi,
in pratica la maggior parte di tutte le offerte in argento che vi si
trovano; e oltre all'argento dedicò anche oro in grande quantità,
fra cui è degna di menzione una serie di sei crateri d'oro: oggi si
trovano nel tesoro dei Corinzi e raggiungono un peso di trenta
talenti. Però a dire il vero il tesoro non appartiene allo stato di
Corinto, bensì a Cipselo figlio di Eezione. Gige fu il primo barbaro
di cui abbiamo notizia a inviare offerte a Delfi dopo Mida, figlio di
Gordio, re di Frigia. Mida aveva consacrato il trono regale da cui
amministrava la giustizia, un oggetto che merita di essere visto:
questo trono si trova dove sono collocati anche i crateri di Gige. Gli
abitanti di Delfi chiamano "Gigade", dal nome del donatore,
l'oro e l'argento offerti da Gige. Quando ebbe il potere, anch'egli
inviò spedizioni militari contro Mileto e Smirne, ed espugnò la città
di Colofone, ma non ci fu nessuna altra impresa durante i 38 anni del
suo regno, e anche di questa basterà aver fatto menzione. 15)Mi
limiterò a menzionare soltanto anche Ardi, figlio di Gige, che regnò
dopo il padre: costui espugnò Priene e organizzò una spedizione
contro Mileto; fu durante il suo regno che i Cimmeri, muovendo dalle
loro sedi a causa della pressione di nomadi Sciti, si spostarono in
Asia e occuparono tutta Sardi a eccezione dell'acropoli. 16)Dopo
i 49 anni del regno di Ardi sul trono salì suo figlio Sadiatte, che
regnò per 12 anni. Il figlio di Sadiatte, Aliatte, combatté poi una
guerra contro Ciassare, il discendente di Deioce, e contro i Medi,
scacciò i Cimmeri dall'Asia, prese Smirne, colonia di Colofone e
assalì pure Clazomene: da questo conflitto non uscì proprio come
aveva sperato, anzi con insuccessi non indifferenti. Però mentre fu
al potere realizzò altre imprese degne di essere ricordate. 17)Combatté
contro i Milesi una guerra ereditata dal padre, guidando le manovre di
offesa e stringendo l'assedio nella maniera seguente: mandava
all'attacco l'esercito ogni volta che in quella terra i prodotti erano
giunti a maturazione; le operazioni si svolgevano al suono di
zampogne, di pettidi e di flauti acuti e gravi. Quando entrava nei
territori di Mileto non abbatteva o incendiava le case che si
trovavano nei campi; non ne forzava neppure le porte, le lasciava
intatte in tutta la contrada; gli alberi e i frutti della terra li
faceva distruggere e poi si ritirava. Il fatto è che i Milesi erano
padroni del mare, sicché non era possibile per un esercito stringerli
d'assedio. Il re lidio non abbatteva le costruzioni affinché i Milesi
muovendo da esse potessero coltivare e lavorare la terra e lui, grazie
al lavoro di quelli, avesse qualcosa da depredare durante le sue
incursioni. 18)Con
questo sistema la guerra durò undici anni, durante i quali i Milesi
subirono due gravi sconfitte, a Limeneo nel loro territorio e nella
piana del Meandro. Per sei anni su undici a capo dei Lidi era stato
ancora il figlio di Ardi Sadiatte: era stato lui a suo tempo a
invadere con le sue truppe il paese di Mileto, ed era stato anche il
responsabile dell'inizio della guerra. Nei successivi cinque anni a
combattere fu Aliatte figlio di Sadiatte il quale, come ho già
spiegato, ereditò dal padre il conflitto e lo diresse con particolare
energia. Nessuna popolazione della Ionia aiutò i Milesi a sostenere
il peso di quella guerra tranne i soli abitanti di Chio, che vennero
in loro soccorso per ricambiare un analogo favore: infatti in tempi
precedenti Mileto aveva condiviso con Chio i disagi della guerra
contro Eritrei. 19)Al
dodicesimo anno, mentre il raccolto veniva dato alle fiamme
dall'esercito, si verificò questo fatto: quando le messi presero a
bruciare, il fuoco, spinto dal vento, raggiunse il tempio di Atena
Assesia: il tempio si incendiò e rimase completamente distrutto dalle
fiamme, cosa alla quale sul momento nessuno fece caso. Ma dopo il
ritorno a Sardi dell'esercito, Aliatte si ammalò; e siccome la
malattia non guariva, inviò a Delfi degli incaricati, vuoi per
suggerimento di qualcuno vuoi avendo deciso da solo di interrogare il
dio sulla natura del proprio male. E agli inviati la Pizia rispose che
non avrebbe emesso alcun responso se prima non avessero ricostruito il
tempio di Atena che avevano incendiato ad Asseso nel territorio di
Mileto. 20)Io
sono a conoscenza di questi particolari perché mi sono stati
raccontati a Delfi, ma i Milesi aggiungono che Periandro, figlio di
Cipselo, legato da strettissimi vincoli di ospitalità con l'allora re
di Mileto Trasibulo, quando venne a conoscenza dell'oracolo dato ad
Aliatte, tramite un messaggero lo riferì a Trasibulo affinché,
saputolo prima, potesse regolarsi di conseguenza. 21)
Così
andarono le cose secondo il racconto dei Milesi. Quando Aliatte
ricevette il responso, subito inviò a Mileto un araldo, intenzionato
a stipulare una tregua con Trasibulo e con i Milesi per tutto il tempo
necessario alla edificazione del santuario. Così, mentre l'inviato
era in viaggio verso Mileto, Trasibulo, ormai al corrente di ogni cosa
e in grado di prevedere le mosse di Aliatte, preparò la seguente
messinscena: fece raccogliere nella piazza principale tutte quante le
riserve alimentari della città, pubbliche e private, e ordinò ai
cittadini di attendere il suo segnale e poi di abbandonarsi a bevute e
a bagordi collettivi. 22)Trasibulo
dava queste disposizioni affinché l'araldo di Sardi tornasse a
riferire ad Aliatte di aver visto grandi cumuli di vivande
ammonticchiate e uomini dediti a festeggiamenti. Come appunto avvenne:
l'araldo vide quello spettacolo, riferì a Trasibulo il messaggio del
re lidio e ritornò a Sardi; e, secondo le informazioni che ho
ricevuto, fu proprio quella la causa della ricomposizione del
conflitto. In realtà Aliatte sperava che Mileto fosse ormai in preda
a una dura carestia e la cittadinanza ridotta all'estremo limite di
sopportazione: invece udì dall'araldo ritornato da Mileto esattamente
il contrario di ciò che si aspettava. In seguito stipularono una pace
stringendo fra loro vincoli di ospitalità e di alleanza; Aliatte fece
costruire ad Asseso non uno ma due templi dedicati ad Atena e guarì
della sua malattia. Questo accadde ad Aliatte durante la guerra contro
Trasibulo e Mileto. 23) Periandro,
quello che aveva informato Trasibulo del responso, era figlio di
Cipselo e signore di Corinto; gli abitanti di Corinto narrano (e i
Lesbi concordano con loro) che durante la sua vita si verificò un
evento portentoso, l'arrivo al Tenaro di Arione di Metimna, in groppa
a un delfino. Arione fu il più grande citaredo dell'epoca, il primo
uomo a nostra conoscenza a comporre un ditirambo, a dargli nome e a
farlo eseguire in Corinto. 24)
Ebbene
si narra che Arione, il quale trascorreva accanto a Periandro la
maggior parte del suo tempo, aveva provato grande desiderio di
compiere un viaggio per mare fino in Italia e in Sicilia; là si era
arricchito, poi aveva deciso di ritornare a Corinto. Quando dunque si
trattò di ripartire da Taranto, poiché non si fidava di nessuno più
che dei Corinzi, noleggiò una nave di Corinto; ma quando furono in
mare aperto gli uomini dell'equipaggio tramarono di sbarazzarsi di
Arione e di impossessarsi delle sue ricchezze. Arione se ne accorse e
cominciò a supplicarli: era disposto a cedere i suoi averi, ma
chiedeva salva la vita; tuttavia non riuscì a convincerli, anzi i
marinai gli ingiunsero di togliersi la vita così da ottenere
sepoltura nella terra oppure di gettarsi in mare al più presto.
Arione, vistosi ormai senza scampo, chiese il permesso, poiché
avevano deciso così, di cantare in piedi fra i banchi dei rematori in
completa tenuta di scena: promise di togliersi la vita al termine del
canto. I marinai, piacevolmente attirati dall'idea di ascoltare il
miglior cantore del mondo, si ritirarono da poppa verso il centro
della nave. Arione indossò i suoi costumi di scena, prese la cetra ed
eseguì un canto a tono elevato, stando in piedi tra i banchi dei
rematori; alla fine del canto si gettò in mare così com'era, con
tutto il costume. Sempre secondo il racconto i marinai fecero poi
rotta verso Corinto mentre Arione fu raccolto da un delfino e
trasportato fino al Tenaro; qui toccò terra e da qui si diresse verso
Corinto, ancora in tenuta di scena; quando vi giunse narrò tutto
l'accaduto a Periandro, il quale, alquanto incredulo, decise di
trattenere Arione sotto sorveglianza e di concentrare la sua
attenzione sull'equipaggio della nave. Così, quando i marinai furono
a disposizione, li fece chiamare e chiese loro se potevano dargli
notizie di Arione; essi risposero che si trovava vivo e vegeto in
Italia, che lo avevano lasciato a Taranto in piena e felice attività;
ma Arione si mostrò davanti a loro, ancora vestito come quando era
saltato dalla nave, e quelli, sbigottiti e ormai scoperti, non
poterono più negare. Questo raccontano i Corinzi e i Lesbi; inoltre
sul Tenaro si trova una statua votiva di bronzo di Arione, non grande,
che rappresenta un uomo in groppa a un delfino. 25)
Aliatte,
il re di Lidia che aveva portato a termine la guerra contro Mileto,
morì assai più tardi, dopo 57 anni di regno. Guarito dalla malattia,
aveva consacrato a Delfi, secondo nella sua famiglia, un grande
cratere d'argento e un sottocratere di ferro saldato, oggetto che
merita di essere visto più di tutti gli ex-voto di Delfi; è opera di
Glauco di Chio che fu l'unico artista a scoprire la tecnica di
saldatura del ferro. 26)
Alla
morte di Aliatte gli succedette nel regno il figlio Creso che
all'epoca aveva 35 anni; egli assalì per primi tra i Greci gli
Efesini. In quella circostanza gli Efesini, assediati dall'esercito di
Creso, affidarono la città ad Artemide legando una fune dal tempio
fino alle mura. Fra la parte antica della città, che era quella
allora assediata, e il tempio ci sono sette stadi. Gli Efesini furono
solo i primi perché poi in seguito Creso aggredì una per una tutte
le città degli Ioni e degli Eoli, prendendo a pretesto le colpe più
svariate, muovendo accuse gravi quando poteva trovarne di gravi, ma
anche adducendo ragioni di poco conto. 27)
Dopo
aver costretto tutti i Greci d'Asia al pagamento di un tributo,
progettò di far costruire delle navi e di assalire gli abitanti delle
isole. Si racconta che, quando ormai tutto era pronto alla costruzione
delle navi, giunse a Sardi Biante di Priene (secondo altri era Pittaco
di Mitilene): e costui riuscì a fare interrompere i lavori dando a
Creso, che gli chiedeva se ci fossero novità dalla Grecia, la
seguente risposta: "Signore, gli abitanti delle isole stanno
facendo incetta di cavalli per organizzare una spedizione contro Sardi
e contro di te". Creso, credendo che stesse parlando seriamente,
esclamò: "Magari gli dei glielo mettessero in testa a quegli
isolani di venire contro i figli dei Lidi con la cavalleria!" E
l'altro replicò: "Mio re, vedo che ti auguri ardentemente di
ricevere sul continente degli isolani trasformati in cavalieri, ed è
una speranza ben logica; ma poi, cos'altro credi che si augurino gli
isolani, da quando hanno saputo che stai facendo costruire navi per
assalirli, se non di ricevere i Lidi sul mare, dove potrebbero farti
pagare la schiavitù in cui tieni i Greci del continente?"
Raccontano che a Creso piacque molto questa conclusione e poiché gli
parve molto pertinente si persuase a interrompere la costruzione delle
navi. Fu così che strinse un patto di buon vicinato con gli Ioni
residenti nelle isole. 28)Col
passare del tempo quasi tutte le popolazioni stanziate al di qua del
fiume Alis furono sottomesse: Creso assoggettò al suo dominio, tranne
Cilici e Lici, tutte le altre genti: Lidi, Frigi, Misi, Mariandini,
Calibi, Paflagoni, Traci (Tini e Bitini), Cari, Ioni, Dori, Eoli e
Panfili. 29)
Creso
li sottomise e ne annesse i territori al regno dei Lidi; così in una
Sardi all'apice dello splendore giunsero in seguito tutti i sapienti
di Grecia dell'epoca, uno dopo l'altro, e tra gli altri Solone di
Atene. Solone formulò le leggi per i propri concittadini, su loro
richiesta, e poi soggiornò fuori della patria per dieci anni, partito
col pretesto di un viaggio conoscitivo, ma in realtà per non essere
costretto ad abrogare alcuna delle leggi che aveva promulgato; perché
gli Ateniesi, da soli, non erano in condizione di farlo: solenni
giuramenti li vincolavano per dieci anni a valersi delle norme
stabilite da Solone. 30)
Per
tale ragione e anche per il suo viaggio, Solone rimase all'estero,
recandosi in Egitto presso Amasi e, appunto, a Sardi presso Creso. Al
suo arrivo fu ospitato da Creso nella reggia: due o tre giorni dopo,
per ordine del re, alcuni servitori lo condussero a visitare i tesori
e gli mostrarono quanto vi era di straordinario e di sontuoso. Creso
aspettò che Solone avesse osservato e considerato tutto per bene e
poi, al momento giusto, gli chiese: "Ospite ateniese, ai nostri
orecchi è giunta la tua fama, che è grande sia a causa della tua
sapienza sia per i tuoi viaggi, dato che per amore di conoscenza hai
visitato molta parte del mondo: perciò ora m'ha preso un grande
desiderio di chiederti se tu hai mai conosciuto qualcuno che fosse
veramente il più felice di tutti. Faceva questa domanda perché
riteneva di essere lui l'uomo più ricco, ma Solone, evitando
l'adulazione e badando alla verità, rispose: "Certamente,
signore, Tello di Atene". Creso rimase sbalordito da questa
risposta e lo incalzò con un'altra domanda: "E in base a quale
criterio giudichi Tello l'uomo più felice?" E Solone spiegò:
"Tello in un periodo di prosperità per la sua patria ebbe dei
figli sani e intelligenti e tutti questi figli gli diedero dei nipoti
che crebbero tutti; lui stesso poi, secondo il nostro giudizio già
così fortunato in vita, ha avuto la fine più splendida: durante una
battaglia combattuta a Eleusi dagli Ateniesi contro una città
confinante, accorso in aiuto, mise in fuga i nemici e morì
gloriosamente; e gli Ateniesi gli celebrarono un funerale di stato nel
punto esatto in cui era caduto e gli resero grandissimi onori". 31)
Quando
Solone gli ebbe presentato la storia di Tello, così ricca di eventi
fortunati, Creso gli domandò chi avesse conosciuto come secondo dopo
Tello, convinto di avere almeno il secondo posto. Ma Solone disse:
"Cleobi e Bitone, entrambi di Argo, i quali ebbero sempre di che
vivere e oltre a ciò una notevole forza fisica, sicché tutti e due
riportarono vittorie nelle gare atletiche; di loro tra l'altro si
racconta il seguente episodio: ad Argo c'era una festa dedicata a Era
e i due dovevano assolutamente portare la madre al tempio con un
carro, ma i buoi non giungevano in tempo dai campi; allora, per non
arrivare in ritardo, i due giovani sistemarono i gioghi sulle proprie
spalle, tirarono il carro, sul quale viaggiava la madre, e arrivarono
fino al tempio dopo un tragitto di 45 stadi. Al loro gesto, ammirato
da tutta la popolazione riunita per la festa, seguì una fine
nobilissima: con loro il dio volle mostrare quanto, per un uomo,
essere morto sia meglio che vivere. Intorno ai due giovani gli uomini
di Argo ne lodavano la forza, mentre le donne si complimentavano con
la madre che aveva avuto due figli come quelli; e la madre, oltremodo
felice dell'impresa e della grande reputazione derivatane, si fermò
in piedi di fronte all'immagine della dea e la pregò di concedere a
Cleobi e a Bitone, i suoi due figli che l'avevano tanto onorata, la
sorte migliore che possa toccare a un essere umano. Dopo questa
preghiera i giovani celebrarono i sacrifici e il banchetto e poi si
fermarono a dormire lì nel tempio; e l'indomani non si svegliarono più:
furono colti così dalla morte. Gli Argivi li ritrassero in due statue
che consacrarono a Delfi, come si fa con gli uomini più
illustri". 32)
A
quei due dunque Solone assegnava il secondo posto nella graduatoria
della felicità; Creso si irritò e gli disse: "Ospite ateniese,
la nostra felicità l'hai svalutata al punto da non ritenerci neppure
pari a cittadini qualunque?" E Solone rispose: "Creso tu
interroghi sulla condizione umana un uomo che sa quanto
l'atteggiamento divino sia pieno di invidia e pronto a sconvolgere
ogni cosa. In un lungo arco di tempo si ha occasione di vedere molte
cose che nessuno desidera e molte bisogna subirle. Supponiamo che la
vita di un uomo duri settanta anni; settanta anni da soli, senza
considerare il mese intercalare, fanno 25.200 giorni; se poi vuoi che
un anno ogni due si allunghi di un mese per evitare che le stagioni
risultino sfasate, visto che in settanta anni i mesi intercalari sono
35, i giorni da aggiungere risultano 1050. Ebbene, di tutti i giorni
che formano quei settanta anni, cioè di ben 26.250 giorni, non uno
solo vede lo stesso evento di un altro. E così, Creso, tutto per
l'uomo è provvisorio. Vedo bene che tu sei ricchissimo e re di molte
genti, ma ciò che mi hai chiesto io non posso attribuirlo a te prima
di aver saputo se hai concluso felicemente la tua vita. Chi è molto
ricco non è affatto più felice di chi vive alla giornata, se il suo
destino non lo accompagna a morire serenamente ancora nella sua
prosperità. Infatti molti uomini, pur essendo straricchi, non sono
felici, molti invece, che vivono una vita modesta, possono dirsi
davvero fortunati. Chi è molto ricco ma infelice è superiore
soltanto in due cose a chi è fortunato, ma quest'ultimo rispetto a
chi è ricco è superiore da molti punti di vista. Il primo può
realizzare un proprio desiderio e sopportare una grave sciagura più
facilmente, ma il secondo gli è superiore perché, anche se non è in
grado come lui di sopportare sciagure e soddisfare desideri, da questi
però la sua buona sorte lo tiene lontano; e non ha imperfezioni
fisiche, non ha malattie e non subisce disgrazie, ha bei figli e un
aspetto sempre sereno. E se oltre a tutto questo avrà anche una buona
morte, allora è proprio lui quello che tu cerchi, quello degno di
essere chiamato felice. Ma prima che sia morto bisogna sempre evitare
di dirlo felice, soltanto "fortunato". Certo, che un uomo
riunisca tutte le suddette fortune, non è possibile, così come
nessun paese provvede da solo a tutti i suoi fabbisogni: se qualcosa
produce, di altro è carente, cosicché migliore è il paese che
produce più beni. Allo stesso modo non c'è essere umano che sia
sufficiente a se stesso: possiede qualcosa ma altro gli manca; chi
viva, continuamente avendo più beni, e poi concluda la sua vita
dolcemente, ecco, signore, per me costui ha diritto di portare quel
nome. Di ogni cosa bisogna indagare la fine. A molti il dio ha fatto
intravedere la felicità e poi ne ha capovolto i destini,
radicalmente". 33)
Creso
non rimase per niente soddisfatto di questa spiegazione; non tenne
Solone nella minima considerazione e lo congedò; considerava
senz'altro un ignorante chi trascurava i beni presenti e di ogni cosa
esortava a osservare la fine. 34)
Dopo
la partenza di Solone Creso subì la vendetta del dio: la subì, per
quanto si può indovinare, perché aveva creduto di essere l'uomo più
felice del mondo. Non era trascorso molto tempo quando nel sonno ebbe
un sogno rivelatore: sognò le sventure che sarebbero poi
effettivamente capitate a suo figlio. Creso aveva due figli, uno dei
quali menomato (era muto), mentre l'altro, di nome Atis, primeggiava
fra i suoi coetanei in ogni attività; il sogno indicò a Creso
chiaramente che Atis sarebbe morto colpito da una punta di ferro. Al
risveglio, quando si rese conto del contenuto del sogno, ne provò
orrore; allora fece prendere moglie al figlio e siccome prima era
abituato a guidare l'esercito lidio, non lo inviò più in nessun
luogo per incarichi di questo tipo. Frecce, giavellotti e tutti quegli
strumenti che si usano per combattere, li fece asportare dalle sale
degli uomini e ammucchiare nelle stanze delle donne, perché nessuno
di essi, rimanendo appeso alle pareti, potesse cadere accidentalmente
sul figlio. 35)
Quando
il figlio era impegnato nelle nozze, giunse a Sardi uno sventurato di
nazionalità frigia e di stirpe reale, le cui mani erano impure.
Costui si presentò alla reggia di Creso e chiese di ottenere la
purificazione secondo le norme locali, e Creso lo purificò. Il
rituale di purificazione dei Lidi è pressoché identico a quello dei
Greci. Compiuti gli atti rituali, Creso gli chiese chi fosse e da dove
venisse: "Straniero, chi sei? Da quale parte della Frigia sei
venuto a rifugiarti presso il mio focolare? Quale uomo o quale donna
hai ucciso?" E quello rispose: "Signore, io sono nipote di
Mida e figlio di Gordio, il mio nome è Adrasto; sono qui perché
senza volerlo ho ucciso mio fratello e perché sono stato scacciato da
mio padre e privato di ogni cosa". Al che Creso disse: "Si dà
il caso che tu sia discendente di persone legate a noi da vincoli di
amicizia; e fra amici pertanto tu sei arrivato. Se rimani con noi non
ti mancherà nulla e se vivrai di buon cuore questa tua disgrazia,
avrai molto da guadagnarci". 36)
E
così Adrasto soggiornava presso Creso quando comparve sul monte
Olimpo di Misia un grosso esemplare di cinghiale che muovendo dalla
montagna distruggeva le coltivazioni dei Misi; più di una volta i
Misi avevano organizzato battute di caccia, senza però riuscire ad
arrecargli alcun danno, subendone anzi da lui. Infine dei messaggeri
Misi si recarono da Creso e gli dissero: "O re, nella nostra
regione è comparso un gigantesco cinghiale che ci distrugge le
coltivazioni; e noi, con tutto l'impegno che ci mettiamo, non
riusciamo ad abbatterlo. Perciò ora ti preghiamo di mandare tuo
figlio insieme con giovani scelti e cani, così potremo allontanarlo
dai nostri territori". Queste erano le loro richieste, ma Creso,
memore del sogno, rispose: "Quanto a mio figlio non se ne parla
nemmeno: non lo posso mandare con voi perché si è appena sposato e
ora ha da pensare a ben altro. Manderò invece uomini scelti e ogni
sorta di equipaggiamento utile alla caccia, e ordinerò agli uomini
della spedizione di garantire tutto il loro impegno nell'aiutarvi a
scacciare il cinghiale dal vostro paese". 37)
Ma
mentre i Misi erano soddisfatti della risposta ricevuta, si fece
avanti il figlio di Creso, che aveva udito le richieste dei Misi;
visto che suo padre si era rifiutato di inviarlo con loro, il giovane
gli disse: "Padre, una volta per noi l'aspirazione più bella e
più nobile consisteva nel meritarsi gloria in guerra o nella caccia,
ma ora tu mi vieti entrambe le attività; eppure non hai certamente
scorto in me qualche segno di vigliaccheria o di paura. Con quale
faccia ora devo mostrarmi fra la gente andando e venendo attraverso la
città? Che opinione avranno di me i cittadini, e mia moglie, che mi
ha appena sposato? Con quale marito crederà di convivere? Adesso
perciò o tu mi lasci partecipare alla caccia, oppure mi dai una
spiegazione sufficiente a convincermi che è meglio non farlo". 38)E
Creso rispose: "Figlio mio, io non agisco così perché abbia
scorto in te vigliaccheria o qualche altra cosa spiacevole; ma una
visione apparsami nel sonno mi disse che tu avresti avuto una vita
breve, che saresti morto colpito da una punta di ferro. Perciò dopo
il sogno affrettai le tue nozze e perciò ora non invio te per
l'impresa che ho accettato: agisco con cautela per vedere se in
qualche modo, finché sono vivo, riesco a sottrarti alla morte. Il
destino vuole che tu sia il mio unico figlio: l'altro infatti, che è
menomato, non lo considero tale". 39) E
il giovane gli rispose: "Ti capisco, padre, e capisco le
precauzioni che hai nei miei riguardi dopo un simile sogno. Ma di
questo sogno ti è sfuggito un particolare ed è giusto che io te lo
faccia notare. Dal tuo racconto risulta che il sogno ti annunciava la
mia morte come causata da una punta di ferro: e quali mani possiede un
cinghiale? Quale punta di ferro di cui tu possa avere paura? Se ti
avesse annunciato la mia morte come provocata da una zanna o da
qualcosa del genere, allora sarebbe stato tuo dovere agire come
agisci, ma ha parlato di una punta. E allora, visto che non si tratta
di andare a combattere contro dei guerrieri, lasciami partire". 40)
E
Creso concluse: "Figlio mio, si può dire che nell'interpretare
il mio sogno tu batti le mie capacità di giudizio: e io, in quanto
sconfitto da te, cambio parere e ti lascio partecipare alla
caccia". 41)
Detto
ciò, Creso fece chiamare il frigio Adrasto al quale, quando lo ebbe
davanti, pronunciò il seguente discorso: "Adrasto, - disse - tu
eri stato colpito da una dolorosa disgrazia, che non ti rimprovero, e
io ti ho purificato e accolto nella mia casa dove ora ti ospito
offrendoti ogni mezzo di sussistenza; adesso dunque, visto che per
primo ti ho concesso enormi favori, tu sei in debito verso di me di
favori uguali; io desidero che tu vegli su mio figlio che sta partendo
per una battuta di caccia, che lungo la strada non vi si parino
davanti pericolosi ladroni armati di cattive intenzioni. Oltre tutto
non puoi esimerti dal recarti là dove tu possa segnalarti con qualche
bella impresa: così facevano i tuoi antenati, senza contare che le
tue forze te lo consentono ampiamente". 42)
E
Adrasto gli rispose: "Sovrano, se non me lo chiedessi tu, io non
parteciperei a una simile impresa, perché non è decoroso per me, con
la disgrazia che ho avuto, accompagnarmi a giovani della mia età
dalla vita felice: non è quanto io voglio, anzi ne farei volentieri a
meno. Ma ora, poiché sei tu a spingermi e verso di te io devo
mostrarmi cortese, in debito come sono di enormi favori, ora sono
disposto a farlo; tuo figlio, che affidi alla mia sorveglianza, per
quanto dipende da me fai pure conto di vederlo tornare sano e
salvo". 43)
Quando
Adrasto ebbe dato a Creso la sua risposta, la spedizione partì, con
ampio seguito di giovani scelti e di cani da caccia. Giunsero al monte
Olimpo e cominciarono a cercare il cinghiale; trovatolo lo
circondarono e presero a scagliargli addosso i loro giavellotti: a
questo punto l'ospite, proprio quello purificato da Creso, Adrasto,
nel tentativo di centrare il cinghiale finì per sbagliarlo colpendo
invece il figlio di Creso. Questi, trafitto dalla punta, dimostrò
l'esattezza profetica del sogno. Qualcuno corse ad annunciare a Creso
l'accaduto: come giunse a Sardi gli raccontò della battuta di caccia
e della disgrazia del figlio. 44)
Creso,
sconvolto dalla morte del figlio, fu ancora più dispiaciuto per il
fatto che a ucciderlo era stato l'uomo da lui purificato da un
omicidio. Prostrato dalla sciagura, invocava con rabbia Zeus
Purificatore, chiamandolo a testimone di ciò che aveva sofferto per
mano del suo ospite, e lo invocava come protettore del focolare e
dell'amicizia, sempre lo stesso dio ma con attributi diversi: in
quanto protettore del focolare perché, avendo accolto nella propria
casa lo straniero, senza saperlo aveva dato da mangiare all'uccisore
di suo figlio, in quanto protettore dell'amicizia perché lo aveva
inviato come difensore e se lo ritrovava ora odiosissimo nemico. 45)
Più
tardi tornarono i Lidi portando il cadavere e dietro li seguiva il
responsabile della disgrazia: Adrasto, in piedi di fronte al cadavere,
si consegnava a Creso protendendo le mani, invitandolo a immolarlo sul
corpo del figlio; ricordava la precedente sventura e sosteneva di non
avere più diritto di vivere dato che aveva rovinato chi a suo tempo
si era fatto suo benefattore. Creso, nonostante il grande dolore per
la disgrazia abbattutasi sulla sua famiglia, udendo queste parole ebbe
compassione di Adrasto e gli disse: "Ho già da parte tua ogni
soddisfazione visto che tu stesso ti assegni la morte come punizione.
Tu non hai colpa di questa sciagura se non in quanto ne sei stato
strumento involontario: il responsabile forse è un dio, che già da
tempo mi aveva preannunciato quanto sarebbe accaduto". Poi Creso
diede al figlio degna sepoltura; Adrasto, discendente di Gordio e di
Mida, uccisore del proprio fratello e uccisore di chi da
quell'omicidio lo aveva purificato, riconoscendo di essere l'uomo più
sciagurato del mondo, attese che tutti si fossero allontanati dal
sepolcro e lì, proprio sulla tomba, si tolse la vita. 46)
Creso,
rimasto privo del figlio, per due anni mantenne un lutto strettissimo.
Più tardi la caduta di Astiage figlio di Ciassare e l'assunzione del
potere da parte di Ciro, figlio di Cambise, con la conseguente
crescita della potenza persiana, distolsero Creso dal suo dolore e
determinarono in lui la preoccupazione insistente di frenare, se
possibile, l'espansione della potenza dei Persiani prima che
divenissero troppo influenti. Con questa idea decise subito di mettere
alla prova gli oracoli greci e l'oracolo di Libia inviando corrieri un
po' ovunque: a Delfi, ad Abe nella Focide, a Dodona; altri furono
mandati ai santuari di Anfiarao e di Trofonio, altri ancora presso i
sacerdoti Branchidi, nel territorio di Mileto. Tanti furono gli
oracoli greci che Creso mandò a consultare; in Libia inviò un'altra
delegazione a interrogare l'indovino di Ammone. In tal modo Creso
voleva verificare le conoscenze degli oracoli: se avesse riscontrato
che conoscevano la verità, avrebbe inviato nuovi corrieri per
chiedere se poteva intraprendere spedizioni militari contro la Persia. 47)
Ai
Lidi spediti a saggiare gli oracoli diede le seguenti istruzioni:
dovevano tenere il conto esatto dei giorni trascorsi dopo la loro
partenza da Sardi; al centesimo giorno dovevano consultare gli oracoli
chiedendo loro che cosa stesse facendo in quel momento il re dei Lidi
Creso, figlio di Aliatte; dovevano trascrivere parola per parola il
responso degli indovini e tornare a riferirlo. Nessuno sa dire quali
furono le risposte degli altri oracoli, ma a Delfi, non appena i Lidi
furono entrati nel santuario ed ebbero consultato il dio formulando la
domanda prescritta, la Pizia diede in versi esametri la seguente
rispose:…. “Io della spiaggia conosco le arene e il volume del
mare, Il sordomuto comprendo e se pure non parli l’intendo. Di
tartaruga dal cuoio robusto un odore mi giunge, Cotta nel bronzo
insieme con pezzi di carne di agnello: Bronzo v’è sotto disteso, ed
essa di bronzo vestita.”… (
Io so quanti sono i granelli di sabbia e so le dimensioni del
mare, io intendo chi è muto e ascolto anche chi non ha voce. Fino a
me giunge l'odore di una testuggine dal duro guscio che sta cuocendo
nel rame insieme con carni di agnello: c'è bronzo sotto di lei e
bronzo sopra). 48)
I
Lidi trascrissero il responso della Pizia e partirono per tornare a
Sardi. Quando anche gli altri inviati furono presenti, tutti con il
loro responso, Creso aprì gli scritti, uno per uno, e ne esaminò il
contenuto: nessuno degli altri gli parve soddisfacente, ma quando
apprese il responso proveniente da Delfi subito lo accolse con
devozione, e ritenne quello di Delfi l'unico vero oracolo, poiché
aveva scoperto ciò che lui stava facendo. Infatti, dopo aver inviato
i suoi messi presso gli oracoli, aveva tenuto d'occhio con la massima
cura la data prestabilita, preparando il suo piano: pensò qualcosa
che fosse impossibile indovinare o prendere in considerazione: uccise
una testuggine e un agnello e li cucinò personalmente in un lebète
di bronzo chiusa da un coperchio, pure di bronzo. 49)
Tale
dunque fu il responso che Creso ricevette da Delfi. Quanto
all'indovino di Anfiarao non sono in grado di dire quale risposta
diede ai Lidi, quando ebbero esaurito il consueto rituale intorno al
santuario: nemmeno il testo di questo oracolo ci viene tramandato, ma
posso dire che Creso giudicò di avere ricevuto un vaticinio
veritiero. 50)
Dopodiché
Creso cercava di procurarsi il favore del dio di Delfi con offerte
imponenti: immolò 3000 capi di bestiame di tutte le specie adatte al
sacrificio, ammassò una gigantesca pira sulla quale bruciò lettighe
rivestite d'oro e d'argento, boccette d'oro, vesti di porpora e
tuniche, sperando di guadagnarsi maggiormente il favore del dio con
simili offerte. E a tutti i Lidi ordinò di sacrificare quanto
ciascuno potesse. Al termine dei sacrifici fece fondere un enorme
quantitativo d'oro e ne ricavò dei mezzi mattoni lunghi sei palmi,
larghi tre e spessi uno: erano 117 di numero, di cui quattro di oro
puro, ciascuno del peso di due talenti e mezzo, mentre gli altri mezzi
mattoni pesavano due talenti essendo costituiti da oro bianco. Fece
fondere in oro puro anche la statua di un leone, pesante dieci
talenti. Questo leone, quando ci fu l'incendio del tempio di Delfi,
cadde dai mattoni, sui quali era appunto collocato: ora si trova nel
tesoro di Corinto e pesa sei talenti e mezzo, perché tre talenti e
mezzo si fusero e andarono perduti. 51)
Appena
pronti tali oggetti, Creso li spedì a Delfi; e vi aggiunse due
crateri di grandi dimensioni, uno d'oro e uno d'argento; quello d'oro
fu posto a destra di chi entra nel tempio e quello d'argento a
sinistra, ma anch'essi vennero dislocati altrove all'epoca
dell'incendio del santuario. Ora quello d'oro si trova nel tesoro dei
Clazomeni e ha un peso di otto talenti e mezzo e dodici mine, quello
d'argento in un angolo del pronao e ha una capacità di 600 anfore:
ancora lo usano a Delfi durante le feste delle Teofanie. I Delfi
dicono che è opera di Teodoro di Samo, un parere che condivido, perché
non è certamente un oggetto fabbricabile da chiunque. Spedì anche
quattro orci d'argento, ora nel tesoro dei Corinzi, e offrì due vasi
per l'acqua lustrale, uno d'oro e uno d'argento; su quello d'oro c'è
una iscrizione che ne attribuisce l'offerta agli Spartani, ma è un
falso: l'oggetto è proprio di Creso e la scritta è dovuta a uno di
Delfi che voleva ingraziarsi gli Spartani: io ne conosco il nome, ma
non lo menzionerò. Dono degli Spartani è il fanciullo dalla cui mano
scorre l'acqua, ma certamente non lo sono i due vasi lustrali. Assieme
a questi Creso consacrò altri oggetti senza contrassegni e due catini
rotondi d'argento e, ancora, una statua d'oro alta tre cubiti, che
rappresenta una donna, anzi più precisamente la fornaia di Creso,
secondo quanto si dice a Delfi. E inoltre Creso offrì le collane e le
cinture della moglie. 52)
Questo
è quanto inviò a Delfi. Invece ad Anfiarao, di cui aveva appreso il
valore e la sorte sventurata, consacrò uno scudo interamente d'oro e
una solida lancia, essa pure d'oro massiccio tanto nell'asta come
nelle punte. All'epoca della mia visita entrambi gli oggetti si
trovavano ancora a Tebe, e esattamente nel tempio di Apollo Ismenio. 53)
Ai
Lidi incaricati di portare i doni ai santuari Creso ordinò di
chiedere agli oracoli se convenisse muovere guerra ai Persiani e se
fosse il caso di aggregarsi qualche esercito amico. I Lidi, giunti a
destinazione, consacrarono le offerte e interrogarono gli oracoli:
"Creso, re dei Lidi e di altre popolazioni, convinto che questi
sono gli unici veri oracoli al mondo, vi destina questi doni degni dei
vostri vaticini, e vi chiede se gli conviene muovere guerra contro i
Persiani e se è il caso di aggregarsi qualche esercito alleato".
Alle loro domande entrambi gli oracoli diedero identica risposta,
preannunciando a Creso che, se avesse mosso guerra ai Persiani,
avrebbe rovesciato un grande regno; e gli consigliarono di trovare
quali fossero i Greci più potenti e di assicurarsene l'amicizia. 54)Venuto
a conoscenza dei responsi, Creso se ne compiacque molto: tutto preso
dalla speranza di abbattere il regno di Ciro, inviò a Pito una
ulteriore delegazione: si informò quanti fossero i Delfi di numero e
a ciascuno di loro donò due stateri d'oro. In cambio i Delfi
concedettero a Creso e ai Lidi il diritto di precedenza nella
consultazione dell'oracolo, l'esenzione dai tributi, il diritto di
seggio privilegiato negli spettacoli e la possibilità, per sempre, a
ogni Lido che lo desiderasse di diventare cittadino di Delfi. 55)
Dopo
quei doni Creso si rivolse al santuario per la terza volta: da quando
ne aveva riconosciuto la veridicità abusava dell'oracolo. Questa
volta chiese se il suo regno sarebbe durato a lungo e la Pizia gli
diede il seguente responso: ….”Quando dei Medi re un mulo
divenga, tu allor lungo l’Ermo, Ricco di ciottoli, fuggi, re Lidio
dai piè delicati; non rimaner, per vergogna di agire da vile
fuggendo”….(Quando un mulo sarà divenuto re dei Medi, allora,
o Lidio dal piede delicato, lungo l'Ermo ghiaioso fuggi e non
fermarti, e non avere vergogna di essere vile). 56)Quando
gli giunsero tali parole Creso ne gioì molto più che di tutte le
precedenti: non si aspettava certo che un mulo venisse mai a regnare
sui Medi al posto di un uomo e quindi né la sua, né la sovranità
dei suoi discendenti avrebbero avuto mai fine. Poi si preoccupò di
scoprire quali erano i Greci da farsi amici in quanto più potenti, e
a forza di indagini risultò che Spartani e Ateniesi prevalevano
nettamente all'interno dei loro gruppi etnici, rispettivamente il
dorico e lo ionico. Erano in effetti i due popoli preminenti: l'uno di
antica origine pelasgica, l'altro di origine ellenica; gli Ateniesi
non si erano mai mossi dai territori che occupavano, gli altri avevano
compiuto numerosi spostamenti: al tempo del re Deucalione abitavano la
Ftiotide, al tempo di Doro figlio di Elleno la regione detta Estiotide
alle falde dell'Ossa e dell'Olimpo; cacciati dalla Estiotide ad opera
dei Cadmei si erano stanziati a Pindo con il nome di Macedni. Da lì
ancora si trasferirono nella Driopide e infine dalla Driopide
passarono nel Peloponneso, dove assunsero il nome di Dori. 57)
Quale
lingua parlassero i Pelasgi non sono in grado di dirlo con esattezza:
se è indispensabile fornire qualche indicazione, basandosi sulle
popolazioni pelasgiche superstiti, sia quelle insediate oggi nella
città di Crestona a nord dei Tirreni e già limitrofe degli attuali
Dori nella regione adesso chiamata Tessagliotide, sia quelle che
nell'Ellesponto avevano colonizzato Placia e Scilace e avevano
condiviso il territorio con gli Ateniesi, o sulle città un tempo
pelasgiche ma che poi avevano mutato nome, ebbene, deducendo su queste
basi, bisogna concludere che i Pelasgi parlavano una lingua barbara.
Se dunque i Pelasgi erano di lingua barbara, allora gli Attici,
Pelasgi di stirpe, una volta divenuti Greci dovettero anche cambiare
il modo di esprimersi. Infatti, bisogna aggiungere che gli abitanti di
Crestona e di Placia parlano due idiomi assolutamente diversi dagli
idiomi dei popoli circostanti, ma molto simili fra loro, dimostrando
così di avere conservato l'originaria impronta linguistica anche dopo
esser immigrati nei rispettivi nuovi territori. 58)
A
me risulta che il gruppo degli Elleni fin dalla sua origine abbia
sempre parlato la stessa lingua: staccatisi dai Pelasgi, erano deboli
e poco numerosi, ma poi, estendendo il proprio dominio, crebbero fino
all'attuale moltitudine di popolazioni, grazie ai continui apporti di
Pelasgi, soprattutto, e di altre etnie barbare. Al confronto mi pare
senz'altro che nessun popolo pelasgico, restando barbaro, abbia mai
compiuto progressi considerevoli. 59)
Di
quelle due genti Creso venne a sapere che una, la attica, era retta e
tenuta divisa dal figlio di Ippocrate, Pisistrato, allora tiranno di
Atene. A Ippocrate era capitato un evento assolutamente prodigioso: si
trovava ad Olimpia, come privato cittadino, per assistere ai Giochi e
aveva appena terminato un sacrificio quando i lebeti, che erano lì
pronti, pieni di acqua e di carni, presero improvvisamente a bollire
senza fuoco e a traboccare. Lì accanto per caso c'era Chilone di
Sparta; egli, osservato il prodigio, rivolse a Ippocrate i seguenti
consigli: per prima cosa non sposare una donna in grado di procreare,
se invece aveva già moglie ripudiarla e rinnegare il proprio figlio
se era già venuto al mondo. Ma non pare proprio che Ippocrate abbia
voluto seguire le indicazioni di Chilone: e così più tardi nacque
Pisistrato. Gli Ateniesi della costa e gli Ateniesi dell'interno, i
primi capitanati da Megacle figlio di Alcmeone, i secondi da Licurgo
figlio di Aristolaide, erano in conflitto fra di loro: Pisistrato
mirando al potere assoluto diede vita a una terza fazione: riunì un
certo numero di sediziosi, si autodichiarò fittiziamente capo degli
Ateniesi delle montagne ed escogitò il seguente stratagemma. Ferì se
stesso e le proprie mule e poi spinse il carro nella piazza centrale
fingendo di essere sfuggito a un agguato di nemici che, a sentire lui,
avrebbero avuto la chiara intenzione di ucciderlo mentre si recava in
un suo campo; chiese pertanto che il popolo gli assegnasse un corpo di
guardia, anche in considerazione dei suoi meriti precedenti, quando,
stratega all'epoca della guerra contro i Megaresi, aveva conquistato
il porto di Nisea e realizzato altre grandi imprese. Il popolo
ateniese si lasciò ingannare e gli concedette di scegliere fra i
cittadini un certo numero di uomini, i quali diventarono i lancieri
privati di Pisistrato, o meglio i suoi "mazzieri", visto che
lo scortavano armati di mazze di legno. Questo corpo di guardia
contribuì al colpo di stato di Pisistrato occupando l'acropoli. Da
allora Pisistrato governò su Atene senza riformare le cariche dello
stato esistenti e senza modificare le leggi: resse la città
amministrandola con oculatezza sulla base degli ordinamenti già in
vigore. 60)
Non
molto tempo dopo i partigiani di Megacle e quelli di Licurgo si misero
d'accordo e lo cacciarono dalla città. Così andarono le cose la
prima volta che Pisistrato ebbe in mano sua Atene: perse il potere
prima che si radicasse saldamente. Ma tra coloro che lo avevano
scacciato rinacquero i contrasti e Megacle, messo in difficoltà dai
tumulti, finì col mandare un messaggero a Pisistrato offrendogli il
potere assoluto a patto che sposasse sua figlia. Pisistrato accettò
la proposta e fu d'accordo sulle condizioni; per il suo rientro in
Atene ricorsero a un espediente che io trovo assolutamente ridicolo,
visto che i Greci fin dall'antichità sono sempre stati ritenuti più
accorti dei barbari e meno inclini alla stoltezza e alla dabbenaggine,
e tanto più se in quella circostanza attuarono effettivamente un
simile disegno in barba agli Ateniesi, che fra i Greci passano per
essere i più intelligenti. Nel demo di Peania viveva una donna, di
nome Fia, alta quattro cubiti meno tre dita e per il resto piuttosto
bella. Vestirono questa donna di una armatura completa, la fecero
salire su di un carro, le insegnarono come atteggiarsi per ottenere il
più nobile effetto e la guidarono in città facendosi precedere da
alcuni araldi, i quali, giunti in Atene, secondo le istruzioni
ricevute andavano ripetendo il seguente proclama: "Ateniesi,
accogliete di buon grado Pisistrato: Atena in persona, onorandolo
sopra tutti gli uomini, lo riconduce sulla acropoli a lei
dedicata". Facevano questo annuncio percorrendo la città e ben
presto la voce si sparse fino ai demi: "Atena riconduce
Pisistrato"; e in città, credendo che Fia fosse la dea in
persona, a lei, che era una semplice donna, si rivolsero con
devozione; e accolsero Pisistrato. 61)
Riavuto
il potere nel modo ora esposto, Pisistrato rispettò l'accordo preso
con Megacle e ne sposò la figlia; ma poiché aveva già dei figli
adulti e correva fama che sugli Alcmeonidi pesasse la maledizione
divina, non volendo avere prole dalla nuova moglie, non si univa con
lei come vuole natura. La donna, lì per lì, tenne nascosta la cosa,
ma poi, che glielo avessero chiesto o meno, ne parlò alla madre; e
questa lo riferì al marito. Il fatto fu considerato un terribile
affronto da parte di Pisistrato: in preda all'ira com'era, Megacle si
riconciliò con quelli della sua fazione. Pisistrato, informato di
quanto si stava concretizzando ai suoi danni, non esitò ad
allontanarsi dal paese: si rifugiò a Eretria e lì studiò la
situazione insieme coi figli. Prevalse il parere di Ippia, di tentare
la riconquista del potere, e allora cominciarono a sollecitare doni
dalle città che in qualche modo erano obbligate nei loro confronti. E
fra le tante città che fornirono ingenti somme di denaro i Tebani
superarono tutti con il loro contributo. Insomma, per farla breve,
venne il momento in cui tutto era pronto per il rientro in Atene: dal
Peloponneso erano arrivati dei mercenari argivi, e un uomo di Nasso,
di nome Ligdami, giunse di sua iniziativa, ben fornito di uomini e
mezzi, e offrì i suoi servigi. 62)
Muovendo
da Eretria fecero ritorno in Attica, a distanza di oltre dieci anni
dalla loro fuga. In Attica il primo luogo che occuparono fu Maratona;
mentre stavano lì accampati si unirono a loro dei ribelli provenienti
dalla città, e altri ne affluivano dai demi: tutta gente che
abbracciava la tirannide preferendola alla libertà. Costoro quindi si
andavano radunando: gli Ateniesi rimasti in città, finché Pisistrato
raccoglieva finanziamenti e poi per tutto il tempo che si trattenne a
Maratona, non si preoccuparono minimamente; ma quando seppero che
stava marciando da Maratona su Atene allora finalmente scesero in
campo contro di lui. Mentre l'esercito cittadino marciava incontro
agli assalitori, Pisistrato e i suoi si erano mossi da Maratona e
avanzavano verso la città; convergendo finirono perciò per
incontrarsi nel demo di Pallene, all'altezza del tempio di Atena
Pallenide, e lì i due eserciti si schierarono uno di fronte
all'altro. In quel momento, spinto da ispirazione divina, si presentò
a Pisistrato l'indovino Anfilito di Acarnania, gli si avvicinò e
pronunciò la seguente profezia in esametri:…”Ecco, la rete è
gettata, distesa è la rete nel mare. Vi si precipiteranno ora i tonni
al chiaror della luna”… (La rete è stata lanciata, le sue
maglie si sono distese, i tonni vi irromperanno dentro in una notte di
luna). 63) Così
vaticinava sotto l'ispirazione del dio e Pisistrato comprendendo la
profezia dichiarò di accoglierla e guidò in campo l'esercito. Nel
frattempo gli Ateniesi della città avevano pensato bene di mangiare
e, dopo, si erano messi chi a giocare a dadi, chi a dormire.
Pisistrato e i suoi piombarono su di loro e li volsero in fuga. Mentre
essi fuggivano Pisistrato trovò la maniera più saggia per impedire
che gli Ateniesi si raccogliessero ancora, e anzi per tenerli
dispersi. Fece montare a cavallo i suoi figli e li mandò avanti:
essi, raggiungendo i fuggitivi, parlavano loro secondo le disposizioni
di Pisistrato, esortandoli uno per uno a non avere paura e a tornare
ciascuno alle proprie occupazioni. 64)Gli
Ateniesi si lasciarono persuadere e così Pisistrato per la terza
volta fu padrone di Atene; questa volta rese più saldo il proprio
potere grazie alle molte guardie e agli ingenti contributi in denaro,
che gli provenivano tanto dall'Attica come dal fiume Strimone. Inoltre
prese in ostaggio i figli degli Ateniesi che erano rimasti a
combattere senza darsi subito alla fuga e li tenne sequestrati a Nasso
(perché Pisistrato aveva sottomesso anche Nasso e l'aveva affidata a
Ligdami). Poi obbedendo agli oracoli purificò l'isola di Delo, in
questo modo: fece disseppellire e trasportare in un'altra parte
dell'isola tutti i resti umani che si trovavano in zone visibili dal
santuario. E così Pisistrato fu signore di Atene; ma vari Ateniesi
erano caduti nella battaglia e altri avevano seguito gli Alcmeonidi in
esilio lontano dalla loro patria. 65)
Questa
era la situazione in Atene all'epoca in cui Creso raccoglieva le sue
informazioni; dal canto loro gli Spartani erano appena usciti da un
periodo di grosse difficoltà e stavano ormai prevalendo nella guerra
contro Tegea. Effettivamente nel periodo in cui a Sparta regnarono
Leonte ed Egesicle, gli Spartani, che avevano risolto a proprio favore
gli altri conflitti, non riuscivano a superare l'ostacolo di Tegea. In
epoca ancora precedente a questi avvenimenti erano, si può dire, i più
arretrati in tutta la Grecia in fatto di legislazione interna ed erano
isolati dal punto di vista internazionale. Il progresso verso un buon
ordinamento legislativo avvenne nel modo che ora vi narro. Una volta
all'oracolo di Delfi si recò Licurgo, uno degli Spartiati più in
vista; non appena fu entrato nel sacrario la Pizia così parlò:…Giungi
al mio tempio opulento, Licurgo, da Zeus bene amato, Come da tutti i
celesti Dei ch’hanno magione in Olimpo. Come dovrò proclamarti- se
umana o divina natura- Esito: ma ti ritengo piuttosto divino,
Licurgo”… (Licurgo, tu vieni al mio tempio opulento tu, caro a
Zeus e a quanti abitano le dimore dell'Olimpo. Sono in dubbio se
dichiararti dio o essere umano ma penso piuttosto che tu sei un dio,
Licurgo). Alcuni aggiungono che la Pizia gli suggerì anche l'attuale
costituzione degli Spartiati, ma a quanto raccontano gli Spartani
stessi, Licurgo la introdusse derivandola da quella di Creta al tempo
in cui lui era tutore di suo nipote, il re di Sparta Leobote. Non
appena assunse la tutela provvide a riformare tutte le leggi e vigilò
che non si verificassero violazioni. In seguito Licurgo fissò gli
ordinamenti militari: corpi speciali dell'esercito, unità di trenta
uomini, mense comuni, e istituì, inoltre, le cariche di eforo e di
geronte. 66)
Con
simili riforme gli Spartani ottennero una buona legislazione; e alla
morte di Licurgo gli dedicarono un santuario che è tuttora molto
venerato. Poiché risiedono in un buon territorio e costituiscono una
massa non indifferente di uomini, ebbero un rapido sviluppo e
raggiunsero un notevole grado di prosperità. Al punto che non si
accontentarono più di vivere in pace, ma, presumendo di essere più
forti degli Arcadi, consultarono l'oracolo di Delfi sull'Arcadia
intera: e la Pizia diede loro il seguente responso:…” Tu mi
domandi l’Arcadia: gran cosa: non te la concedo. Molti mortali ci
sono in Arcadia, che mangiano ghiande, E ti terranno lontano. Ma io
non t’invidio conquista. Voglio a te dare Tegea percossa dai pie’,
per la danza; e la sua bella pianura tu misurerai con la fune.”….
(Mi chiedi l'Arcadia? Chiedi molto: non te la concederò. In Arcadia
ci sono molti uomini che si nutrono di ghiande i quali vi
respingeranno; ma non voglio opporti solo un rifiuto: ti concederò
Tegea, battuta dai piedi, per ballare, e la sua bella pianura, da
misurare con la fune). Appresa la risposta gli Spartani si tennero
lontani da tutti gli altri Arcadi, ma intrapresero una spedizione
militare contro Tegea; e avevano tanta fiducia nell'ambiguo responso
che portarono con sé anche le catene, per essere pronti a rendere
schiavi i Tegeati. Ma quando furono sconfitti nella battaglia, quanti
di loro rimasero prigionieri furono costretti a lavorare la terra
della pianura di Tegea dopo aver misurato con la fune la parte
spettante a ciascuno e incatenati con gli stessi ceppi che si erano
portati dietro. Questi ceppi, gli stessi che servirono a incatenarli,
li ho visti io, ancora intatti, a Tegea, appesi tutto intorno al
tempio di Atena Alea. 67)
Durante
questo primo conflitto gli Spartani continuarono ad avere la peggio
negli scontri contro i Tegeati, ma al tempo di Creso e del regno
spartano di Anassandride e di Aristone, gli Spartiati ormai avevano
acquistato una sicura superiorità bellica, ed ecco come. Visto che in
guerra risultavano sempre inferiori ai Tegeati, inviarono a Delfi una
delegazione a chiedere quale dio dovessero propiziarsi per prevalere
nella guerra contro Tegea. La Pizia rispose che ci sarebbero riusciti
quando avessero traslato nella loro città le ossa di Oreste figlio di
Agamennone. Ma poiché non erano capaci di scoprire il luogo in cui
Oreste era stato seppellito, mandarono di nuovo a chiedere al dio dove
esattamente giacesse Oreste. E agli inviati la Pizia diede la seguente
risposta: …”V’è nell’Arcadia Tegea, cittade ch’è sita
in pianura; Ivi due venti pur soffiano: necessità li costringe. Ivi a
percossa percossa risponde, e sul male è un malanno. L’Agamennonide
qui la frugifera terra rinchiude. Questi portandoti in patria sarai di
Tegea il patrono.”…(In Arcadia c'è una città, Tegea, in una
aperta regione: dove soffiano due venti sotto dura costrizione, dove
c'è colpo e ciò che respinge il colpo, dove male giace su male, lì
la terra, generatrice di vita, racchiude il figlio di Agamennone.
Quando lo avrai con te sarai signore di Tegea). Anche dopo aver
ricevuto questa risposta, gli Spartani non riuscivano affatto a
scoprire il luogo in questione, pur cercandolo dovunque; finché lo
trovò un certo Lica, uno degli Spartiati che possono onorarsi del
titolo di Agatoergi. Gli Agatoergi sono quei cinque cittadini di anno
in anno più anziani fra coloro che si congedano dalla cavalleria:
essi per tutto l'anno in cui escono dalle file dei cavalieri hanno
l'obbligo di non rimanere inattivi e di accettare missioni all'estero
per conto dello stato. 68)Ricopriva
dunque questo incarico Lica quando, grazie ad un colpo di fortuna e
alla sua intelligenza, trovò a Tegea la tomba di Oreste. Esistevano
allora libere relazioni fra Sparta e Tegea; Lica, entrato in una
fucina, se ne stava ad osservare ammirato la lavorazione del ferro. Il
fabbro si accorse del suo stupore e interrompendo il proprio lavoro
gli disse: "Ospite spartano, sono sicuro che rimarresti a bocca
aperta se vedessi quello che ho visto io, dal momento che guardi con
tanta meraviglia battere il ferro. Devi sapere che io volevo costruire
un pozzo nel mio cortile e scavando ho urtato in una bara lunga sette
cubiti. Non potendo credere che fossero mai esistiti uomini più alti
degli attuali, la scoperchiai e vidi un cadavere lungo quanto la bara.
Lo misurai e lo seppellii di nuovo". Il fabbro gli raccontava
quanto aveva visto e Lica riflettendoci ne arguì che quel morto fosse
Oreste; lo deduceva dal testo dell'oracolo, interpretato così: nei
due mantici del fabbro, che aveva sott'occhio, riconobbe i venti, nel
martello e nell'incudine il colpo e ciò che respinge il colpo, nel
ferro battuto il male che giace sul male, interpretando in base al
principio che il ferro sia stato scoperto per il male dell'uomo.
Avendo compreso l'enigma, fece ritorno a Sparta e riferì ai suoi
concittadini come stavano le cose. Essi lo accusarono di propagazione
di notizie false e lo bandirono dalla città. Lica tornò a Tegea e
narrando al fabbro quanto gli era accaduto cercò, ma senza successo,
di prendere in affitto da lui quel cortile. Col tempo riuscì a
convincerlo e vi si poté installare; allora disseppellì la bara,
raccolse le ossa di Oreste e con esse rientrò a Sparta. E da quel
momento, ogni volta che avevano luogo degli scontri con i Tegeati, gli
Spartani avevano sempre la meglio. E ormai essi avevano sottomesso
anche la maggior parte del Peloponneso. 69)
Creso,
venuto a conoscenza di tutti questi fatti, inviò a Sparta dei
messaggeri, latori di doni e di una richiesta di alleanza e bene
istruiti sulle parole da riferire. Quando arrivarono a Sparta essi
dichiararono: "È stato Creso, re dei Lidi e di altre
popolazioni, a mandarci qui, affidandoci questo messaggio:
"Spartani, il dio mi ha ordinato per bocca di un oracolo di
rendermi amico il popolo greco, e io so che voi siete i primi della
Grecia: pertanto obbedendo alla parola del dio a voi rivolgo il mio
appello, desideroso di diventare vostro amico e alleato, senza
inganni, senza secondi fini". E fu quanto i messaggeri di Creso
riferirono da parte del loro re; gli Spartani, a cui era noto il
responso in questione, furono molto lieti della venuta dei Lidi e
strinsero vincoli giurati di amicizia e di alleanza militare. Del
resto erano legati da alcuni benefici ricevuti da Creso in tempi
precedenti: a Sardi gli Spartani avevano mandato a comprare dell'oro,
di cui intendevano servirsi per la fabbricazione della statua di
Apollo che ora si trova sul Tornace, in Laconia, e Creso, benché
fossero disposti a pagarlo, gliene aveva offerto in dono. 70) Per
questi motivi gli Spartani accettarono il patto di alleanza e anche
perché li aveva scelti come alleati anteponendoli a tutti gli altri
Greci. E oltre a dichiararsi disponibili a ogni appello fecero
fabbricare un cratere di bronzo, decorato con figure lungo il bordo
esterno e tanto grande da avere una capacità di 300 anfore: lo
donarono a Creso intendendo così contraccambiarlo. Questo cratere non
arrivò mai a Sardi, fatto di cui si danno due diverse spiegazioni:
gli Spartani sostengono che quando il cratere durante il viaggio verso
Sardi venne a trovarsi all'altezza dell'isola di Samo, gli abitanti di
Samo, informati, li assalirono con lunghe navi da battaglia e se ne
impadronirono; invece i Sami raccontano che gli Spartani incaricati
del trasporto avevano ritardato, sicché poi, quando giunse la notizia
della caduta di Sardi e della cattura di Creso, decisero di cedere
l'oggetto in Samo: lo acquistarono dei privati cittadini per offrirlo
al tempio di Era; poi, forse, gli stessi che lo avevano venduto, una
volta tornati a Sparta, raccontarono di essere stati depredati dai
Sami. Così andarono le cose a proposito del cratere. 71)Dal canto suo Creso, fraintendendo il senso dell'oracolo, organizzava una invasione della Cappadocia, convinto di abbattere Ciro e la potenza persiana. Mentre Creso si preparava a marciare contro i Persiani, un lido di nome Sandani che già in occasioni precedenti aveva dimostrato di essere un saggio, ma che dopo il parere espresso in questa circostanza si guadagnò la massima reputazione in Lidia, diede a Creso il seguente consiglio: "Mio re, - gli disse - tu stai facendo preparativi per combattere contro uomini che portano brache di cuoio e di cuoio anche il resto dei loro vestiti, che si cibano non di ciò che vogliono ma di ciò che hanno, perché la loro terra è avara; inoltre non toccano vino, ma bevono solo acqua, non hanno fichi da mangiare e nient'altro di buono. Insomma se li batti cosa potrai ricavare da loro, visto che non possiedono nulla? Se invece rimani sconfitto, pensa a quanti beni perdi! Se faranno tanto di gustare le nostre risorse, se le terranno strette e noi non potremo mai più liberarci dei Persiani. Per me io ringrazio gli dèi che non mettono in mente ai Persiani di muovere guerra ai Lidi". Pur con questi argomenti non riusciva a persuadere Creso. In effetti i Persiani prima di sottomettere la Lidia non possedevano nulla di delicato e di buono. 72) Gli
abitanti della Cappadocia dai Greci sono chiamati Siri. Questi Siri
prima del dominio persiano erano stati sudditi dei Medi; allora lo
erano di Ciro. Il confine tra il regno dei Medi e quello dei Lidi
correva lungo il fiume Alis, il quale scende dal monte Armeno
attraverso la Cilicia e poi, proseguendo nel suo corso, ha sulla riva
destra i Matieni e sulla sinistra i Frigi; più avanti risale verso
nord e separa i Siri della Cappadocia, sulla destra, dai Paflagoni,
sulla sinistra. In tal modo il fiume Alis delimita quasi tutta l'Asia
inferiore, a partire dal mare che fronteggia l'isola di Cipro fino al
Ponto Eusino; questa zona è un po' come una strozzatura dell'intero
continente: un corriere equipaggiato alla leggera impiega cinque
giorni a percorrerla. 73)
Creso
decise di aggredire la Cappadocia per varie ragioni, un po' per
desiderio di nuove terre da annettere ai propri possedimenti, ma
soprattutto perché aveva fiducia nell'oracolo e voleva vendicare
Astiage contro Ciro. Bisogna sapere che Ciro figlio di Cambise aveva
rovesciato dal trono e teneva imprigionato Astiage, figlio di Ciassare
e cognato di Creso nonché re dei Medi; cognato di Creso lo era
divenuto come sto per raccontare. In seguito a una sedizione una tribù
di nomadi Sciti era penetrata nel territorio dei Medi; a quell'epoca
re dei Medi era il nipote di Deioce e figlio di Fraorte Ciassare il
quale in un primo momento aveva trattato con riguardo questi Sciti,
considerandoli supplici; li teneva in tanta considerazione che affidò
loro alcuni giovani perché ne imparassero la lingua e la tecnica di
tiro con l'arco. Passò del tempo; gli Sciti andavano regolarmente a
caccia, e ne tornavano regolarmente con qualche preda, ma una volta
accadde che non riuscirono a prendere nulla; vedendoli tornare a mani
vuote Ciassare, che era, e lo dimostrò, eccessivamente collerico, si
rivolse loro piuttosto duramente, finendo per offenderli. Vistisi
oltraggiati in quel modo da Ciassare e convinti di non esserselo
meritato, gli Sciti decisero di tagliare a pezzi uno dei giovani
affidati alle loro cure, di cucinarne le carni come di solito
preparavano la selvaggina e di servirle a Ciassare come se fosse
cacciagione; dopo di che sarebbero riparati in tutta fretta a Sardi
presso il re Aliatte figlio di Sadiatte. E così avvenne: Ciassare e i
suoi compagni di tavola mangiarono quelle carni e gli Sciti, autori
del misfatto, si fecero supplici di Aliatte. 74)
Dopo
qualche tempo, dato che Aliatte si rifiutava di soddisfare le
richieste di Ciassare di consegnare gli Sciti, fra Lidi e Medi scoppiò
una guerra, lunga cinque anni, nei quali varie volte i Medi
sconfissero i Lidi e varie volte i Lidi sconfissero i Medi; in quella
guerra ebbe luogo anche una battaglia notturna. Mantennero un
sostanziale equilibrio fino alla fine del conflitto, al sesto anno di
lotta, quando, durante una battaglia, nell'infuriare degli scontri,
improvvisamente il giorno si fece notte. Questa trasformazione del
giorno era stata preannunciata agli Ioni da Talete di Mileto, che
aveva previsto come scadenza proprio l'anno in cui il fenomeno si
verificò. Lidi e Medi, quando videro le tenebre sostituirsi alla
luce, smisero di combattere e si affrettarono entrambi a stipulare un
trattato di pace. I mediatori dell'accordo furono Siennesi di Cilicia
e Labineto di Babilonia. Costoro sollecitarono anche un giuramento
solenne e combinarono un matrimonio incrociato: stabilirono che
Aliatte concedesse sua figlia Arieni al figlio di Ciassare Astiage,
perché se non ci sono solidi legami di parentela i trattati, di
solito, non durano. Presso questi popoli il rituale del giuramento è
identico a quello greco: in più si praticano una incisione sulla
pelle del braccio e si succhiano a vicenda un po' di sangue. 75)
Ciro,
per una ragione che esporrò più avanti, aveva spodestato e teneva
prigioniero Astiage, che era suo nonno materno: è quanto Creso gli
rimproverava allorché mandò a interrogare l'oracolo sulla possibilità
di attaccare la Persia; ottenuto l'ambiguo responso, si illuse di
avere l'oracolo dalla propria parte e si mosse contro il territorio
persiano. Quando giunse sulla riva del fiume Alis, io credo che fece
passare dall'altra parte le sue truppe servendosi dei ponti allora
esistenti; ma una versione dei fatti molto diffusa fra i Greci vuole
attribuire il merito dell'attraversamento a Talete di Mileto. Si dice
infatti che Talete si trovasse lì nell'esercito nel momento in cui
Creso era in grave difficoltà non sapendo come traghettare i suoi
soldati (perché a quell'epoca non sarebbero esistiti ponti sull'Alis);
allora pare che Talete sia riuscito a far scorrere anche sul lato
destro dell'esercito quel fiume che prima avevano solo sulla sinistra,
e ci riuscì nella maniera seguente. Ordinò di scavare un
profondissimo canale semicircolare che iniziava a monte
dell'accampamento; lo scopo era quello di incanalare le acque e di
farle scorrere alle spalle dell'esercito accampato, per poi farle
rifluire nel vecchio letto una volta superato l'accampamento; così il
fiume fu diviso in due rami che divennero immediatamente guadabili. C'è
persino chi sostiene che l'antico letto fu del tutto prosciugato,
un'ipotesi per me del tutto inaccettabile: come avrebbero potuto in
tal caso attraversare il canale al ritorno? 76)
Creso
dunque attraversò il fiume con le sue truppe e si spinse in quella
parte della Cappadocia che viene chiamata Pteria; la Pteria è la
regione che si estende grosso modo a sud della città di Sinope sul
Ponto Eusino ed è la zona più fortificata del paese; qui si accampò
cominciando a devastare i possedimenti dei Siri. Espugnò la città di
Pteria e ne ridusse in schiavitù gli abitanti, occupò tutte le
località circostanti e si accanì a saccheggiare quella regione, che
non aveva nessuna colpa verso di lui. Ciro si diresse contro Creso
dopo aver radunato l'esercito e prese con sé tutte le popolazioni che
lo separavano dall'invasore. Prima di muovere le sue truppe aveva
inviato araldi alle città della Ionia nel tentativo di sollevarle
contro Creso; ma gli Ioni non si erano lasciati convincere. Ciro
raggiunse Creso e pose il proprio accampamento di fronte al suo: qui,
nella regione di Pteria misurarono le rispettive forze. Ci fu una
terribile battaglia, con numerosi caduti da entrambe le parti, che si
interruppe al sopraggiungere della notte senza che uno dei due
eserciti fosse riuscito a prevalere. 77)
Tanto
fu l'impegno profuso da tutti i combattenti. Creso, insoddisfatto
della consistenza numerica del proprio esercito (le truppe che avevano
combattuto erano assai inferiori a quelle di Ciro), a causa di tale
sua insoddisfazione e visto che il giorno dopo Ciro non arrischiava un
altro assalto, tornò precipitosamente a Sardi con l'intenzione di
chiamare in suo aiuto gli Egiziani (aveva stretto una alleanza pure
con il re egiziano Amasi ancora prima che con gli Spartani); di far
accorrere anche i Babilonesi (anche con loro aveva stipulato un
trattato di alleanza militare; a quell'epoca il re di Babilonia era
Labineto); di notificare agli Spartani la scadenza entro la quale
presentarsi; contava di riunire gli alleati e radunare il proprio
esercito, di lasciar passare l'inverno e di marciare contro i Persiani
all'inizio della primavera. Con questo piano in mente, appena giunse a
Sardi inviò araldi ai diversi alleati per avvisarli che il raduno era
fissato a Sardi di lì a quattro mesi. L'esercito di cui già
disponeva e che si era battuto contro i Persiani, ed era composto di
mercenari, lo congedò tutto e lasciò che si sciogliesse: non avrebbe
mai immaginato che Ciro, dopo aver sostenuto una battaglia dall'esito
così equilibrato, si sarebbe spinto fino a Sardi. 78)
Mentre
Ciro meditava questo suo piano, i sobborghi di Sardi furono invasi dai
serpenti; e, al loro apparire, i cavalli, abbandonati i pascoli
consueti, accorsero a divorarli. Creso vedendo ciò pensò che si
trattasse, come in effetti era, di un presagio; subito inviò degli
incaricati ai Telmessi, i famosi indovini. Gli inviati di Creso
giunsero a destinazione e appresero il significato del prodigio ma non
riuscirono a informarne il re: prima che potessero imbarcarsi per
ritornare a Sardi, Creso era stato fatto prigioniero. I Telmessi
avevano sentenziato che Creso doveva attendersi l'invasione del
proprio paese da parte di un esercito straniero il quale avrebbe
assoggettato la popolazione locale: spiegavano che il serpente era il
figlio della terra e che il cavallo rappresentava il nemico straniero.
I Telmessi diedero questa risposta quando Creso era già stato
catturato ma quando ancora non potevano essere al corrente di ciò che
era accaduto a lui personalmente e alla città di Sardi. 79)
Non
appena Creso si fu messo sulla via del ritorno, dopo la battaglia
svoltasi nella Pteria, Ciro intuì che Creso, dopo essersi ritirato,
avrebbe sciolto l'esercito; riflettendo trovò che la cosa
fondamentale a quel punto era avanzare su Sardi con la massima celerità
possibile, prima che le forze dei Lidi si radunassero una seconda
volta. Prese questa decisione e agì con rapidità: spinse le sue
truppe in Lidia e in pratica fu lui stesso ad annunciare a Creso il
proprio arrivo. Allora Creso, benché messo in grave difficoltà dal
corso degli eventi, così diversi da come se li era prospettati,
tuttavia guidò i suoi Lidi alla battaglia. A quell'epoca non esisteva
in Asia un popolo più valoroso e più forte dei Lidi: combattevano da
cavallo, armati di lunghe lance ed erano tutti eccellenti cavalieri. 80)
Si
fronteggiarono nella pianura antistante la città di Sardi, una
pianura ampia e sgombra: attraverso di essa scorrono l'Illo e altri
torrenti immettendosi nel fiume principale, l'Ermo, che nasce da un
monte sacro alla Gran Madre di Dindimo e sfocia poi in mare presso la
città di Focea. Ciro, quando vide i Lidi schierati per la battaglia,
ebbe paura della loro cavalleria e dietro suggerimento del Medo Arpago
operò come segue: radunò tutti i cammelli al seguito del suo
esercito per il trasporto di vettovagliamenti e salmerie, li sbarazzò
del carico e li fece montare da soldati equipaggiati da cavalieri; al
termine di tali preparativi, ordinò a questi soldati di marciare in
testa all'esercito contro la cavalleria di Creso; ordinò poi alla
fanteria di avanzare dietro ai cammelli e infine alle spalle dei fanti
schierò l'intera sua cavalleria. Quando tutti furono al loro posto,
diede l'ordine di massacrare senza pietà ogni Lidio che trovassero
sulla loro strada, ma di non uccidere Creso, anche se avesse tentato
di resistere alla cattura. Queste furono le sue disposizioni: i
cammelli li schierò di fronte alla cavalleria nemica perché i
cavalli hanno un grande terrore dei cammelli, non riescono a
sopportarne la vista e neppure a sentirne l'odore. Appunto per ciò
aveva escogitato questo astuto espediente, per impedire a Creso di
utilizzare la cavalleria, con la quale invece il re lidio contava di
coprirsi di gloria. In effetti quando avvenne lo scontro, non appena
ebbero fiutato e visto i cammelli, i cavalli retrocedettero, e Creso
vide andare in fumo così tutte le sue speranze. I Lidi tuttavia non
si persero di coraggio per questo, anzi, come si resero conto di ciò
che stava accadendo, balzarono di sella e si gettarono come fanti
contro i Persiani. Alla fine, dopo molte perdite da entrambe le parti,
i Lidi presero la fuga: si asserragliarono dentro le mura della città,
dove furono assediati dai Persiani. 81)
I
Persiani dunque posero il loro assedio; e Creso, credendo che tale
situazione si sarebbe protratta a lungo, cominciò a fare uscire dei
messaggeri dalla cinta delle mura inviandoli ai propri alleati. I
messaggeri precedenti portavano la richiesta di concentrare gli aiuti
a Sardi entro un termine di quattro mesi, questi invece furono mandati
a sollecitare soccorsi con la massima urgenza, visto che Creso si
trovava già assediato. 82)
Fra
le varie città alleate a cui mandò i suoi messaggi, c'era ovviamente
anche Sparta. Proprio in quel periodo gli Spartani avevano una contesa
aperta con Argo a proposito di una regione chiamata Tirea: gli
Spartani avevano sottratto la Tirea al dominio di Argo e la tenevano
in loro potere. Il fatto è che tutta la regione a ovest di Argo fino
al capo Malea, tanto la parte continentale quanto Citera e le altre
isole, era in mano degli Argivi. Gli Argivi accorsero a difesa del
territorio che veniva loro sottratto: allora concordarono, dopo varie
trattative, di far combattere trecento soldati per parte e di
assegnare la regione ai vincitori. Il grosso dei due eserciti doveva
ritirarsi nelle rispettive sedi e non assistere al combattimento per
evitare che una delle due parti, vedendo i propri campioni in
difficoltà, accorresse in loro aiuto. Stretto questo patto, si
ritirarono; i due gruppi di soldati scelti rimasero sul campo e
diedero inizio allo scontro. Si batterono con pari successo, finché,
di seicento che erano, rimasero in tre: per gli Argivi Alcenore e
Cromio, per gli Spartani Otriade. Al calar della notte sopravvivevano
solo questi tre. I due Argivi, ritenendosi vincitori, tornarono di
corsa ad Argo, invece lo Spartano Otriade spogliò delle armi i
cadaveri argivi, le trasportò nel proprio campo e continuò ad
occupare il suo posto di combattimento. Il giorno dopo vennero i due
eserciti per informarsi sull'esito della lotta e a quel punto entrambi
si dichiararono vincitori: gli Argivi sostenendo di essere rimasti in
numero superiore, gli Spartani facendo notare che gli avversari erano
fuggiti mentre il loro campione era rimasto sul campo e aveva
spogliato i cadaveri nemici; insomma, litigando vennero alle mani e
ingaggiarono una vera e propria battaglia che fu vinta dagli Spartani
dopo grandi perdite da entrambe le parti. A partire da quel momento
gli Argivi, che per un ben saldo costume portavano i capelli molto
lunghi, si rasarono il capo e stabilirono per legge, con minaccia di
maledizione, che nessun Argivo si lasciasse mai più crescere i
capelli e che le donne non portassero mai più ornamenti d'oro, fino a
quando non avessero riconquistato Tirea. Invece gli Spartani
introdussero una norma del tutto contraria: essi, che non avevano mai
portato i capelli lunghi, da quel momento se li lasciarono crescere. E
si racconta che Otriade, l'unico superstite dei trecento,
vergognandosi di ritornare a Sparta mentre tutti i suoi compagni erano
morti, si sia tolto la vita ancora lì, nella Tirea. 83)
Questa
era la situazione degli Spartani quando giunse l'araldo di Sardi a
richiedere soccorsi per Creso assediato. Nonostante tutto essi, come
ebbero udito l'araldo, si mossero per organizzare i soccorsi. Quando
ormai avevano terminato i preparativi e le navi erano pronte a
salpare, giunse un secondo messaggio ad annunciare che le
fortificazioni dei Lidi erano state espugnate e che Creso era stato
fatto prigioniero. Gli Spartani, profondamente addolorati per
l'accaduto, desistettero dalla spedizione. 84)
Ecco
come i Persiani espugnarono Sardi: Creso subiva ormai l'assedio da
quattordici giorni, quando Ciro mandò dei cavalieri attraverso le
file del proprio esercito a diffondere un annuncio: prometteva un
grosso premio a chi avesse scavalcato per primo le mura nemiche. In
seguito, dopo tanti inutili tentativi, quando tutti gli altri ormai
avevano rinunciato, ci provò un Mardo, di nome Ireade, scalando
quella parte dell'acropoli dove non era stata posta alcuna sentinella
proprio perché non si temeva che da lì potesse venire conquistata;
infatti su quel lato la rocca scende giù a picco e si presenta
inespugnabile. Quello era anche l'unico lato intorno al quale l'antico
re di Sardi Melete non aveva fatto passare il leone natogli dalla sua
concubina, allorquando i Telmessi avevano sentenziato che Sardi non
sarebbe mai caduta se il leone avesse compiuto il giro delle mura;
Melete lo aveva condotto intorno alle fortificazioni in ogni punto in
cui l'acropoli si prestava a un assalto, ma aveva escluso proprio
quello in quanto scosceso e quindi, come credeva, inespugnabile: si
tratta del lato della città che guarda verso il Tmolo. Ebbene il
Mardo Ireade il giorno prima aveva scorto un Lidio scendere da questa
parte dell'acropoli per recuperare un elmo rotolato dall'alto; notato
il fatto, non se l'era scordato. Allora diede personalmente la scalata
e altri Persiani lo seguirono; quando furono saliti in tanti, Sardi fu
presa e l'intera città messa a sacco. 85)
Ed
ecco cosa accadde a Creso personalmente: come ho già una volta
ricordato aveva un figlio che era ben dotato per il resto, ma muto. Al
tempo delle sue passate fortune Creso aveva fatto di tutto per lui e
fra gli altri tentativi escogitati aveva anche mandato a interrogare
in proposito l'oracolo di Delfi. E la Pizia così gli aveva
risposto:…”Stirpe di Lidi, su molti regnante, stoltissimo
Creso, Mal tu desideri udir per le case la voce bramata, Della parola
del figlio: molto peggio è per te non udirla. Giorno fatale sarà,
quando udrai la sua prima parola.”… (Tu, che sei di stirpe
lidia e re di molti popoli, stoltissimo Creso, non augurarti di udire
in casa tua la desideratissima voce di tuo figlio. Sarebbe molto
meglio che ciò non accadesse. Parlerà per la prima volta in un
giorno di sventura). Effettivamente quando le mura furono espugnate,
un Persiano che non lo aveva riconosciuto stava aggredendo Creso per
ucciderlo; Creso dal canto suo, pur vedendosi assalito, non se ne curò:
nella sciagura che ormai gli era toccata non gli importava di morire
sotto i colpi. Ma suo figlio, il muto, quando vide che il Persiano lo
stava aggredendo, per la paura e per il dolore sciolse la voce e gridò:
"Uomo, non uccidere Creso!". Questa fu la prima volta; poi
conservò la favella per tutta la vita. 86)
I
Persiani occuparono Sardi e fecero prigioniero Creso al
quattordicesimo anno del suo regno e al quattordicesimo giorno di
assedio: Creso, come aveva previsto l'oracolo, pose fine a un grande
regno, il proprio. Quando i Persiani lo catturarono, lo condussero
davanti a Ciro; Ciro ordinò di erigere una grande pira e vi fece
salire Creso legato in catene e con lui quattordici giovani Lidi; la
sua intenzione era di consacrare queste primizie a qualche dio o forse
voleva sciogliere un voto; o forse addirittura, avendo sentito parlare
della devozione di Creso, lo destinò al rogo curioso di vedere se
qualche dio lo avrebbe salvato dal bruciare vivo. Così agiva Ciro; ma
a Creso, ormai in piedi sopra la pira, nonostante la drammaticità del
momento, venne in mente il detto di Solone: "Nessuno che sia vivo
è felice"; e gli parvero parole ispirate da un dio. Con questo
pensiero, sospirando e gemendo, dopo un lungo silenzio, pronunciò tre
volte il nome di Solone. Ciro lo udì e ordinò agli interpreti di
chiedere a Creso chi stesse invocando; essi gli si avvicinarono e lo
interrogarono. Creso dapprima evitò di rispondere alle domande, poi,
cedendo alle insistenze rispose: "Uno che avrei dato molto denaro
perché fosse venuto a parlare con tutti i re". Ma poiché queste
parole suonavano incomprensibili, gli chiesero ulteriori spiegazioni.
Visto che continuavano a infastidirlo con le loro insistenze, raccontò
come una volta si fosse recato da lui Solone di Atene e dopo aver
visto le sue ricchezze le avesse disprezzate; ne riferì anche le
affermazioni e narrò come poi tutto si fosse svolto secondo le parole
che Solone aveva rivolto non soltanto a lui, Creso, ma a tutto il
genere umano e specialmente a quanti a loro proprio giudizio si
ritengono felici. Mentre Creso raccontava questi fatti, la pira, a cui
era stato appiccato il fuoco, bruciava ormai tutto intorno. Ciro udì
dagli interpreti il racconto di Creso e cambiò parere: pensò che
lui, semplice essere umano, stava mandando al rogo, ancora vivo, un
altro essere umano, che non gli era stato inferiore per fortune
terrene; inoltre gli venne timore di una vendetta divina, al pensiero
che nella condizione dell'uomo non vi è nulla di stabile e sicuro, e
ordinò di spegnere al più presto il fuoco ormai divampante e di far
scendere Creso e i suoi compagni. Ma nonostante tutti i tentativi non
riuscivano ad avere ragione delle fiamme. 87)
I
Lidi raccontano che a questo punto Creso, resosi conto del cambiamento
avvenuto in Ciro e vedendo che tutti si sforzavano di domare il fuoco
e non ci riuscivano, invocò ad alta voce Apollo, supplicandolo di
stargli accanto e di salvarlo dalla sventura in cui si trovava, se mai
una delle sue offerte gli era riuscita gradita. Invocava il dio fra le
lacrime quando all'improvviso il cielo, prima sereno e privo di vento,
si annuvolò, scoppiò un temporale e cadde un violentissimo
acquazzone che spense completamente le fiamme. Allora Ciro, resosi
conto che Creso era un uomo giusto e caro agli dei, lo fece scendere
dal rogo e gli chiese: "Creso, quale uomo ti convinse a marciare
contro le mie terre, a essermi nemico invece che amico?" E Creso
rispose: "Sovrano, ho agito così per la tua felicità e per la
mia rovina: di tutto questo il colpevole fu il dio dei Greci, che mi
esortò alla guerra. Perché nessuno è così folle da preferire la
guerra alla pace: in pace i figli seppelliscono i padri, in guerra
sono i padri a seppellire i figli. Ma piaceva forse a un dio che le
cose andassero come sono andate". 88)
Così
Creso rispose. Ciro lo liberò dalle catene e lo fece sedere al suo
fianco trattandolo con molti riguardi: Ciro lo guardava con una sorta
di ammirazione e così quelli del suo seguito. Dal canto suo Creso
rifletteva in silenzio, ma a un certo punto si sollevò e, vedendo che
i Persiani stavano devastando la città dei Lidi, disse:
"Signore, nella situazione in cui mi trovo posso dirti quello che
penso o devo tacere?" Ciro lo invitò a dire senza timori ciò
che voleva e allora Creso gli domandò: "Che cosa sta facendo
tutta questa gente con tanto ardore?" Ciro rispose:
"Saccheggia la tua città, si spartisce le tue ricchezze".
Ma Creso ribatté: "No, non sta saccheggiando la mia città né
le mie ricchezze, perché queste cose non appartengono più a me;
quelli si stanno portando via la roba tua". 89)
Ciro
fu molto colpito dalle parole di Creso; allontanò i presenti e gli
chiese come interpretasse quanto stava succedendo; e Creso rispose:
"Visto che gli dei mi hanno dato a te come schiavo, mi pare
giusto, se vedo più in là di te, informartene. I Persiani, oltre a
essere tracotanti per natura, sono poveri; se tu dunque permetti loro
di rapinare e ammassare grandi ricchezze, attenditi pure che uno di
loro, quello divenuto più ricco, si ribelli contro di te. Ecco
dunque, se convieni con me su quello che ti dico, come dovresti agire:
disponi a guardia di tutte le porte della città degli uomini fidati i
quali, sequestrando il bottino a chi esce, dichiarino che è
assolutamente indispensabile offrirne a Zeus la decima parte. Così
non se la prenderanno con te se gli sottrai con la forza la preda di
guerra e anzi, riconoscendo che ti comporti giustamente, vi
rinunceranno volentieri". 90)
Ciro
fu quanto mai lieto di udire questo consiglio, che gli parve ottimo;
lo approvò senz'altro e quando ebbe dato alle sue guardie le
istruzioni suggerite da Creso, si rivolse ancora a lui e gli disse:
"Creso, visto che sei disposto ad agire e a parlare con la nobiltà
di un re, chiedimi pure un dono, quello che vuoi, subito". Creso
replicò: "Signore, mi farai un grandissimo favore se mi permetti
di mandare queste catene al dio dei Greci, il dio da me più onorato,
e di chiedergli se è sua abitudine ingannare chi si comporta bene
verso di lui". Ciro gli domandò il motivo di questa preghiera,
che rimproveri avesse da muovere al dio, e Creso gli raccontò ogni
cosa, risalendo al suo antico progetto e alle risposte degli oracoli:
narrò in particolare delle proprie offerte votive e di come avesse
mosso guerra ai Persiani spintovi dall'oracolo. Concluse il discorso
pregando nuovamente che gli fosse concesso di rivolgere al dio il suo
biasimo. Ciro scoppiò a ridere e disse: "Non solo questo tu
otterrai da me, ma qualunque altra cosa di cui tu senta la necessità,
in qualunque occasione". Udito ciò, Creso mandò a Delfi dei
Lidi con l'ordine di posare le catene sulla soglia del tempio e di
chiedere al dio se non si vergognasse di aver spinto Creso con i suoi
responsi a muovere guerra ai Persiani con la promessa che avrebbe
abbattuto l'impero di Ciro; dovevano poi mostrare le catene e
dichiarare che erano le primizie ricavate da tale impero; e inoltre
dovevano chiedere se è abitudine degli dei Greci essere ingrati. 91)
Ai
Lidi che, giunti a Delfi, la interrogavano secondo le istruzioni
ricevute, si dice che la Pizia abbia risposto così: "Neppure un
dio può sfuggire al destino stabilito. Creso ha scontato la colpa del
suo quinto ascendente, che era una semplice guardia del corpo degli
Eraclidi e che, rendendosi complice della macchinazione di una donna,
uccise il proprio padrone e si appropriò della sua autorità, senza
averne alcun diritto. Il Lossia ha fatto il possibile perché la
caduta di Sardi avvenisse sotto i figli di Creso e non durante il suo
regno, ma non è stato in grado di stornare le Moire; quanto esse gli
hanno concesso, il Lossia lo ha compiuto come un dono per Creso: per
tre anni ha differito la presa di Sardi; lo sappia, Creso, di essere
stato imprigionato con tre anni di ritardo sul tempo stabilito; e
un'altra volta lo ha soccorso quando già si trovava sul rogo. Quanto
all'oracolo, Creso muove rimproveri ingiusti. Perché il Lossia gli
aveva predetto che, se avesse marciato contro i Persiani, avrebbe
distrutto un grande dominio. Di fronte a questo responso se voleva
prendere una decisione saggia doveva mandare a chiedere ancora se il
dio intendeva il dominio suo o quello di Ciro. Non ha afferrato le
parole del dio né chiesto ulteriori spiegazioni; dunque, consideri se
stesso responsabile di quanto è accaduto. E infine consultando
l'oracolo non comprese neppure le parole del dio sul mulo: questo mulo
era proprio Ciro. Ciro è nato, infatti, da due persone di diversa
nazionalità, di più nobile origine la madre, di condizioni più
modeste il padre; lei della Media e figlia di Astiage, re dei Medi,
lui Persiano, suddito dei Medi: benché le fosse in tutto inferiore,
sposò la sua padrona". Questa fu la risposta della Pizia ai
Lidi; essi la riportarono a Sardi e la riferirono a Creso, il quale,
quando l'ebbe appresa, riconobbe che la colpa era sua e non del dio. 92)
Questa
è la storia del regno di Creso e del primo assoggettamento della
Ionia. Esistono in Grecia anche molti altri doni di Creso, non solo
quelli già elencati: a Tebe, in Beozia, un tripode d'oro, dedicato ad
Apollo Ismenio, a Efeso le vacche d'oro e la maggior parte delle
colonne, a Delfi, nel tempio di Atena Pronaa, un grande scudo d'oro.
Questi doni si conservano ancora ai miei tempi, altri sono andati
perduti. E sono venuto a sapere che gli oggetti dedicati da Creso nel
santuario dei Branchidi di Mileto sono pari, per quantità e qualità,
a quelli di Delfi. Le offerte a Delfi e al tempio di Anfiarao erano
costituite da oggetti suoi personali, derivanti dal patrimonio
paterno; tutte le altre provenivano dal patrimonio di un nemico, il
quale, prima che Creso salisse al potere, gli si era opposto
caldeggiando l'ascesa al trono di Pantaleonte. Pantaleonte era figlio
di Aliatte e fratello di Creso, ma non per parte di madre: Creso era
figlio di Aliatte e di una donna caria, Pantaleonte di una donna
ionica. Creso, quando ottenne il potere per conferimento paterno,
uccise il suo oppositore facendolo torturare a morte; i suoi beni poi
in base a un voto precedente li dedicò nel modo che si è detto nei
templi sopra indicati. E con questo sia chiuso il discorso sulle
offerte votive di Creso. 93)
A
differenza di altri paesi, la Lidia non offre molte meraviglie da
descrivere, ad eccezione delle pagliuzze d'oro che vengono trasportate
giù dal monte Tmolo. Possiede un'unica costruzione veramente
gigantesca, la più grande del mondo dopo i monumenti dell'Egitto e
della Babilonia: vi si trova la tomba di Aliatte, padre di Creso, il
cui basamento è costituito da enormi blocchi di pietra; il resto è
un gran tumulo di terra. Contribuirono a erigerla i mercanti della
città, gli artigiani e le ragazze con i proventi della prostituzione.
Sulla sommità del sepolcro ancora ai miei tempi correvano cinque
pilastrini sui quali erano state incise iscrizioni per ricordare il
lavoro dovuto a ciascuna categoria: da una adeguata valutazione
risultava chiaro che il contributo delle ragazze era il maggiore.
Bisogna sapere che tutte le figlie del popolo dei Lidi esercitano la
prostituzione, mettendo così insieme la propria dote, e lo fanno fino
al momento di sposarsi: e sono loro stesse a procurarsi il marito. Il
perimetro del sepolcro misura sei stadi e due pletri, mentre la sua
larghezza è di tredici pletri. Immediatamente accanto all'edificio si
stende un vasto lago detto Lago di Gige, che i Lidi sostengono essere
perenne. E questo è quanto. 94)
Le
usanze dei Lidi sono molto simili a quelle dei Greci, se si eccettua
il fatto che prostituiscono le figlie. Per quanto ne sappiamo furono i
primi uomini a fare uso di monete d'oro e d'argento coniate e i primi
anche a esercitare il commercio al minuto. Secondo i Lidi anche i
giochi praticati oggi dai Greci e dai Lidi sarebbero una loro
invenzione: sostengono di averli escogitati all'epoca in cui
colonizzarono la Tirrenia; ma ecco in proposito la loro versione.
Sotto il regno di Atis figlio di Mane si era abbattuta su tutta la
Lidia una terribile carestia: per un po' i Lidi avevano resistito, ma
poi, visto che la carestia non aveva fine, cercarono di ingannare la
fame inventando una serie di espedienti. E appunto allora sarebbero
stati ideati i dadi, gli astragali, la palla e tutti gli altri tipi di
gioco, tranne i "sassolini"; solo l'invenzione dei
"sassolini" non si attribuiscono i Lidi. Ed ecco come
fronteggiavano la fame con le loro scoperte: un giorno lo
trascorrevano interamente a giocare per non sentire il desiderio di
mangiare, il successivo lasciavano perdere i divertimenti e si
cibavano. Tirarono avanti con questo sistema di vita per ben diciotto
anni. Ma poiché la carestia non terminava e anzi la situazione si
faceva sempre più grave, allora il re dei Lidi divise in due parti
l'intera popolazione e affidò al sorteggio di decidere quale dovesse
restare e quale dovesse emigrare dal paese; alla parte cui sarebbe
toccato restare assegnò se stesso come re e a quella che sarebbe
partita suo figlio, che si chiamava Tirreno. I Lidi designati dalla
sorte a emigrare scesero fino a Smirne, costruirono una flotta e su di
essa caricarono quanto possedevano di valore: salparono poi alla
ricerca di una terra che procurasse loro i mezzi per vivere;
oltrepassarono numerosi paesi finché giunsero fra gli Umbri: qui
fondarono delle città e qui abitano a tuttoggi. E cambiarono anche il
loro nome assumendo quello del figlio del re, che li aveva guidati: da
allora, dal suo nome si chiamarono Tirreni. I Lidi rimasti in patria
caddero poi sotto il dominio dei Persiani. 95)
A
questo punto la narrazione esige che si indaghi sulla figura di Ciro,
il re che rovesciò il dominio di Creso, e sui Persiani, per spiegare
in che modo arrivarono alla conquista dell'Asia intera. Fonderò il
mio resoconto sulla base di quanto raccontano alcuni Persiani, quelli
che non intendono magnificare la storia di Ciro, ma semplicemente
attenersi alla realtà dei fatti; volendo sarei in grado di riferire
altre tre versioni su Ciro. Ormai da 520 anni gli Assiri dominavano
sulla parte settentrionale dell'Asia, quando i Medi, per primi,
cominciarono a ribellarsi; e in qualche modo essi, battendosi contro
gli Assiri per l'indipendenza, si mostrarono ben valorosi: riuscirono
a scrollarsi di dosso la schiavitù e a ottenere la libertà. Dopo di
che altre popolazioni seguirono l'esempio dei Medi. 96)
Ma
quando tutti i popoli del continente furono indipendenti, caddero
nuovamente sotto un unico dominio. Ed ecco come. Viveva tra i Medi un
uomo molto saggio, che si chiamava Deioce e che era figlio di Fraorte.
Questo Deioce fu preso dal desiderio del potere assoluto e agì come
segue. I Medi risiedevano in villaggi sparsi; nel proprio villaggio
Deioce si segnalò, più di quanto già non fosse stimato, praticando
la giustizia con sempre maggiore impegno; e agiva così mentre in
tutta la Media quasi non esisteva il rispetto delle leggi e benché
sapesse che l'ingiusto è ostile a chi è giusto. I Medi di quel
villaggio in considerazione della sua condotta lo scelsero come loro
giudice. Lui per la verità era probo e giusto perché aspirava al
potere. In questo modo ottenne una notevole stima da parte dei suoi
concittadini, cosicché, quando negli altri villaggi si sparse la voce
che Deioce era l'unico retto nell'amministrare la giustizia, tutti
quanti, prima abituati ad avere a che fare con sentenze inique, appena
intesero di Deioce, furono ben lieti di accorrere da lui per dirimere
le loro questioni; alla fine non si rivolgevano più a nessun altro. 97)
La
folla cresceva col passare dei giorni perché si sapeva che i processi
avevano l'esito dovuto; Deioce, resosi conto di tenere ormai in pugno
l'intera situazione, rifiutò di sedersi sullo scranno dove sino ad
allora si era installato per dirimere le cause; e dichiarò che non
avrebbe più emesso sentenze: non era vantaggioso per i suoi affari
occuparsi delle questioni altrui e fare il giudice per tutta la
giornata. Così, quando ruberie e illegalità nei vari villaggi furono
ancora più frequenti di prima, i Medi si riunirono in assemblea e
discussero fra di loro, parlando della situazione presente (a parlare,
io credo, furono soprattutto gli amici di Deioce): "Nelle
condizioni attuali il nostro paese non è abitabile. Nominiamo re uno
di noi; il paese sarà regolato da buone leggi e noi potremo dedicarci
ai nostri affari senza i rischi dovuti al disordine pubblico". E
con questi ragionamenti si convinsero a darsi un re. 98)
Quando
si trattò di proporre candidati per il trono, Deioce subito venne
candidato e decantato da tutti, finché decisero di eleggerlo. Deioce
pretese che gli edificassero un palazzo degno della sua condizione di
re e che gli conferissero un potere effettivo assegnandogli una
scorta. E i Medi obbedirono: gli costruirono una reggia grande e
solida nel punto del paese da lui indicato e gli consentirono di
scegliersi fra tutti i Medi un corpo di guardia. Una volta assunto il
potere Deioce costrinse i Medi a costruire una città e a occuparsi
soprattutto di quella trascurando gli altri villaggi. Anche allora i
Medi obbedirono e innalzarono una grande e ben munita fortezza, che
oggi si chiama Ecbatana, costituita da una serie di mura concentriche.
Essa è studiata in modo tale che ogni giro di mura superi il
precedente solo per l'altezza dei bastioni. In certo qual modo anche
la natura del luogo, che è collinoso, contribuì a una simile
realizzazione, ma molto di più agirono le precise intenzioni dei
costruttori. In tutto le mura di cinta sono sette: l'ultima racchiude
la reggia e i tesori; la più ampia si estende all'incirca quanto il
perimetro di Atene. I bastioni del primo giro sono bianchi, quelli del
secondo neri; sono rosso porpora al terzo, azzurri al quarto e rosso
arancio al quinto; i bastioni delle prime cinque cerchie sono stati
tinti con sostanze coloranti, invece le ultime due hanno bastioni
rivestiti rispettivamente di argento e d'oro. 99)
Queste
opere murarie Deioce le faceva costruire per sé e intorno alla
propria reggia; al resto del popolo ordinò di abitare all'esterno
delle mura. Ultimati i lavori, Deioce stabilì, e fu il primo a farlo,
il seguente regolamento: a nessuno era consentito presentarsi
direttamente al re, ogni comunicazione doveva avvenire tramite araldi,
il re non poteva essere visto da nessuno; inoltre era vietato a tutti,
come atto indecoroso, anche ridere e sputare in sua presenza. Cercava
di rendere solenne tutto ciò che lo circondava, affinché i suoi
antichi compagni, cresciuti con lui e non certo a lui inferiori per
capacità personali o per nobiltà di nascita, non finissero,
vedendolo, per irritarsi contro di lui e non gli cospirassero contro;
anzi non vedendolo lo avrebbero sempre considerato diverso da loro. 100)
Dopo
aver introdotto queste norme di comportamento ed essersi rafforzato
con l'esercizio del potere, fu poi un inflessibile guardiano della
giustizia. Gli facevano pervenire per iscritto i termini di una
questione, all'interno della reggia, e Deioce da lì giudicava le
cause che gli venivano sottoposte ed emetteva le sue sentenze. Così
si regolava per i processi, ma prese anche altri provvedimenti: se
veniva a sapere che qualcuno aveva violato le leggi, lo convocava e
gli infliggeva una pena commisurata alla colpa commessa; a tale scopo
aveva osservatori e informatori sparsi in tutta la regione da lui
governata. 101)
Deioce
unificò e governò soltanto il popolo dei Medi, il quale si compone
di varie tribù: Busi, Paretaceni, Strucati, Arizanti, Budi, Magi.
Queste sono le tribù dei Medi. 102)
Figlio
di Deioce era Fraorte, il quale alla morte del padre (avvenuta dopo un
regno durato 53 anni) ereditò il potere. Quando lo ebbe nelle sue
mani non si accontentò di regnare soltanto sui Medi, anzi compì una
spedizione militare contro i Persiani che furono i primi a subire il
suo attacco e i primi a diventare sudditi dei Medi. In seguito,
disponendo di queste due popolazioni, forti entrambe, intraprese la
conquista dell'Asia intera, avanzando da una nazione all'altra, fino a
che entrò in guerra con gli Assiri, o meglio con quelle genti assire
che abitavano Ninive e che una volta avevano avuto il dominio su
tutti: a quell'epoca invece erano isolate in seguito alla defezione
dei loro alleati, ma godevano pur sempre di una ottima situazione
interna. Nel corso di quella spedizione Fraorte perì, dopo 22 anni di
regno, e con lui fu distrutta la maggior parte dell'esercito. 103)
Deceduto
Fraorte gli successe Ciassare, figlio suo e nipote di Deioce. Si
racconta che Ciassare fosse ancor più valoroso, e molto, dei suoi
antenati. Fu anche il primo a dividere in corpi le truppe dell'Asia e
a schierare separatamente i soldati armati di lancia, quelli armati di
arco e i cavalieri; prima di lui stavano tutti mescolati in grande
confusione. Era lui quello che combatteva contro i Lidi quando durante
la battaglia il giorno si oscurò per farsi notte e fu lui a unificare
sotto il proprio scettro tutta l'Asia al di là del fiume Alis.
Raccolse tutte le forze di cui era a capo e marciò contro Ninive con
l'intenzione di vendicare il padre e di distruggere la città. Aveva
sconfitto in battaglia gli Assiri e stava assediando Ninive quando
sopraggiunse un grosso esercito di Sciti, guidato dal re degli Sciti
Madie, figlio di Protothie; essi erano penetrati in Asia dopo aver
scacciato dall'Europa i Cimmeri e si erano spinti fino alla regione
dei Medi proprio inseguendo i Cimmeri in fuga. 104)
Un
corriere equipaggiato alla leggera impiega trenta giorni di cammino
per arrivare dalla palude Meotide al fiume Fasi e alla Colchide; poi
dalla Colchide non occorre molto tempo per trasferirsi nella terra dei
Medi: solo una popolazione si frappone fra i due territori, i Saspiri,
superati i quali si è subito nella Media. Comunque gli Sciti non
penetrarono da quella parte, ma seguirono un percorso più
settentrionale e assai più lungo, tenendosi sulla sinistra della
catena del Caucaso. I Medi si scontrarono con gli Sciti, ma furono
sconfitti in battaglia e persero la loro egemonia: gli Sciti
occuparono tutta l'Asia. 105)
Da
lì si diressero verso l'Egitto, ma quando giunsero nella Siria
Palestina il re d'Egitto Psammetico andò loro incontro e con donativi
e suppliche li distolse dall'avanzare più oltre. Essi poi, durante la
loro ritirata, toccarono la città di Ascalona, in Siria, e mentre la
maggior parte di loro proseguì senza causare danni, alcuni, rimasti
indietro, saccheggiarono il tempio di Afrodite Urania. Questo
santuario, a quanto risulta dalle informazioni che ho ricevuto, è il
più antico di tutti quelli dedicati ad Afrodite; anche il tempio di
Cipro trasse origine da lì, come raccontano gli abitanti stessi
dell'isola, e quello di Citera l'hanno costruito dei Fenici che erano
per l'appunto nativi della Palestina. Sugli Sciti che saccheggiarono
il tempio di Ascalona e sui loro discendenti la dea scatenò la
'malattia femminile': sono gli Sciti stessi a dare questa spiegazione
per la loro malattia, e del resto chi si reca in Scizia può
constatare in che stato si trovino coloro che gli Sciti chiamano
"Enarei". 106)
Gli
Sciti furono padroni dell'Asia per 28 anni e ridussero tutto in uno
stato disastroso con le loro violenze e la loro incuria. Da un lato
esigevano dai singoli i tributi che avevano ad essi imposto,
dall'altro, indipendentemente dai tributi, percorrevano il paese
saccheggiando tutto quello che trovavano. Ciassare e i Medi riuscirono
a eliminarne un gran numero ospitandoli e facendoli ubriacare; in tal
modo i Medi riottennero il loro predominio, assoggettarono le stesse
popolazioni di prima ed espugnarono Ninive (in che modo lo spiegherò
in un'altra parte del mio racconto), sottomettendo tutta l'Assiria a
eccezione del territorio di Babilonia. 107)
Più
tardi Ciassare morì, dopo quaranta anni di regno, compresi quelli del
predominio scita. Nel regno gli succedette il figlio Astiage. Astiage
ebbe una figlia che chiamò Mandane; e una volta sognò che Mandane
orinava con tanta abbondanza da sommergere la sua città e inondare
l'Asia intera. Sottopose questa visione all'attenzione di quei Magi
che interpretano i sogni e si spaventò molto quando essi gli
spiegarono ogni particolare. Più avanti, quando Mandane fu in età da
marito, non volle concederla in moglie a nessun pretendente medo, per
degno che fosse: per la paura, sempre viva in lui, di quel sogno, la
diede a un Persiano, che si chiamava Cambise: lo trovava di buona
casata, di carattere tranquillo e lo giudicava molto al di sotto di un
Medo di normale condizione. 108)
Durante
il primo anno di matrimonio di Cambise e Mandane, Astiage ebbe una
seconda visione: sognò che dal sesso della figlia nasceva una vite e
che la vite copriva l'Asia intera. Dopo questa visione e consultati
gli interpreti, fece venire dalla Persia sua figlia, che era vicina al
momento del parto, e quando arrivò la mise sotto sorveglianza,
intenzionato a eliminare il bambino che lei avrebbe partorito. Perché
i Magi interpreti dei sogni gli avevano spiegato, in base alla
visione, che il figlio di Mandane avrebbe regnato al posto suo. Perciò
Astiage prese tutte le precauzioni e quando Ciro nacque chiamò Arpago,
un parente, il più fedele dei Medi e suo uomo di fiducia in ogni
circostanza, e gli disse: "Arpago, bada di eseguire con grande
attenzione l'incarico che ora ti affido e di non ingannarmi; se
abbracci la causa di altri col tempo te ne dovrai pentire. Prendi il
bambino partorito da Mandane, portalo a casa tua e uccidilo; poi fa
sparire il cadavere come preferisci". E Arpago rispose: "Mio
re, tu non vedesti mai nulla in me, io credo, che non ti fosse gradito
e anche in avvenire starò bene attento a non commettere mai alcuna
mancanza nei tuoi confronti. E se ora vuoi che questo sia fatto, è
mio dovere per quanto dipende da me, servirti pienamente". 109)
Dopo
questa risposta gli fu consegnato il bambino, già avvolto nei panni
funebri; Arpago si avviò verso casa piangendo. Quando vi giunse riferì
a sua moglie tutte le parole di Astiage, ed essa gli chiese: "E
tu ora che cosa hai intenzione di fare?" Le rispose: "Non
certo di obbedire agli ordini di Astiage, neppure se sragionerà o se
impazzirà peggio di quanto già ora deliri: non mi associerò al suo
disegno e non eseguirò per lui un simile delitto. Non ucciderò il
bambino per molte ragioni, perché è mio parente e perché Astiage è
vecchio e non ha figli maschi; se dopo la morte di questo bambino il
potere passerà a Mandane, di cui ora lui fa uccidere il figlio
servendosi di me, cos'altro dovrò aspettarmi se non il più grave dei
pericoli? Per la mia incolumità è necessario che questo bambino
muoia, ma a ucciderlo dovrà essere uno di Astiage e non uno dei
miei". 110)
Disse
così e immediatamente inviò un messo a un mandriano di Astiage che a
quanto sapeva si trovava nei pascoli più adatti al suo disegno, su
montagne popolate da numerose bestie feroci: si chiamava Mitradate e
viveva con una donna, sua compagna di schiavitù, che si chiamava
Spaco e il cui nome in greco suonerebbe Cino, dato che i Medi chiamano
"spaco" appunto il cane. Le falde dei monti su cui questo
mandriano pascolava il suo bestiame si trovano a nord di Ecbatana in
direzione del Ponto Eusino; infatti la Media in questa direzione,
verso i Saspiri, è assai montuosa, elevata e coperta di boscaglie,
mentre il resto del paese è tutto pianeggiante. Il bovaro, dunque,
convocato, si presentò con sollecitudine e Arpago gli disse: "Astiage
ti ordina di prendere questo bambino e di andarlo a esporre sul più
solitario dei monti affinché muoia al più presto. E mi ha ordinato
di avvisarti che se non lo uccidi e in qualche maniera lo risparmi ti
farà morire tra i più terribili supplizi. Io ho il compito di
controllare che il bambino venga esposto". 111)
Udito
ciò il mandriano prese il bambino, se ne tornò indietro per la
stessa strada e giunse al suo casolare. Per l'appunto anche sua moglie
era in attesa di partorire un figlio da un giorno all'altro e, forse
per opera di un dio, lo diede alla luce durante il viaggio in città
del marito. Erano preoccupati entrambi, l'uno per l'altro, lui in
apprensione per il parto della moglie, e lei perché non era cosa
abituale che Arpago mandasse a chiamare suo marito. Quando lui ritornò,
fu la moglie, come se avesse disperato di rivederlo, a chiedergli per
prima per quale ragione Arpago lo avesse chiamato con tanta fretta. E
lui rispose: "Moglie mia, sono andato in città e ho visto e
udito cose che vorrei non aver visto e che non fossero mai accadute ai
nostri padroni: tutta la casa di Arpago era in preda al pianto e io vi
entrai sconvolto. Appena dentro ti vedo un neonato, lì in terra, che
si agita e piange con indosso un vestitino ricamato e ornamenti d'oro.
Arpago come mi vede mi ordina di prendere il bambino, di portarlo via
con me e di andarlo poi a esporre sulle montagne più infestate dalle
fiere, dicendo che questi sono ordini di Astiage e aggiungendo molte
minacce nel caso io non li esegua. E io l'ho preso con me credendo che
fosse figlio di qualche servo. Non potevo immaginare da chi era nato.
Ma mi sembravano un po' strani quegli ornamenti d'oro e quei tessuti
preziosi e il pianto generale che regnava nella casa di Arpago. Più
avanti lungo la strada vengo a sapere tutta la verità dal servo
incaricato di accompagnarmi fuori le mura e di consegnarmi il neonato:
è il bambino di Mandane, la figlia di Astiage, e di Cambise, figlio
di Ciro, e Astiage ordina di ucciderlo! Ora eccolo qua". 112)
Il
mandriano diceva queste parole e intanto svolgeva il fagotto per
mostrare il bambino. Quando lei vide il neonato così sano e bello,
scoppiò a piangere e afferrando le ginocchia del marito lo
scongiurava di non esporlo, in nessuna maniera. Ma lui sosteneva di
non poter fare altrimenti; sarebbero venuti degli spioni di Arpago a
controllare, e lui sarebbe stato condannato a una morte orribile se
non avesse eseguito gli ordini. Non riuscendo a persuadere il marito
la donna tentò una seconda strada e gli disse: "Visto che non
riesco a persuaderti a non esporlo, tu almeno fai come ti dico io, se
proprio è assolutamente inevitabile che la si veda esposta, questa
creatura: devi sapere che anch'io ho partorito, ma ho dato alla luce
un bambino morto; prendilo ed esponilo e noi invece alleviamoci il
nipotino di Astiage come se fosse nostro. In questo modo non si
accorgeranno della tua colpa verso i padroni e noi non avremo preso
una brutta decisione: il nostro bambino morto avrà una sepoltura da
re e l'altro non perderà la vita". 113)
Al
mandriano parve assai saggia in quella circostanza la proposta della
moglie e immediatamente la mise in opera. Affidò alla moglie il
bambino che aveva portato con sé per ucciderlo, quindi prese il
cadaverino del proprio figlio e lo pose nel cesto dentro cui aveva
trasportato l'altro; lo vestì con gli arredi regali, lo portò sul più
solitario dei monti e ve lo lasciò. Due giorni dopo l'esposizione del
bambino, il mandriano tornò in città dopo aver lasciato lassù di
guardia uno dei suoi aiutanti; si recò in casa di Arpago e si dichiarò
pronto a mostrare il corpo senza vita del neonato. Arpago mandò le più
fedeli delle sue guardie del corpo a constatare per lui il fatto: ma
quello che seppellirono fu il figlioletto del mandriano. E così
mentre l'uno fu seppellito, la moglie del pastore tenne con sé
l'altro, che più tardi fu chiamato Ciro e lo allevò, dandogli un
altro nome e non quello di Ciro. 114)
Quando
il ragazzo aveva dieci anni si verificò un episodio che rivelò la
sua identità: giocava nel villaggio dove erano anche gli stazzi del
bestiame, giocava per strada con dei coetanei; e giocando i bambini lo
avevano eletto loro re, lui che per tutti era "il figlio del
mandriano". E lui distribuiva le mansioni: voi dovete costruirmi
un palazzo, voi essere le mie guardie; tu sarai "l'occhio del
re", a te tocca l'incarico di portare i messaggi: insomma a
ognuno assegnava il suo compito. Ma uno dei bambini che giocavano con
lui era il figlio di Artembare, uomo di grande prestigio fra i Medi, e
non volle obbedire agli ordini di Ciro; allora Ciro comandò agli
altri ragazzi di arrestarlo e, quando essi ebbero obbedito, punì
assai duramente il ribelle facendolo fustigare. Appena lasciato
libero, il ragazzo, ancora più infuriato al pensiero di aver subito
un trattamento indegno della sua condizione, si recò in città a
lamentarsi col padre dell'affronto ricevuto da Ciro, naturalmente non
parlando di Ciro (non poteva essere questo il nome) ma del
"figlio del mandriano" di Astiage. Artembare, adirato
com'era, si recò da Astiage conducendo con sé il figlioletto e si
lamentò di aver subito dei mostruosi oltraggi: "Signore, - disse
- ecco la violenza insolente che abbiamo patito da parte di un tuo
servo, dal figlio di un bovaro"; e mostrava la schiena del
figlio. 115)
Astiage
udì e vide; e desiderando vendicare il bambino per riguardo ad
Artembare, fece chiamare il mandriano e il suo ragazzo. Quando furono
entrambi presenti, Astiage, guardando in faccia Ciro, disse:
"Dunque tu, che sei figlio di un pover'uomo, hai osato trattare
così ignominiosamente il figlio di un uomo che è il primo nella mia
corte?" E il ragazzo rispose: "Signore, quello che gli ho
fatto è stato secondo giustizia: i ragazzi del villaggio, lui
compreso, mentre giocavamo mi elessero loro re ritenendomi il più
adatto a questo titolo. Ora, tutti gli altri bambini eseguivano i miei
ordini, lui invece non li voleva ascoltare e non ne teneva il minimo
conto, fino a quando ha avuto la giusta punizione. Se dunque, per
questo, mi merito un castigo, sono qui a tua disposizione". 116)
Mentre
il bambino dava questa risposta poco per volta Astiage lo riconosceva:
gli pareva che i lineamenti del viso fossero molto simili ai propri,
troppo libero il tono della risposta; e anche l'epoca dell'esposizione
corrispondeva all'età del ragazzo. Impressionato da questi
particolari, per un po' rimase senza parola; poi, ripresosi a stento,
aprì bocca per congedare Artembare e per poter interrogare da solo a
solo il mandriano: "Artembare - disse - agirò in maniera che tu
e tuo figlio non possiate lamentarvi". Mandò via Artembare e
diede ordine ai servi di condurre Ciro in un'altra stanza. Quando il
mandriano rimase solo, Astiage gli chiese dove avesse trovato quel
bambino e chi glielo avesse consegnato. Rispose che era figlio suo e
che la donna che lo aveva dato alla luce viveva ancora con lui. Ma
Astiage ribatté che non era una buona idea quella di candidarsi ad
atroci supplizi, e intanto faceva cenno alle guardie di arrestarlo;
mentre veniva condotto alla tortura confessò ogni cosa. A cominciare
dall'inizio raccontò tutto per filo e per segno e giunse infine a
pregare e a implorare il perdono. 117)
Dopo
che il mandriano gli ebbe rivelato la verità, Astiage non si curò più
di lui: ormai era enormemente adirato con Arpago e ordinò alle sue
guardie di andarlo a chiamare. Quando Arpago fu al suo cospetto,
Astiage gli chiese: "Arpago, che sorte hai riservato al bambino
che ti consegnai, e che era nato da mia figlia?" E Arpago,
vedendo lì nella sala il mandriano, non tentò più la via della
menzogna, per non correre il rischio di venire smentito e disse:
"Mio re, appena ebbi in mano il bambino studiai come regolarmi
secondo la tua volontà e nello stesso tempo non risultare colpevole
verso di te, non essere un omicida agli occhi di tua figlia e ai tuoi.
Decisi di agire così: chiamai il mandriano qui presente e gli
consegnai il neonato, dicendogli che eri tu a ordinare di ucciderlo; e
con queste parole io non mentivo perché proprio tu avevi dato quelle
disposizioni. Glielo consegnai precisando che doveva esporlo su di un
monte deserto e restare lì di guardia fino a quando fosse morto, e
aggiunsi le più varie minacce nel caso che non eseguisse gli ordini.
Quest'uomo eseguì quanto gli era stato comandato e il bambino morì,
allora io mandai i più fedeli dei miei eunuchi e attraverso di loro
constatai l'accaduto e feci seppellire il neonato. Ecco come andarono
le cose, mio signore, e questa è la sorte che toccò al
bambino". 118)
Arpago
quindi disse tutta la verità e Astiage, nascondendo la rabbia che lo
divorava per quanto era successo, per prima cosa ripeté ad Arpago la
versione dei fatti come l'aveva appresa dal mandriano; poi alla fine
del racconto disse che il bambino era vivo e che era bene che tutto
fosse finito così. "Ero molto addolorato - disse - al pensiero
di ciò che avevo fatto a questo bambino e mi pesava il rancore di mia
figlia. Ora visto che tutto è andato per il meglio, manda qui tuo
figlio presso il ragazzo appena arrivato e poi, visto che ho
intenzione di offrire un sacrificio di ringraziamento per l'avvenuta
salvezza agli dei cui spetta questo onore, vieni a cena da me". 119)
Udito
ciò Arpago si prosternò e si avviò verso casa contento che la sua
colpa avesse avuto un esito positivo e di essere stato invitato a cena
con tanti buoni auspici. Appena entrò in casa si affrettò a inviare
a corte il proprio unico figlio, che aveva circa tredici anni,
ordinandogli di andare da Astiage e di fare tutto quello che lui
comandasse. Poi, tutto lieto, andò a raccontare alla moglie quanto
era accaduto. Ma Astiage, quando il figlio di Arpago fu da lui, lo
uccise, lo squartò in tanti pezzi e ne fece cucinare le carni una
parte lessate e una parte arrosto e le tenne pronte. Venne l'ora della
cena: si presentarono tutti i convitati fra i quali Arpago. Davanti
agli altri e allo stesso Astiage furono imbandite mense ricolme di
carne di montone, invece ad Arpago furono servite tutte le carni del
figlio, tranne la testa e le mani e i piedi, che stavano a parte
celate in un canestro. Quando Arpago si sentì sazio di cibo, Astiage
gli domandò se le portate erano state di suo gusto e Arpago rispose
che gli erano piaciute molto; allora dei servi, precedentemente
istruiti, gli misero davanti la testa, le mani e i piedi del ragazzo
ancora coperte e standogli di fronte lo invitarono a scoperchiare il
piatto e a servirsi liberamente. Arpago obbedì, scoperchiò il
piatto, vide i resti del figlio: li vide, ma rimase impassibile e
riuscì a dominarsi. Astiage gli chiese se riconosceva l'animale delle
cui carni si era cibato e lui rispose che lo riconosceva e che per lui
andava bene ogni cosa che il re facesse. Dopo aver così risposto,
raccolse i resti delle carni e se ne tornò a casa. E lì, credo, li
ricompose e seppellì. 120)
E
questa fu la punizione che Astiage inflisse ad Arpago. Nei confronti
di Ciro, rifletté un po' e poi mandò a chiamare gli stessi Magi che
a suo tempo gli avevano interpretato il sogno; quando furono davanti a
lui, Astiage chiese loro di ripetergli la spiegazione della visione,
ed essi ribadirono che il bambino era destinato a regnare se fosse
rimasto in vita e non fosse morto prima. Il re ribatté: "Il
bambino c'è ed è vivo e mentre viveva in campagna i bambini del suo
villaggio lo hanno eletto re: lui si è comportato esattamente come un
vero sovrano: ha creato guardie del corpo, custodi delle porte,
messaggeri e tutto il resto, e ha regnato. E ora tutto questo, secondo
voi, a che cosa porta?" I Magi risposero: "Se il ragazzo è
vivo e ha regnato senza un disegno predisposto, allora per quanto lo
riguarda puoi stare tranquillo e rallegrarti: non regnerà una seconda
volta. Infatti è già successo che alcuni dei nostri vaticinii si
siano risolti in poca cosa e che il contenuto dei sogni abbia perso
ogni sua consistenza". E Astiage concluse: "Anch'io, Magi,
sono quasi del tutto convinto che il sogno si è già realizzato:
questo bambino ha già ricevuto il titolo di re, e dunque non
rappresenta più per me un pericolo. Tuttavia esaminate per bene la
questione e aiutatemi a prendere una decisione che garantisca la
massima sicurezza per la mia casa e per voi stessi". Al che i
Magi risposero: "Sovrano, anche per noi è molto importante che
il potere rimanga ben saldo nelle tue mani, perché se passa a questo
ragazzo, che è Persiano, cade nelle mani di un'altra nazione e noi
che, siamo Medi, diventeremo schiavi e non godremo del minimo
prestigio presso i Persiani, essendo stranieri. Se invece rimani re
tu, che sei nostro concittadino, abbiamo anche noi la nostra parte di
potere e riceviamo da te grandi onori. Perciò è assolutamente nostro
interesse vegliare su di te e sul tuo regno; e ora, se vedessimo
qualche motivo per avere paura, te ne avviseremmo senz'altro. Ma ora,
poiché il sogno si è risolto in una cosa da nulla, da parte nostra
abbiamo fiducia e ti consigliamo di fare altrettanto. Questo ragazzo
mandalo lontano dai tuoi occhi, fra i Persiani, dai suoi
genitori". 121)
Astiage
fu lieto di udire questo consiglio, fece chiamare Ciro e gli disse:
"Ragazzo, io sono stato ingiusto con te a causa di un sogno
risultato vano, e tu sei vivo perché così ha voluto il tuo destino.
Ora sii contento di andare fra i Persiani; io ti farò scortare fino là.
Là troverai un padre e una madre ben diversi da Mitradate, il bovaro,
e da sua moglie". 122)
Così
disse e congedò Ciro. Ad accogliere Ciro di ritorno nella casa di
Cambise c'erano i suoi genitori i quali, quando seppero chi era, lo
salutarono con grande affetto, perché lo credevano morto subito a suo
tempo; e continuavano a chiedergli come fosse riuscito a salvarsi. E
lui raccontò che fino a poco prima era vissuto nell'errore ignorando
ogni cosa e che solo lungo il viaggio era venuto a conoscenza di tutte
le sue vicissitudini; si era sempre creduto figlio di un mandriano di
Astiage, invece, dopo la partenza da Ecbatana, aveva appreso tutta la
verità dai suoi accompagnatori. Raccontò di essere stato allevato
dalla moglie del mandriano e non smetteva di profondersi in lodi nei
suoi confronti: e in tutti i suoi discorsi non parlava che di Cino. I
genitori tennero a mente questo nome e, per dare agli occhi dei
Persiani una coloritura miracolosa alla avvenuta salvezza del
fanciullo, misero in giro la voce che Ciro, esposto, era stato
allevato da una cagna. Di qui ebbe origine questa leggenda. 123)
Poi
Ciro si fece adulto ed era il più coraggioso fra i suoi coetanei e il
più benvoluto. Arpago faceva di tutto per ingraziarselo mandandogli
doni, desideroso com'era di vendicarsi di Astiage: non vedeva come da
solo, essendo un comune cittadino, avrebbe potuto vendicarsi, ma
vedeva Ciro crescere e cercava di farselo alleato, paragonando i gravi
torti da entrambi subiti. Già prima si era dato da fare in questo
senso: sfruttando il comportamento odioso di Astiage nei confronti dei
Medi, Arpago, avvicinando ciascuno dei maggiorenti medi, tentava di
convincerli che occorreva deporre Astiage e offrire il regno a Ciro.
Compiute queste manovre, quando si sentì pronto, Arpago volle esporre
il suo piano a Ciro, il quale però viveva in Persia; le strade erano
sotto controllo e perciò, in mancanza di altre soluzioni, ricorse a
un espediente. Si servì di una lepre alla quale aprì il ventre senza
rovinarne il pelo, ma lasciandolo intatto; nel ventre nascose un
messaggio in cui descriveva il suo piano; ricucì il ventre della
lepre che consegnò, insieme con una rete, come se fosse un
cacciatore, al più fidato dei suoi servitori; lo inviò in Persia con
l'ordine di consegnare la lepre a Ciro personalmente e di invitarlo a
sventrare la bestia di sua mano e quando nessuno fosse presente. 124)
Così
dunque fu fatto e Ciro, avuta la lepre, la squarciò; vi trovò dentro
la lettera, la prese e la lesse. Il contenuto del messaggio suonava
così: "Figlio di Cambise, gli dei ti guardano con favore,
altrimenti non saresti mai giunto a tanta fortuna; e allora vendicati
di Astiage, il tuo assassino: se fosse dipeso dai suoi desideri tu
saresti morto, se sei vivo lo devi agli dei e a me. Credo che tu sia a
conoscenza ormai da un pezzo di quello che hanno fatto a te e di
quello che ho subito io da parte di Astiage, per non averti ucciso ma
consegnato al mandriano. Tu dunque, se mi darai ascolto, potrai
regnare su tutta la terra su cui ora regna Astiage. Convinci i
Persiani a ribellarsi e marcia contro la Media. E se io sarò nominato
da Astiage generale in capo contro di te, tutto ciò che vorrai è già
tuo. E così sarà pure se viene designato un altro dei Medi più
illustri. Essi saranno i primi a ribellarsi ad Astiage e a passare
dalla tua parte e faranno di tutto per abbatterlo. Considera che tutto
qui è pronto e agisci, ma agisci in fretta". 125)
Apprese
queste notizie, Ciro pensò al modo più accorto per convincere i
Persiani alla rivolta e riflettendo trovò il più opportuno e lo mise
in opera: scrisse quanto serviva al suo scopo in una lettera e convocò
una assemblea dei Persiani. Quindi aprì la lettera e scorrendola
dichiarò che Astiage lo nominava capo dei Persiani: "Ora,
Persiani, - disse - vi invito a presentarvi qui ciascuno con una
falce". Proprio questo fu l'ordine di Ciro. Le tribù persiane
sono numerose; Ciro convocò e indusse a ribellarsi ai Medi solo
quelle a cui fanno capo poi tutti i Persiani: Pasargadi, Marafi e
Maspi. Fra questi i più nobili sono i Pasargadi, ai quali appartiene
anche la famiglia degli Achemenidi, da dove provengono i re
discendenti di Perseo. Altri Persiani sono i Pantialei, i Derusiei, i
Germani; si tratta di tribù tutte dedite all'agricoltura, le
rimanenti invece sono nomadi: i Dai, i Mardi, i Dropici, i Sagarti. 126)
Quando
furono tutti presenti con in mano la falce, allora Ciro ordinò loro
di andare a falciare prima di sera un terreno che si trovava lì in
Persia, tutto coperto di sterpi ed esteso per un quadrato di 18 o 20
stadi di lato. I Persiani compirono la fatica ordinata e Ciro diede
loro una seconda disposizione: dovevano presentarsi la mattina
seguente dopo aver fatto il bagno. Nel frattempo Ciro radunò tutte le
greggi di capre e di pecore e tutte le mandrie di suo padre, le fece
macellare e cucinare, pronto ad ospitare la massa di Persiani, e vi
aggiunse vino e cibarie, tra i più squisiti. La mattina dopo Ciro
sistemò su di un prato i Persiani venuti e offrì loro un grande
banchetto. Quando ebbero finito di mangiare Ciro domandò se
preferivano il trattamento attuale o quello del giorno prima. Ed essi
risposero che c'era una gran bella differenza: il giorno prima gli
erano toccati solo guai, al presente invece solo cose belle. Ciro
colse al volo queste parole e, manifestando la sua intenzione, disse:
"Persiani, dipende proprio da voi: se volete darmi ascolto vi
attendono questi e molti altri piaceri e non conoscerete più fatiche
da schiavi; se invece non volete obbedirmi vi attendono innumerevoli
fatiche pari a quella di ieri. Seguite me, dunque, e sarete liberi. Io
credo di essere nato col divino soccorso della sorte per condurre con
le mie mani questa impresa e ritengo che voi siate uomini per nulla
inferiori ai Medi, né in guerra né in nessun altro campo. Questa è
la realtà dei fatti e ora voi ribellatevi contro Astiage al più
presto". 127)
I
Persiani, avendo trovato un capo, furono ben lieti di lottare per la
libertà: già da tempo non tolleravano più di essere comandati dai
Medi. Astiage, come seppe dei preparativi di Ciro, mandò un
messaggero a convocarlo, ma Ciro ordinò al messaggero di riferire ad
Astiage che sarebbe arrivato da lui prima di quando Astiage stesso
avrebbe desiderato. Udita tale risposta, Astiage mise in armi tutti i
Medi e nominò loro comandante Arpago, dimenticando, quasi fosse
accecato da un dio, tutto il male che gli aveva fatto. Quando i Medi
scesero in campo e si scontrarono con i Persiani, alcuni di loro
combatterono, quanti non erano a parte della congiura, altri passarono
dalla parte dei Persiani, i più scelsero la strada della viltà e si
dispersero. 128)
Non
appena Astiage venne a sapere che l'esercito medo si era
vergognosamente dissolto, esclamò con tono di minaccia per Ciro:
"Nonostante tutto Ciro non potrà rallegrarsene!" Disse così
e per prima cosa fece impalare quei Magi interpreti di sogni che gli
avevano consigliato di risparmiare Ciro, poi armò tutti i Medi
rimasti in città, giovani e vecchi. Li guidò fuori delle mura e con
loro attaccò i Persiani, ma fu sconfitto: Astiage stesso fu catturato
e perse i Medi che aveva fatto scendere in campo. 129)
Allora
Arpago piazzatosi di fronte ad Astiage, ormai prigioniero, lo derideva
e lo beffeggiava, con parole che potessero ferirgli il cuore: in
particolare, in cambio del banchetto che gli aveva offerto con le
carni del figlio, gli chiedeva come trovasse la schiavitù dopo essere
stato re. Astiage guardandolo in faccia gli domandò se considerava
opera sua l'impresa di Ciro; al che Arpago rispose che era stato lui a
scrivere a Ciro, e che quindi riteneva a ragione opera sua
quell'impresa. Allora Astiage gli dimostrò a rigor di logica che era
l'uomo più imbecille e più colpevole del mondo: il più imbecille
perché potendo diventare re lui stesso, se tutto davvero era accaduto
grazie a lui, aveva rimesso il potere nelle mani di un altro; e il più
colpevole perché a causa di una cena aveva reso schiavi i Medi: se
proprio doveva affidare a qualcun altro il regno e non tenerlo nelle
proprie mani sarebbe stato più giusto trasmetterlo a un Medo e non a
un Persiano; ora invece i Medi senza averne alcuna colpa da padroni
erano diventati schiavi, mentre i Persiani, che prima erano schiavi
dei Medi, erano diventati ora i loro padroni. 130)
Astiage
dunque fu spodestato dal trono dopo 35 anni di regno e i Medi, a causa
della sua crudeltà, piegarono il capo davanti ai Persiani; essi
avevano mantenuto per 128 anni la sovranità sui territori asiatici
dell'alto corso dell'Alis meno il periodo del predominio scita. Molto
più tardi si pentirono del loro antico comportamento e insorsero
contro Dario; ma dopo essersi ribellati, conobbero la sconfitta sul
campo e vennero nuovamente assoggettati. I Persiani e Ciro,
sollevatisi contro i Medi al tempo di Astiage, furono da allora i
padroni dell'Asia. Ciro non si accanì ulteriormente contro Astiage e
lo tenne presso di sé fino a quando morì. Così Ciro nacque e fu
allevato e così ottenne il regno: in seguito, come ho già
raccontato, sottomise Creso, che aveva dato lui l'avvio alle
ingiustizie; e quando lo ebbe sottomesso estese la propria egemonia su
tutta l'Asia. 131)
Io
so per averlo constatato di persona che presso i Persiani sono in
vigore le seguenti usanze: non è loro consuetudine erigere statue
degli dei o templi o altari e anzi accusano di stoltezza quanti lo
fanno; a mio parere ciò si spiega perché non hanno mai pensato, come
i Greci, che gli dei abbiano figura umana. Essi di solito offrono
sacrifici a Zeus salendo sulle montagne più alte; e chiamano Zeus
l'intera volta del cielo. Sacrificano al sole, alla luna, alla terra,
al fuoco, all'acqua e ai venti. Queste sono le sole divinità cui
dedicano offerte fin dalle origini; più tardi hanno appreso dagli
Assiri e dagli Arabi a compiere sacrifici anche a Urania. Gli Assiri
chiamano questa dea Afrodite Militta, gli Arabi la chiamano Alilàt e
i Persiani Mitra. 132)
Ed
ecco come si svolge presso i Persiani il rito di sacrificio agli dei
or ora ricordati: quando devono fare la loro offerta non costruiscono
altari e non accendono il fuoco; non praticano la libagione, non usano
flauti, né bende sacre né grani d'orzo salati. Chi voglia compiere
sacrifici a uno di quegli dei conduce la vittima in un luogo puro, si
lega intorno alla tiara una coroncina, di mirto per lo più, e invoca
il dio. Non è lecito pregando chiedere vantaggi per sé
personalmente: chi invoca del bene lo fa per tutti i Persiani e per il
re; lui stesso ovviamente risulta compreso fra tutti i Persiani.
Quando poi ha tagliato a pezzetti le carni della vittima e le ha
bollite, le depone tutte su un tappeto d'erba la più tenera possibile
(per lo più trifoglio) da lui precedentemente preparato; dopo che le
ha ben sistemate, un Mago lì presente canta una teogonia, come essi
stessi definiscono la formula dell'invocazione; si noti che essi non
compiono mai un sacrificio se non è presente un Mago. Il sacrificante
si trattiene un po' di tempo: quindi si riporta via le carni che usa
poi come meglio gli aggrada. 133)
Fra
tutti i giorni dell'anno è loro costume onorare particolarmente
quello del compleanno: in questa circostanza ritengono giusto mangiare
con più abbondanza che negli altri giorni: i più benestanti si fanno
servire un vitello, un cavallo, un cammello e un asino cotti al forno
tutti interi: i poveri, invece, si cucinano animali domestici di
taglia minore. In generale non hanno molti piatti principali, ma usano
molto i contorni, distribuiti per tutto il pasto; per questo i
Persiani dicono che i Greci hanno ancora appetito quando smettono di
mangiare, perché non si fanno servire dopo il pranzo nessuna
leccornia: altrimenti, aggiungono, non smetterebbero di mangiare. Per
il vino i Persiani hanno una vera passione. A loro è vietato vomitare
e orinare di fronte ad altri; e rispettano accuratamente questa norma,
ma hanno l'abitudine di discutere le questioni più serie in stato di
ubriachezza; le decisioni eventualmente prese vengono riproposte il
giorno seguente, da sobri, dal padrone della casa in cui si trovano a
discutere: se le approvano anche da sobri le confermano altrimenti le
lasciano cadere. Se la prima decisione avviene quando sono lucidi, la
ridiscutono da ubriachi. 134)
Quando
due Persiani si incontrano per strada allora si può stabilire se sono
di pari condizione: infatti in questo caso invece di salutarsi, si
baciano sulla bocca; se però uno dei due è di condizione appena
inferiore, si baciano sulle guance; se il divario di rango è notevole
allora l'inferiore si getta ai piedi dell'altro e si prosterna. Dopo
se stessi, fra tutti stimano in primo luogo i popoli insediati più
vicini a loro, poi quelli subito oltre e così via, proporzionando la
stima alla distanza: si considerano da ogni punto di vista gli uomini
migliori, mentre gli altri, pensano, si attengono alla virtù in
misura inversamente proporzionale: e perciò quelli che abitano più
lontano da loro sarebbero i peggiori. All'epoca della sovranità dei
Medi esisteva un criterio gerarchico fra le varie popolazioni: i Medi
dominavano su tutti i popoli e in particolare sui più vicini; questi
a loro volta sui propri confinanti e così via; è lo stesso criterio
in base al quale i Persiani attribuiscono la loro stima: ogni
popolazione prevaleva sull'altra dominandola ed esercitando su di essa
un diritto di tutela. 135)
Quello
persiano è il popolo più di ogni altro disposto ad accogliere usanze
straniere: tanto è vero che indossano vestiti medi, trovandoli più
belli dei propri, e in guerra portano corazze egiziane. Quando vengono
a sapere di qualche usanza piacevole, da qualunque parte provenga,
subito la adottano: per esempio hanno imparato dai Greci a praticare
l'amore con gli adolescenti. Ogni Persiano può sposare legalmente
molte donne e ancora più numerose sono le concubine che si procura. 136)
Dimostra
una autentica virtù virile chi, oltre ad essere un buon combattente,
mette al mondo molti figli. Annualmente il re invia un premio a chi ne
ha messi al mondo di più; si ritiene che il numero sia forza. Ai loro
bambini, da quando hanno cinque anni fino ai venti, insegnano tre sole
cose: cavalcare, tirare con l'arco e dire la verità. Prima dei cinque
anni il bambino non si presenta mai al cospetto del padre ma vive
assieme alle donne. Fanno questo perché, se il bambino muore nel
periodo dell'allevamento, il padre non ne debba soffrire. 137)
Io
approvo questa usanza e ne approvo anche un'altra: per una sola colpa
neppure il re può mettere a morte qualcuno; e nessun altro Persiano
può recare un danno irreparabile a uno dei suoi schiavi per una sola
colpa; solo quando si è ben riflettuto e si è stabilito che i torti
sono più numerosi e più rilevanti dei servigi, allora si lascia
libero campo alla collera. Sostengono che nessuno ancora ha ucciso il
proprio padre o la propria madre: esaminando tutti i casi di questo
tipo già verificatisi, si giungerebbe inevitabilmente a concludere
che gli assassini erano figli supposti o adulterini; essi ritengono
inverosimile che un autentico genitore possa morire per mano del
proprio figlio. 138)
Presso
i Persiani delle cose che non è lecito fare non è lecito neppure
parlare. La cosa più vergognosa è considerata la menzogna;
secondariamente avere debiti, e ciò per molte e svariate ragioni ma
soprattutto perché chi ha un debito, dicono, necessariamente si
troverà anche a mentire. Il cittadino colpito dalla lebbra o dal
morbo bianco si tiene lontano dalla città ed evita il contatto con
gli altri Persiani. Secondo loro soffre di queste malattie chi ha
commesso una colpa nei confronti del Sole. Scacciano dal paese ogni
straniero affetto da tali piaghe e molti pure le colombe bianche,
adducendo la medesima ragione. Evitano di orinare e di sputare in un
fiume e neppure vi si sciacquano le mani o permettono che un altro lo
faccia; per i fiumi hanno un enorme rispetto religioso. 139)
Ed
ecco un'altra particolarità, sfuggita agli stessi Persiani ma non a
noi: i loro nomi, che sono adeguati alle qualità fisiche e a una idea
di magnificenza, finiscono tutti con la stessa lettera, quella
chiamata "san" dai Dori e "sigma" dagli Ioni. Se
si indaga in questo senso, si trova che i nomi dei Persiani terminano
tutti nella stessa maniera, senza eccezioni. 140)
Tutte
queste notizie posso fornirle con assoluta sicurezza, perché mi
derivano da personale esperienza. Invece quanto si dice circa il
trattamento dei cadaveri è avvolto in un alone di mistero e non è
certo: pare che il cadavere di un Persiano non venga seppellito prima
di essere stato straziato da un cane o da un uccello; so con certezza
che almeno i Magi si comportano così, perché lo fanno apertamente.
Comunque i Persiani cospargono di cera il cadavere e lo inumano. I
Magi sono molto diversi dagli altri uomini e in particolare dai
sacerdoti egiziani; questi infatti ritengono empietà uccidere degli
esseri viventi, tranne quelli destinati al sacrificio rituale, invece
i Magi uccidono con le loro mani qualsiasi animale tranne il cane e
l'uomo e lo fanno con grande impegno eliminando indistintamente
formiche e serpenti e altri animali terrestri o volatili. Ma lasciamo
pure questa usanza come stava quando ebbe origine e riprendiamo il
filo del nostro racconto. 141)
Gli
Ioni e gli Eoli, non appena i Lidi furono sottomessi dai Persiani,
mandarono a Sardi dei messaggeri, presso Ciro: desideravano essere
sudditi di Ciro alle stesse condizioni di cui godevano sotto Creso.
Ciro ascoltò le loro proposte; poi cominciò a raccontare un
aneddoto: narrò di un suonatore di flauto che aveva visto in mare dei
pesci e che suonava il suo flauto convinto di attirarli verso la terra
ferma: deluso nelle sue speranze prese una rete, la lanciò, trascinò
a riva una grande quantità di pesci; e guardandoli guizzare disse
loro: "Smettetela di danzare: quando io suonavo il flauto non
siete mica voluti uscir fuori a ballare!" Ciro raccontò questo
aneddoto agli Ioni e agli Eoli perché gli Ioni, tempo prima, invitati
da Ciro a ribellarsi contro Creso, non lo avevano ascoltato, mentre
allora, a cose fatte, erano pronti a seguirlo. Chiaramente Ciro
rispose in questo modo perché serbava rancore. Quando gli Ioni
udirono la risposta riferita nelle varie città, tutti fortificarono
le proprie mura e si riunirono a Panionio; tutti tranne i Milesi, i
soli con cui Ciro aveva stipulato un accordo alle stesse condizioni di
Creso. Gli altri decisero di comune accordo di mandare messaggeri a
Sparta con una richiesta di soccorso. 142)
Questi
Ioni, quelli a cui appartiene il Panionio, di tutti gli uomini a
nostra conoscenza sono quelli che hanno edificato le loro città nei
luoghi migliori del mondo per bellezza di cielo e condizioni
climatiche; a nord e a sud della Ionia , come a oriente e a occidente,
la situazione è assai differente: più a nord c'è la morsa del
freddo e della pioggia, più a sud del caldo e della siccità. Questi
Ioni non parlano la stessa lingua, bensì quattro varietà di
dialetto. Mileto è la città più meridionale, poi vengono Miunte e
Priene: tutte si trovano nella Caria e adoperano lo stesso dialetto.
In Lidia si trovano Efeso, Colofone, Lebedo, Teo, Clazomene e Focea,
che non si servono dello stesso dialetto delle città sopra nominate,
ma che usano fra loro la stessa parlata. Restano ancora tre città
ioniche, di cui due situate su isole, Samo e Chio, e la terza, Eritre,
sul continente. A Chio e a Eritre parlano lo stesso dialetto, i Sami
invece ne usano uno proprio. Ed ecco quindi i quattro diversi
caratteri linguistici. 143)
Fra
gli Ioni i Milesi non avevano motivo di preoccupazione grazie
all'accordo stipulato con Ciro e quelli delle isole stavano tranquilli
perché i Fenici non erano sudditi dei Persiani e perché i Persiani
non erano marinai. Gli Ioni d'Asia si separarono dagli altri Ioni per
una semplice ragione; se già tutta la gente greca era in una
condizione di debolezza, gli Ioni costituivano, fra tutti, il gruppo
più debole e il meno importante: e infatti, se si esclude Atene, non
c'era nessuna città degna di nota. Perciò gli altri di quel ceppo e
gli Ateniesi non gradivano l'appellativo di Ioni e cercavano di
evitarlo; e mi pare che ancora adesso molti di loro si vergognino di
tale denominazione. Invece queste dodici città ne erano orgogliose e
si costruirono un santuario riservato a loro che chiamarono Pan-Ionio;
e decisero di non consentire l'accesso al tempio a nessuna altra gente
ionica (del resto mai nessuno chiese di accedervi, ad eccezione degli
abitanti di Smirne). 144)
Allo
stesso modo i Dori dell'attuale territorio della Pentapoli, lo stesso
che una volta si chiamava Esapoli, si guardano bene dall'accettare nel
loro santuario Triopico gli altri Dori confinanti, anzi da sempre
escludono da ogni partecipazione al tempio anche quelli di loro che ne
abbiano violato le regole. Ai giochi in onore di Apollo Triopio
avevano posto anticamente come premio per i vincitori dei tripodi di
bronzo, che però non potevano essere portati via da chi se li fosse
guadagnati, ma dovevano essere dedicati al dio, lì sul posto. Una
volta accadde che un uomo di Alicarnasso, di nome Agasicle, dopo aver
vinto non rispettò la norma: si portò via il tripode e lo fissò al
muro di casa sua. Per questa ragione le cinque città, cioè Lindo,
Ialiso, Camiro, Cos, e Cnido, vietarono l'accesso al tempio a tutti
gli abitanti di Alicarnasso, sesta città dell'Esapoli. Tale fu il
castigo che imposero loro. 145)
A
mio parere gli Ioni formarono dodici città e non vollero aggiungerne
altre perché anche prima, quando vivevano nel Peloponneso, erano
divisi in dodici regioni, esattamente come adesso il territorio degli
Achei, che a suo tempo scacciarono gli Ioni, è suddiviso in dodici
parti: Pellene è la prima, a partire da Sicione, poi Egira ed Ege, in
cui scorre il Crati, dal flusso perenne e dal quale ha preso nome
l'omonimo fiume italiano, poi Bura ed Elice, in cui ripararono gli
Ioni sconfitti in battaglia dagli Achei; poi ancora Egio, Ripe, Patre,
Fare, Oleno, in cui scorre il grande fiume Piro, nonché Dime e Tritea,
l'unica città situata nell'interno. Questi sono i dodici distretti
degli Achei, che una volta appartenevano agli Ioni. 146)
Ed
ecco perché anche gli Ioni d'Asia costruirono dodici città: è una
grande sciocchezza definire costoro più Ioni degli altri Ioni o di
nascita più elevata: una parte non piccola di loro sono Abanti,
provenienti dall'Eubea, che non hanno niente a che vedere con gli
Ioni, neppure per il nome; e inoltre a loro si sono mescolati dei Mini
di Orcomeno, dei Cadmei, dei Driopi, dei Focesi dissidenti; e Molossi,
Pelasgi d'Arcadia, Dori di Epidauro e molte altre popolazioni. Quelli
partiti dal Pritaneo di Atene, che ritenevano di essere i più nobili
fra gli Ioni, non portarono con sé le donne nella nuova colonia, ma
si procurarono mogli in Caria, uccidendone i padri. A causa di questo
delitto tali donne si imposero come regola con tanto di giuramento, e
la trasmisero alle figlie, di non mangiare mai in compagnia dei mariti
e di non chiamarli mai per nome; e ciò perché avevano ucciso i loro
padri e mariti e figli e, dopo, se le erano sposate. Questo è quanto
avvenne a Mileto. 147)
Come
re una parte degli Ioni d'Asia si scelse i Lici discendenti di Glauco
figlio di Ippoloco, una parte i Cauconi di Pilo discendenti di Codro
figlio di Melanto, e altri si scelsero re di entrambe le stirpi. E
visto che sono tanto affezionati al loro nome, più di tutti gli altri
Ioni, consideriamoli dunque gli Ioni puri. In realtà sono Ioni tutti
quelli che vengono da Atene e che celebrano la festa delle Apaturie;
la celebrano tutti tranne gli abitanti di Efeso e di Colofone, gli
unici a non celebrarla col pretesto di un omicidio. 148)
Il
Panionio è un luogo sacro di Micale, rivolto verso nord e dedicato
per comune accordo dagli Ioni a Posidone Eliconio. Micale è un
promontorio del continente che si stende verso occidente in direzione
dell'isola di Samo, sul quale gli Ioni delle varie città si
radunavano per celebrare la loro festa, chiamata Panionie. Non solo le
feste degli Ioni, ma proprio tutte le feste della Grecia intera hanno
un nome terminante con la medesima lettera, come succede per i nomi
dei Persiani. 149)
Queste
sono le città ioniche; le eoliche sono Cuma, detta anche Friconide,
Larissa, Neontichos, Temno, Cilla, Nozio, Egiroessa, Pitane, Egee,
Mirina, Grinia: ecco le undici antiche città eoliche; un'altra loro
città, Smirne, fu staccata ad opera degli Ioni; infatti erano dodici
anche gli insediamenti eolici sul continente. Gli Eoli si trovarono a
colonizzare una regione ancora più fertile di quella degli Ioni, ma
che quanto a clima non regge il paragone. 150)
Gli
Eoli persero Smirne così. Avevano accolto a Smirne dei cittadini di
Colofone sconfitti in una lotta intestina e perciò messi al bando
dalla patria. Più tardi i profughi di Colofone aspettarono che gli
abitanti di Smirne celebrassero fuori delle mura una festa in onore di
Dioniso e, chiudendone le porte, si impadronirono della città. Poiché
tutti gli Eoli erano accorsi a difendere gli interessi degli abitanti
di Smirne, vennero a un accordo: gli Eoli avrebbero abbandonato la
città se gli Ioni avessero restituito almeno le loro masserizie. Così
fu fatto: le altre undici città si divisero gli ex abitanti di
Smirne, conferendo loro la piena cittadinanza. 151)
Queste
insomma sono le città eoliche continentali, eccetto quelle situate
sull'Ida, che vanno considerate a parte. Di quante si trovano nelle
isole cinque si dividono il territorio di Lesbo (la sesta città
abitata di Lesbo, Arisba, la ridussero in schiavitù i Metimni, benché
fossero del medesimo sangue); a Tenedo vi è una sola città, una sola
anche nelle cosiddette Cento Isole. Gli abitanti di Lesbo e di Tenedo
non avevano nulla da temere, esattamente come le popolazioni ioniche
delle isole. Alle altre città eoliche piacque di seguire la sorte
degli Ioni, dovunque questi le avessero condotte. 152)
I
messi degli Ioni e degli Eoli quando giunsero a Sparta (tutto fu fatto
in gran fretta) scelsero a parlare per tutti il rappresentante di
Focea, il cui nome era Pitermo. Costui indossò una veste di porpora
affinché gli Spartiati, informati del particolare, accorressero in
numero maggiore; davanti a loro parlò a lungo, chiedendo aiuto per
gli Ioni. Ma gli Spartani non gli diedero retta e decisero di non
inviare soccorsi agli Ioni. I messaggeri degli Ioni si ritirarono. Gli
Spartani, dopo averli allontanati, inviarono tuttavia degli uomini, su
di una pentecontere, immagino come osservatori delle vicende di Ciro e
della Ionia. Arrivati a Focea, da lì questi uomini inviarono a Sardi
il più stimato di loro, che si chiamava Lacrine, perché riferisse a
Ciro un messaggio degli Spartani: Ciro non doveva toccare nessuna città
della Grecia, perché essi non l'avrebbero tollerato. 153)
Si
dice che quando l'araldo ebbe riferito il suo messaggio Ciro chiese ai
Greci che erano presenti che uomini fossero e quanti questi Spartani
per mandargli un simile avvertimento; ottenuta risposta, si rivolse
all'ambasciatore degli Spartiati: "Io non ho mai avuto paura di
gente che nella propria città, al centro, ha riservato uno spazio, in
cui riunirsi per ingannarsi a vicenda con dei giuramenti. Questa
gente, se resto vivo e in buona salute, non avrà da ciarlare delle
disgrazie degli Ioni, ma delle proprie". Ciro pronunciò queste
parole sprezzanti nei confronti di tutti i Greci perché essi compiono
i loro acquisti e le loro vendite sulla piazza principale adibita a
mercato; invece i Persiani non hanno l'abitudine di servirsi di piazze
per il mercato, anzi non hanno mercati del tutto. In seguito Ciro
affidò Sardi al Persiano Tabalo, e al Lido Pattia il compito di
trasportare l'oro di Creso e dei Lidi; poi partì alla volta di
Ecbatana, portando con sé Creso e quasi senza più tener conto,
inizialmente, dell'esistenza degli Ioni. Aveva problemi con Babilonia,
i Battri, i Saci e gli Egiziani: contro costoro decise di guidare
personalmente l'esercito, contro gli Ioni invece di inviare un altro
generale. 154)
Appena
Ciro si fu allontanato da Sardi, Pattia sollevò i Lidi contro Tabalo
e contro di lui: scese verso il mare e, visto che disponeva di tutto
l'oro di Sardi, assoldò mercenari e convinse le popolazioni della
costa a schierarsi con lui. Poi mosse il suo esercito contro Sardi e
strinse d'assedio Tabalo che si asserragliò sull'acropoli. 155)
Ciro
apprese questi fatti mentre era in viaggio e disse a Creso:
"Creso, come andranno a finire tutte queste faccende? I Lidi a
quanto pare non smetteranno di procurarmi e di procurarsi dei
problemi. Mi chiedo se non sarebbe molto meglio ridurli
definitivamente in schiavitù: io ho l'impressione di essermi
comportato come uno che abbia ucciso il padre e risparmiato i figli.
Perché ho catturato e mi porto via te, che sei più che un padre per
i Lidi, e la città l'ho rimessa nelle loro stesse mani; e poi mi
meraviglio se mi si ribellano". Ciro diceva quanto pensava e
Creso, temendo che volesse distruggere Sardi, gli rispose: "Sire,
il tuo discorso è logico, però non abbandonarti assolutamente
all'ira, non distruggere una antica città che non ha alcuna colpa
delle vicende passate e presenti; tutto quanto è accaduto in passato
fu opera mia e con la mia persona ne sconto la pena. Ciò che accade
ora è colpa di Pattia, a cui tu hai affidato Sardi, e sia lui,
allora, a pagarne le conseguenze. Perdona i Lidi e fai in modo che non
possano più ribellarsi e costituire un pericolo per te. Mandagli
l'ordine di non tenere armi da guerra, imponigli di indossare tuniche
sotto le vesti normali e di calzare coturni; invitali a insegnare ai
loro figli a suonare la cetra e gli altri strumenti musicali e a fare
i mercanti. In questo modo, Signore, tu li vedrai presto trasformati
da uomini in donne e non dovrai più temere una loro ribellione". 156)
Creso
suggeriva queste misure perché le trovava per i Lidi preferibili al
rischio di essere venduti come schiavi; sapeva bene che senza proporre
un valido rimedio non avrebbe dissuaso Ciro dalla sua idea; e aveva
paura che i Lidi, quand'anche l'avessero scampata per il momento,
prima o poi segnassero la propria condanna ribellandosi ai Persiani.
Ciro soddisfatto dei suggerimenti lasciò cadere la sua ira e disse a
Creso che lo aveva convinto. Convocò il Medo Mazare e lo incaricò di
ordinare ai Lidi quanto gli aveva indicato Creso: e in più gli
ingiunse di ridurre in schiavitù quanti altri avevano marciato su
Sardi con i Lidi e di condurre davanti a lui Pattia, a ogni costo, e
vivo. 157)
Ciro
diede queste disposizioni mentre era in viaggio; quindi ripartì verso
le sedi persiane; Pattia, informato che non lontano c'era un esercito
in marcia contro di lui, atterrito, corse a rifugiarsi a Cuma. Mazare
il Medo spinse contro Sardi tutta la parte dell'esercito di Ciro di
cui disponeva e, non trovandovi più gli uomini di Pattia, per prima
cosa costrinse i Lidi a eseguire gli ordini di Ciro; e fu proprio in
seguito a queste imposizioni che i Lidi cambiarono completamente il
loro sistema di vita. Poi Mazare inviò messaggeri a Cuma con l'ordine
di consegnare Pattia; i cittadini di Cuma stabilirono di rimettersi,
per consiglio, al dio dei Branchidi; là esisteva da lungo tempo un
oracolo al quale tutti gli Ioni e gli Eoli erano soliti ricorrere:
questo luogo si trova nel territorio di Mileto sopra il porto di
Panormo. 158)
Gli
abitanti di Cuma mandarono i loro incaricati presso i Branchidi e
chiesero come avrebbero dovuto regolarsi nei confronti di Pattia per
fare cosa gradita agli dei; questo chiedevano, e il responso fu di
consegnare Pattia ai Persiani. Quando la risposta del dio fu riferita
ai Cumani, essi si apprestarono alla estradizione. Già il popolo si
era deciso in tal senso, quando uno dei più ragguardevoli cittadini,
Aristodico figlio di Eraclide, non credendo al responso e convinto che
gli incaricati non dicessero la verità, trattenne i Cumani dal farlo
fino a quando altri messi, tra cui lo stesso Aristodico, non fossero
andati una seconda volta a consultare il dio sulla sorte di Pattia. 159)
Quando
poi questa delegazione giunse presso i Branchidi, fu Aristodico fra
tutti a interrogare l'oracolo, dicendo: "Signore, presso di noi
venne il lido Pattia, come supplice, fuggendo la morte violenta che
gli riservavano i Persiani; ora essi lo reclamano ordinando ai Cumani
di consegnarlo. E noi, pur temendo la potenza persiana, non abbiamo
osato consegnarlo fino a quando non fosse fermamente chiaro il tuo
responso su ciò che dobbiamo fare". Questa fu la sua domanda; e
il dio diede nuovamente la stessa risposta, esortandoli a consegnare
Pattia ai Persiani. Di fronte a queste parole Aristodico agì come
aveva premeditato: girando intorno al tempio, scacciò i passeri e
tutte le altre specie di uccelli che vi avevano nidificato. E mentre
lui faceva così dai penetrali del tempio, si dice, si levò una voce
all'indirizzo di Aristodico: "Come osi fare questo, - diceva -
maledetto sacrilego? Scacci i miei supplici dal mio tempio?"
Aristodico, per nulla turbato, rispose: "Signore, e così tu
assicuri il tuo aiuto ai supplici tuoi, e poi ordini ai Cumani di
consegnare il loro?" E l'oracolo ribatté: "Sì lo ordino,
perché voi, comportandovi da empi, possiate andare in rovina più
presto: così non verrete più qui in futuro a chiedere all'oracolo se
sia il caso di consegnare dei supplici". 160)
Questa
risposta fu riportata ai Cumani; quando la conobbero, essi decisero
di mandare Pattia a Mitilene, non volendo né riconsegnarlo, e quindi
rovinarsi, né tenerlo presso di loro, e quindi subire un assedio.
Mazare mandò dei messaggi agli abitanti di Mitilene, i quali si
dichiararono pronti a consegnare Pattia in cambio di un adeguato
riscatto; non so precisarne con esattezza l'entità, perché poi la
cosa andò in fumo. Infatti, appena i Cumani appresero le intenzioni
dei Mitilenesi, mandarono subito una imbarcazione a Lesbo e
trasferirono Pattia a Chio. Là a consegnarlo furono gli abitanti
dell'isola che lo strapparono via dal tempio di Atena protettrice
della città: ottennero in compenso il territorio di Atarneo, che si
trova nella Misia, di fronte a Lesbo. I Persiani, dopo aver ricevuto
Pattia, lo tenevano sotto sorveglianza con il proposito di consegnarlo
a Ciro. Per un periodo di tempo non breve nessun cittadino di Chio
offrì ad alcun dio grani d'orzo di Atarneo né preparò focacce col
frumento proveniente da là: tutti i prodotti di quella regione erano
esclusi da qualsiasi sacro rito. 161)
E
così i Chii consegnarono Pattia; Mazare più tardi marciò contro le
popolazioni che avevano partecipato all'assedio di Tabalo: ridusse in
schiavitù la cittadinanza di Priene e percorse l'intera pianura del
Meandro abbandonandola ai saccheggi del suo esercito, e lo stesso fece
con Magnesia. Subito dopo cadde ammalato e morì. 162)
Gli
succedette alla guida dell'esercito Arpago, anche lui Medo, quello
stesso Arpago che il re dei Medi Astiage aveva invitato all'orribile
banchetto e che poi aveva aiutato Ciro a impadronirsi del regno.
Costui, nominato da Ciro comandante dell'esercito, quando arrivò
nella Ionia, cominciò a espugnare le città servendosi di terrapieni:
ogni volta, infatti, costringeva i nemici dentro le loro mura, faceva
ammassare enormi quantitativi di terra contro gli spalti e poi li
assaltava. 163)
La
prima città della Ionia di cui si impadronì fu Focea. Questi Focei
furono i primi Greci a compiere lunghe navigazioni: furono loro a
scoprire l'Adriatico, la Tirrenia, l'Iberia e la regione di Tartesso:
non navigavano con grandi navi da carico ma con delle penteconteri.
Giunti a Tartesso strinsero amicizia con il re locale, che si chiamava
Argantonio e che fu signore di Tartesso per ottanta anni, vivendo in
tutto per 120 anni. I Focesi divennero così amici suoi che egli li
invitò prima ad abbandonare la Ionia e a stabilirsi nel suo paese,
ovunque volessero; in seguito, non essendo riuscito a convincerli e
avendo saputo com'era cresciuta la potenza dei Medi, regalò denaro ai
Focesi perché potessero munire di fortificazioni la loro città; e il
regalo fu molto generoso, tanto è vero che il perimetro delle mura di
Focea si sviluppa per non pochi stadi; ed esse sono tutte costituite
da grandi blocchi di pietra ben connessi tra loro. 164)
Fu
così che i Focei costruirono le loro mura; Arpago fece avanzare il
suo esercito e pose l'assedio; ma gli sarebbe bastato, proclamò, che
i Focei abbattessero anche uno soltanto dei bastioni del muro e
consacrassero anche una sola casa. I Focei, non tollerando la schiavitù,
dissero che volevano discutere tra loro per un giorno; poi avrebbero
dato la risposta; per l'intanto invitarono Arpago a ritirare
l'esercito da sotto le mura per il periodo di tempo in cui
deliberavano. Arpago rispose di sapere bene quanto stavano per fare:
tuttavia avrebbe permesso loro di consultarsi. E dunque mentre Arpago
portava il suo esercito lontano dalle mura, i Focesi misero in mare
delle penteconteri, vi imbarcarono le donne, i bambini e tutte le loro
masserizie e vi aggiunsero le statue e le offerte votive che poterono
trarre dai templi: a eccezione degli oggetti in bronzo e in pietra e
dei dipinti caricarono tutto il resto, si imbarcarono sulle navi e
fecero rotta alla volta di Chio. I Persiani occuparono una Focea
completamente deserta. 165)
I
Focei pensavano di acquistare le isole chiamate Enusse ma i Chii non
gliele vollero vendere per paura che diventassero un emporio e che la
loro isola venisse tagliata fuori dai commerci; di conseguenza si
diressero a Cirno. Nell'isola di Cirno venti anni prima in base ad un
oracolo avevano fondato una città chiamata Alalia. A quell'epoca
ormai Argantonio era morto. Nel dirigersi verso Cirno, in un primo
momento, fecero una puntata fino a Focea dove uccisero la guarnigione
persiana a cui Arpago aveva affidato il presidio della città; poi,
compiuta questa impresa, pronunciarono durissime maledizioni contro
chi di loro avesse abbandonato la spedizione. Inoltre gettarono in
mare un blocco rovente di ferro e giurarono che non avrebbero fatto
ritorno a Focea prima che questo blocco di ferro fosse riemerso a
galla. Ma mentre puntavano su Cirno più di metà di loro fu presa
dalla nostalgia e dal rimpianto della città e delle abitudini del
loro paese; e così violarono i giuramenti e tornarono indietro
voltando la prua verso Focea. Quelli che rispettarono il giuramento
proseguirono il viaggio prendendo il largo dalle isole Enusse. 166)
Giunti
a Cirno, per cinque anni coabitarono con le genti che vi erano
arrivate prima di loro e vi edificarono dei templi. Ma visto che
derubavano e depredavano tutte le popolazioni limitrofe, Tirreni e
Cartaginesi di comune accordo mossero contro di loro, entrambi con una
flotta di sessanta navi. Anche i Focesi equipaggiarono delle
imbarcazioni, in numero di sessanta, e affrontarono la flotta
avversaria nelle acque del mare chiamato di Sardegna. Si scontrarono
in una battaglia navale e ai Focesi toccò una vittoria cadmea;
infatti delle loro navi quaranta furono affondate e le restanti venti
risultarono inutilizzabili, avendo i rostri torti all'indietro. Allora
navigarono fino ad Alalia, imbarcarono le donne, i bambini e tutto ciò
che le navi potevano trasportare e abbandonarono Cirno dirigendosi
verso Reggio. 167)
I
Cartaginesi e i Tirreni si spartirono gli uomini delle navi affondate:
gli abitanti di Agilla, ai quali toccò il gruppo più numeroso, li
condussero fuori città e li lapidarono. Più tardi ad Agilla ogni
essere che passava accanto al luogo in cui giacevano i Focei lapidati
diventava deforme, storpio o paralitico, fossero pecore o bestie da
soma o uomini, senza distinzione. Allora gli Agillei, desiderosi di
rimediare alla propria colpa, si rivolsero all'oracolo di Delfi. E la
Pizia impose loro un obbligo che adempiono ancora oggi: infatti
offrono imponenti sacrifici e bandiscono giochi ginnici ed equestri in
onore dei morti. Ed ecco cosa toccò a questi Focei; quelli invece
fuggiti verso Reggio, muovendo di là si impadronirono di una città
nella terra di Enotria, città oggi chiamata Iela; essi la
colonizzarono dopo aver appreso da un uomo di Posidonia che la Pizia
ordinando loro di "edificare a Cirno" non intendeva
riferirsi all'isola, bensì all'eroe. 168)
Così
dunque andarono le cose riguardo la città ionica di Focea. Vicende
molto simili toccarono anche agli abitanti di Teo. Infatti, quando
Arpago espugnò le mura di Teo col sistema del terrapieno, si
imbarcarono tutti sulle loro navi e si allontanarono facendo rotta
verso la Tracia; qui colonizzarono la città di Abdera. Prima di loro
Abdera era stata colonizzata da Timesio di Clazomene, ma senza trarne
vantaggi perché i Traci lo avevano cacciato: ora è onorato come eroe
dai cittadini di Teo stanziatisi ad Abdera. 169)
Focei
e Tei furono i soli fra gli Ioni ad abbandonare la loro patria non
potendo tollerare la schiavitù; gli altri Ioni, eccetto gli abitanti
di Mileto, combatterono contro Arpago, come gli Ioni poi emigrati, e
dimostrarono il loro valore battendosi ciascuno per la propria patria;
ma, sconfitti e catturati, restarono ciascuno nel proprio paese
obbedendo agli ordini che ricevevano. Invece i Milesi, come ho già
ricordato, avevano stretto un patto giurato con Ciro e vissero in
pace. Così, per la seconda volta, la Ionia fu asservita. Non appena
Arpago si fu impadronito della Ionia continentale, gli Ioni delle
isole, terrorizzati da quegli avvenimenti, si consegnarono nelle mani
di Ciro. 170)
Nonostante
le loro avversità gli Ioni si radunavano ugualmente al Panionio e io
so che una volta Biante di Priene espose a tutti un vantaggiosissimo
progetto, che avrebbe consentito loro, se lo avessero seguito, di
raggiungere il più alto grado di benessere fra i Greci: li esortava a
salpare, tutti uniti in un'unica flotta, via dalla Ionia, a
raggiungere la Sardegna e a fondarvi un'unica città di tutti gli
Ioni; in questo modo, liberati dalla schiavitù, avrebbero vissuto
felicemente, insediati nella più grande di tutte le isole e dominando
su altre popolazioni. Invece, se fossero rimasti nella Ionia, non
vedeva più - diceva - speranza di libertà. Questa fu l'idea di
Biante di Priene anche se esposta agli Ioni ormai dopo la loro
disfatta. Ma prima della disfatta, sarebbe risultata utile anche
l'idea di Talete di Mileto, la cui famiglia era di antica origine
fenicia: aveva suggerito di istituire un Consiglio della Ionia, di
dargli sede a Teo (visto che Teo si trova nel centro della Ionia), e
che le altre città, pur restando abitate, venissero considerate alla
stregua di demi. Tali progetti Biante e Talete esposero agli Ioni. 171)
Arpago
dopo aver sottomesso la Ionia compì una spedizione contro la Caria,
la Caunia e la Licia, conducendo con sé anche Ioni ed Eoli. Di questi
popoli i Cari erano giunti in continente provenienti dalle isole:
anticamente erano stati sudditi di Minosse e col nome di Lelegi
avevano abitato le isole: non erano costretti a pagare alcun tributo,
per quanto indietro nel tempo io possa risalire con le mie
informazioni; però, ogni volta che Minosse lo richiedeva, gli
fornivano gli equipaggi per le navi. E dal momento che Minosse aveva
sottomesso una regione assai ampia e aveva fortuna in guerra, il
popolo dei Cari era quello tenuto, allora, in maggior prestigio fra
tutti. Ai Cari vanno attribuite tre invenzioni di cui poi si servirono
i Greci: per primi insegnarono a fissare dei pennacchi sugli elmi,
scolpirono figure sui loro scudi e applicarono all'interno di questi
delle imbracciature. Fino ad allora i soldati che abitualmente si
armavano di scudo lo reggevano senza imbracciature, muovendolo per
mezzo di cinghie di cuoio portate intorno al collo e alla spalla
sinistra. In seguito, molto tempo dopo, i Cari furono scacciati dalle
isole ad opera dei Dori e degli Ioni e così giunsero nel continente.
Questo è quanto dei Cari raccontano i Cretesi; ma dal canto loro i
Cari non sono d'accordo in proposito: essi ritengono di essere
originari del continente e di avere avuto sempre il medesimo nome di
adesso. Esibiscono come prova l'antico tempio di Zeus Cario a Milasa
che appartiene anche ai Misi e ai Lidi, in quanto parenti dei Cari;
perché Lido e Miso, dicono, erano fratelli di Caro. Misi e Lidi
accedono a questo santuario mentre tutte le popolazioni d'altra
origine etnica, pur avendo adottato la lingua dei Cari, ne sono
escluse. 172)
A
me pare che autoctone siano le popolazioni della Caunia, le quali
invece sostengono di provenire da Creta. I Cauni assunsero la lingua
dei Cari (o i Cari quella dei Cauni, non saprei dirlo con esattezza),
ma le loro usanze sono assai diverse da quelle degli altri popoli,
Cari compresi. Il loro massimo divertimento consiste nell'andare a
bere in compagnia: lo fanno a gruppi secondo l'età e l'amicizia,
uomini, donne, bambini. Poiché avevano edificato santuari di divinità
straniere, più tardi, quando cambiarono parere e decisero di venerare
soltanto gli dei dei loro padri, tutti i Cauni adulti si armarono e si
diressero in corteo sino ai confini di Calinda, percuotendo l'aria con
le lance e dicendo che stavano scacciando gli dei stranieri. 173)
Queste
sono le loro usanze; quanto ai Lici, essi sono nativi di Creta;
anticamente l'intera isola di Creta era occupata da popolazioni
barbare. A Creta scoppiò una contesa per il regno fra Sarpedonte e
Minosse, figli di Europa; qundo riuscì a prevalere nella lotta per il
potere Minosse scacciò Sarpedonte e i suoi partigiani. Allontanati
dal loro paese essi giunsero in Asia nella regione Miliade: infatti la
regione ora abitata dai Lici anticamente era la Miliade, e i suoi
abitanti a quell'epoca si chiamavano Solimi. Fino a quando Sarpedonte
fu il loro re essi conservarono l'antico nome di Termili, col quale
tuttora i Lici vengono chiamati dalle popolazioni confinanti. Ma
quando da Atene giunse fra i Termili, presso Sarpedonte, Lico figlio
di Pandione, scacciato anche lui dal fratello Egeo, col tempo, dal
nome di Lico, essi furono detti Lici. Hanno usanze in parte cretesi in
parte carie; ce n'è una sola tipicamente loro e che non ha
assolutamente uguali presso altri popoli: derivano il nome dalla madre
e non dal padre: quando uno chiede a un altro come si chiami, quello
si qualifica col matronimico e precisa la sua genealogia secondo la
linea materna. E se una donna con piena cittadinanza s'unisce a uno
schiavo, i suoi figli sono considerati di alto lignaggio. Se invece è
un uomo ad avere una moglie straniera o una concubina, fosse pure il
più illustre dei cittadini, i suoi figli non godono del minimo
diritto. 174)
I
Cari furono asserviti da Arpago senza aver compiuto alcuna impresa
significativa, né i Cari, dico, né tutti quei Greci che abitano nel
loro paese. In effetti anche altre popolazioni vi sono insediate, per
esempio i coloni spartani di Cnido: il loro paese, che si chiama
Triopio, si protende tutto sul mare a partire dal Chersoneso Bibassio:
l'intero territorio, eccetto una piccola parte, è circondato dalle
acque ed è compreso tra il golfo Ceramico a nord e il mare di Sime e
di Rodi a sud: in quel tratto, che misura in larghezza circa cinque
stadi, i cittadini di Cnido volevano scavare un canale al tempo in cui
Arpago sottometteva la Ionia; l'intenzione era di trasformare in isola
il loro paese, tutto compreso al di qua dell'istmo: infatti l'istmo
che volevano tagliare segna proprio la linea di confine tra la Cnidia
e il continente. Gli Cnidi lavoravano con grande impiego di braccia,
ma visto che rompendo la roccia gli operai si ferivano più del
normale (e quindi forse per opera di un dio) in tutte le parti del
corpo e specialmente agli occhi, inviarono degli incaricati a Delfi
per chiedere cosa li avversava. E la Pizia, come essi raccontano,
vaticinò come segue in trimetri giambici:…”Oh non scavate e
non munite l’istmo! Non volle fare Zeus di Cnido un’isola.”…
(Non fortificate l'istmo e non scavate un canale. Zeus avrebbe fatto
un'isola se l'avesse voluto). Considerato il responso della Pizia, gli
Cnidi interruppero lo scavo e senza colpo ferire si consegnarono nelle
mani di Arpago, che stava avanzando in forze contro di loro. 175)
Sopra
Alicarnasso, nell'interno, abitavano i Pedasei, alla cui sacerdotessa
di Atena cresce una lunghissima barba ogni volta che a loro o ai loro
confinanti sta per accadere qualcosa di spiacevole: tre volte questo
fenomeno si è già verificato. Unici in tutto il territorio della
Caria essi si opposero ad Arpago per qualche tempo e lo misero in
grave difficoltà fortificando il monte chiamato Lide. Col tempo i
Pedasei furono spazzati via. 176)
I
Lici, quando Arpago spinse il suo esercito nella pianura di Xanto, gli
uscirono incontro e pur combattendo in netta inferiorità numerica
compirono prodigi di valore; sconfitti, si asserragliarono nella loro
città, radunarono sull'acropoli le mogli, i figli, i loro beni, i
servi e vi appiccarono il fuoco perché bruciasse tutta. Dopo di che
si vincolarono con un giuramento terribile, e uscirono dalla città
lanciandosi contro i nemici: gli Xanti morirono tutti con le armi in
pugno. La maggior parte degli attuali abitanti di Xanto che ora
sostengono di essere Lici sono in realtà forestieri, tranne ottanta
famiglie; queste ottanta famiglie in quella circostanza erano
casualmente lontane dalla città e poterono salvarsi. Fu così che
Arpago occupò Xanto; e in maniera molto simile occupò anche Cauno,
visto che anche i Cauni seguirono per lo più l'esempio dei Lici. 177)
Le
regioni costiere dell'Asia le mise a ferro e fuoco Arpago; le regioni
più interne invece fu Ciro in persona a devastarle, sottomettendo
ogni popolazione, nessuna esclusa. Noi ne trascureremo la maggior
parte per ricordare soltanto quelle che gli diedero più filo da
torcere e che sono le più degne di memoria. 178)
Ciro,
una volta impadronitosi di tutto il continente, si rivolse contro gli
Assiri. Nell'Assiria ci sono certamente molte grandi città, ma la più
rinomata e insieme la più potente, quella dove era stata stabilita la
reggia dopo la caduta di Ninive, era Babilonia; Babilonia è così
fatta: giace in una grande pianura e ha forma quadrangolare e ogni
lato è lungo 120 stadi cosicché il perimetro della città misura in
tutto 480 stadi. E se tale è già l'estensione di Babilonia, la sua
bella struttura, poi, non ha rivali tra le altre città a noi note.
Tanto per cominciare la circonda un fossato largo e profondo, colmo
d'acqua, e il muro di cinta, poi, è spesso cinquanta cubiti reali e
alto duecento. Il braccio reale è tre dita più lungo del braccio
ordinario. 179)
A
tutto ciò bisogna poi aggiungere quale uso fu fatto della terra
scavata dal fossato e in che modo fu realizzato il muro. Con la terra
estratta dallo scavo fabbricarono mattoni, che, appena furono in
numero sufficiente, fecero cuocere nelle fornaci; usando bitume caldo
come malta e inserendo dei graticci di canne ogni trenta file di
mattoni costruirono prima gli argini del fossato e poi il muro stesso,
con la medesima tecnica. Sulla sommità del muro, lungo gli spalti,
alzarono costruzioni a un solo piano, rivolte l'una verso l'altra; fra
di esse lasciarono uno spazio sufficiente al passaggio di un carro
trainato da quattro cavalli. Nel giro del muro sono inserite cento
porte, interamente di bronzo, stipiti e architravi compresi. A otto
giorni di viaggio da Babilonia c'è un'altra città, chiamata Is e
attraversata da un fiume non grande, esso pure chiamato Is, e
affluente dell'Eufrate. L'Is insieme con le acque trascina dei grumi
di bitume; da lì fu portato a Babilonia il bitume per le mura. 180)
E
così fu fortificata Babilonia. La città è divisa in due settori
separati da un fiume, l'Eufrate; l'Eufrate discende dai monti Armeni,
ampio, profondo, rapido e va poi a sfociare nel mare Eritreo. Dalle
due parti i bracci del muro si spingono fino al fiume: a questa
altezza si piegano a gomito e procedono lungo la corrente formando su
entrambe le rive dell'Eufrate argini di mattoni cotti. La città in sé,
ricca di case a tre o quattro piani, è attraversata da strade
rettilinee, tutte, comprese le trasversali che portano al fiume;
all'altezza di ciascuna strada nell'argine che costeggia il fiume
aprirono delle porticine, in numero pari alle viuzze. Anche queste
porte erano di bronzo e immettevano direttamente sul fiume. 181)
Questo
muro è una specie di corazza: al suo interno se ne trova un secondo,
poco meno robusto del precedente, ma alquanto più stretto. Al centro
dei due settori della città furono eretti due edifici fortificati: da
una parte la reggia munita di un ampio e robusto muro di cinta,
dall'altra il santuario di Zeus Belo con le porte di bronzo, di forma
quadrata con ogni lato pari a due stadi, esistente ancora ai miei
tempi. Al centro del santuario si trova una solida torre, lunga e
larga uno stadio: sulla prima torre ne è stata alzata una seconda,
sulla seconda una terza e così via fino a un totale di otto torri;
per accedere alle torri è stata costruita una scala a chiocciola che
corre tutto intorno all'esterno dell'edificio. A metà della scala c'è
un pianerottolo con dei sedili per riposarsi, sui quali quanti salgono
possono sedersi a riprendere fiato. Sopra l'ultima torre si trova un
grande tempio; al suo interno è collocato un ampio letto ben fornito
di cuscini con accanto una tavola d'oro. Dentro non c'è assolutamente
alcuna statua; e nessun essere umano vi passa la notte se non una sola
donna babilonese che il dio abbia scelto fra tutte, come dicono i
Caldei, cioè i sacerdoti di questa divinità. 182)
Sempre
costoro aggiungono, ma io non ci credo, che il dio in persona viene
nel tempio a riposarsi su quel letto; tutto accadrebbe esattamente
come a Tebe d'Egitto, secondo quanto asseriscono gli Egiziani (anche là
infatti una donna dorme nel tempio di Zeus Tebano; e anche di costei
come della donna babilonese si dice che non ha rapporti con alcun
uomo) e così farebbe pure la profetessa del dio a Patara in Licia,
quando c'è: lì l'oracolo non è sempre attivo, ma quando c'è allora
di notte la sacerdotessa viene chiusa col dio nel tempio. 183)
Nel
grande santuario di Babilonia, in basso, si trova un altro tempio, in
cui sono collocate una grande statua di Zeus assiso, in oro, e accanto
una grande tavola d'oro; e d'oro sono altresì il basamento e il
trono. A sentire i Caldei per la loro fabbricazione sarebbero stati
impiegati 800 talenti d'oro. All'esterno di questo tempio c'è un
altare d'oro: e c'è anche un secondo altare, grande, sul quale
vengono offerte in sacrificio le vittime adulte: infatti sull'altare
d'oro è consentito sacrificare esclusivamente animali da latte;
sempre sull'altare più grande i Caldei bruciano ogni anno mille
talenti d'incenso, quando celebrano la festa del dio. Nell'area del
santuario a quell'epoca si trovava anche una statua d'oro massiccio
alta dodici cubiti; io personalmente non l'ho vista, riferisco quanto
affermano i Caldei. Dario figlio di Istaspe che pure l'avrebbe voluta,
non si sentì di portarsi via questa statua: fu suo figlio Serse ad
asportarla, arrivando a uccidere il sacerdote che cercava di
proibirgliene la rimozione. E questo è l'arredamento del santuario;
dentro poi vi sono anche molte offerte di privati. 184)
Molti,
credo, furono i sovrani di Babilonia (e di essi farò menzione nei
miei Racconti Assiri) che attesero alla edificazione delle mura e del
santuario, e fra essi anche due donne; una si chiamava Semiramide e
visse cinque generazioni prima della successiva: costei fece erigere
nella pianura argini che meritano di essere visti; prima regolarmente
il fiume allagava le campagne. 185)
La
seconda delle due regine si chiamava Nitocri: dotata di maggior
lungimiranza della sovrana che l'aveva preceduta sul trono, lasciò sì
i monumenti che descriverò più avanti, ma in più, vedendo la
potenza dei Medi ormai grande e inquieta, forte delle città già
annesse, tra cui anche Ninive, prendeva contro di loro tutte le
precauzioni in suo potere. Cominciò occupandosi dell'Eufrate, il
fiume che attraversa Babilonia; aveva andamento rettilineo, ma lei,
facendo scavare dei canali lungo tutto il suo corso, lo rese tanto
tortuoso che ora esso tocca addirittura tre volte un villaggio dell'Assiria.
Questo villaggio si chiama Ardericca: quanti viaggiano dal nostro mare
verso Babilonia discendendo l'Eufrate, costeggiano Ardericca per ben
tre volte nell'arco di tre giorni. Nitocri dunque attuò quest'opera
grandiosa; inoltre fece costruire su entrambe le sponde del fiume
degli argini che lasciano stupefatti tanto sono spessi e alti.
Abbastanza a monte di Babilonia, poi, fece scavare l'invaso per un
lago, non molto discosto dal fiume, scendendo in profondità fino a
trovare l'acqua e ampliandolo in estensione per un perimetro di 420
stadi; utilizzò il materiale estratto dallo scavo ammucchiandolo
lungo le rive del fiume. Quando il bacino fu pronto vi costruì
intorno un parapetto con pietre precedentemente trasportate sul luogo.
Realizzò tutto questo, la tortuosa canalizzazione del fiume e la
trasformazione dell'invaso in palude, affinché il fiume, deviato in
molti meandri, scorresse più lentamente, la navigazione verso
Babilonia risultasse tortuosa e una volta finita la navigazione si
dovesse ancora percorrere il lungo perimetro della palude. Eseguì
tali lavori nella parte del paese dove c'erano le vie d'accesso e le
strade più brevi provenienti dalla Media, per impedire ai Medi di
frequentare Babilonia e di ottenere informazioni sulla sua situazione. 186)
Con
le opere di scavo realizzò queste costruzioni; e ne ricavò un
vantaggio ulteriore. Dal momento che la città è divisa in due
settori separati dal fiume, all'epoca dei re precedenti chi voleva
recarsi da un settore all'altro della città era costretto ad
attraversare il fiume con una imbarcazione, una cosa, mi pare, assai
fastidiosa. Nitocri vi pose rimedio e approfittando dello scavo per il
bacino poté trasmettere ai posteri un altro grande ricordo del
proprio operato: fece tagliare immense lastre di pietra che furono
pronte quando anche il bacino era stato ultimato; allora deviò
l'intera corrente del fiume nell'invaso preparato, e mentre questo si
riempiva e quindi l'antico letto si prosciugava, rivestì di mattoni
cotti, con la stessa tecnica usata per le mura, le sponde del fiume
all'interno della città e il fondo delle strade che dalle porticine
conducono al fiume; poi quasi esattamente nel centro della città con
le pietre di riporto dello scavo costruì un ponte, legando le pietre
con barre di ferro e di piombo. Di giorno vi faceva stendere sopra una
passerella di tronchi di legno squadrati, su cui i Babilonesi
transitavano; di notte la passerella veniva tolta, perché non
andassero in giro a derubarsi da una parte all'altra. Quando l'invaso
colmato dalle acque del fiume era ormai diventato uno stagno e i
lavori intorno al ponte erano terminati, ricondusse l'Eufrate dalla
palude nel suo antico alveo; in questo modo lo scavo, divenuto palude,
apparve in tutta la sua utilità e intanto i cittadini ebbero un
ponte. 187)
Questa
stessa regina escogitò anche un bell'inganno: ordinò che si
allestisse la sua tomba a mezz'aria, cioè sopra la porta più
frequentata della città; e su di essa fece incidere una iscrizione
che diceva: "Se uno dei re di Babilonia miei successori, si
troverà a corto di denaro, apra la tomba e prenda tutte le ricchezze
che vuole: la apra soltanto se ha davvero bisogno di denaro, e per
nessuna altra ragione, o non ne avrà alcun vantaggio". Questa
tomba rimase intatta finché il regno non venne nelle mani di Dario; a
Dario sembrava assurdo non potersi servire di quella porta e non
toccare le ricchezze ivi giacenti quando persino l'iscrizione invitava
a prenderle. Non si serviva della porta perché se l'avesse
attraversata si sarebbe trovato il cadavere sopra la testa. Dario fece
aprire la tomba ma ricchezze non ne trovò, solo il cadavere e una
scritta che diceva: "se tu non fossi insaziabile di denaro e
ignobilmente avido, non violeresti le tombe dei defunti". Ecco,
come si narra, che genere di donna fu questa regina. 188)
Ciro
combatté contro il figlio di Nitocri, che portava lo stesso nome di
suo padre, Labineto, e regnava sull'Assiria. Il grande re persiano
compì la sua spedizione militare ben fornito di vettovaglie e di
bestiame persiano; tra l'altro aveva con sé persino acqua del Coaspe,
il fiume che scorre vicino a Susa: un re persiano beve solo acqua di
questo fiume e di nessun altro. Perciò molti carri a quattro ruote
trainati da mule seguono sempre il re, dovunque vada, carichi di acqua
bollita del Coaspe contenuta in recipienti d'argento. 189)
Ciro
nella sua marcia verso Babilonia giunse a un certo momento al fiume
Ginde. Il Ginde ha le sue sorgenti sui monti dei Matieni, attraversa
il paese dei Dardani e poi va ad affluire in un altro fiume, il Tigri,
il quale a sua volta scorre presso la città di Opis e sfocia nel Mare
Eritreo. Dunque, mentre Ciro tentava di attraversare il Ginde, che è
navigabile, uno dei suoi sacri cavalli bianchi entrò impetuosamente
nel fiume tentando di guadarlo, ma la corrente lo travolse sott'acqua
e lo trascinò via. Ciro si infuriò nei confronti del fiume, autore
di un simile oltraggio, lo minacciò di renderlo tanto debole che in
seguito anche le donne avrebbero potuto guadarlo facilmente, senza
bagnarsi neppure le ginocchia. Pronunciata la minaccia trascurò la
spedizione contro Babilonia e divise il suo esercito in due parti: su
ciascun lato del Ginde disegnò con delle corde tese in linea retta il
tracciato di 180 canali rivolti in ogni direzione, distribuì i suoi
uomini sulle due rive del fiume e ordinò di cominciare lo scavo.
Poiché la manodopera era assai numerosa l'impresa fu condotta a
termine, tuttavia passarono l'estate intera a scavare in quella zona. 190)
Consumata
la sua vendetta disperdendo il corso del Ginde in 360 canali, Ciro al
sorgere della primavera successiva si spinse contro Babilonia. I
Babilonesi lo attesero schierati fuori della città; quando nella sua
marcia fu vicino a Babilonia, lo assalirono, ma poi, sconfitti nella
battaglia, ripiegarono dentro la rocca. Poiché da tempo sapevano che
Ciro non era tipo da starsene tranquillo e anzi lo vedevano aggredire
senza distinzioni qualunque popolo, si erano premuniti raccogliendo
viveri per molti anni. Così non si preoccupavano minimamente
dell'assedio, mentre Ciro era in grave difficoltà: il tempo passava
senza che la situazione registrasse per lui alcun progresso. 191)
Infine,
vuoi che qualcuno lo avesse consigliato in tal senso, vedendolo in
difficoltà, vuoi che lui stesso si fosse reso conto del da farsi,
prese una decisione: schierò il suo esercito all'imboccatura del
fiume, cioè nel punto in cui esso entra in Babilonia e dispose altri
uomini al capo opposto della città, dove il fiume esce dal centro
abitato e ordinò ai soldati di attendere che la corrente fosse
divenuta guadabile e poi di entrare in città per quella via. Dopo
aver schierato le sue truppe e impartiti i relativi ordini, condusse
via con sé gli uomini meno adatti al combattimento. Giunse fino al
bacino artificiale e lì ripeté l'operazione compiuta a suo tempo
dalla regina Nitocri per il fiume e lo stagno: per mezzo di un canale
deviò il fiume nella palude; in tal modo al ritirarsi delle acque il
letto del fiume divenne percorribile. Quando ciò accadde i Persiani
che erano stati opportunamente schierati lungo il corso dell'Eufrate
poterono penetrare in città per questa via: il livello del fiume si
era abbassato al punto che l'acqua arrivava appena a metà coscia. Se
i Babilonesi avessero avuto notizia delle manovre di Ciro o se ne
fossero accorti, avrebbero consentito ai Persiani di penetrare in città
per poi massacrarli; infatti, sbarrando tutte le porte che danno sul
fiume e salendo sugli spalti che corrono lungo le rive, li avrebbero
presi come in una nassa. E invece i Persiani piombarono loro addosso
all'improvviso. A causa dell'estensione di Babilonia, come raccontano
i suoi stessi abitanti, quando già i quartieri periferici della città
erano stati espugnati, ancora i Babilonesi residenti nel centro non se
ne erano accorti; e anzi, dato che per combinazione era un giorno di
festa, in quel momento erano dediti a danze e divertimenti; fino a
quando, naturalmente, non si resero conto esattamente della
situazione. In tal modo Babilonia fu espugnata, allora, per la prima
volta. 192)
Mostrerò
con molti argomenti quanto siano immense le risorse della Babilonia e
già con una semplice considerazione. Il grande re ha suddiviso
l'intero territorio del suo dominio in varie zone che provvedono a
turno, indipendentemente dai tributi annuali, al mantenimento suo e
del suo esercito. Ebbene, per quattro mesi, sui dodici che compongono
un anno, è la Babilonia a provvedere, per gli altri otto tutto il
resto dell'Asia; ciò vuol dire che l'Assiria assomma la terza parte
delle risorse dell'Asia intera. E il governatorato di questa regione,
o satrapia, come lo chiamano i Persiani, è fra tutti di gran lunga il
più potente; tanto è vero che a Tritantecme figlio di Artabazo, che
aveva ricevuto dal re questo territorio, affluiva una rendita
quotidiana di una artaba di argento (l'artaba è l'unità di misura
persiana, corrispondente a un medimno e tre chenici attici); e
possedeva privatamente, senza tener conto dei cavalli da guerra, 800
stalloni e 16.000 femmine per la riproduzione, poiché ogni stallone
montava venti cavalle. Inoltre allevava un tale numero di cani d'India
che quattro grandi villaggi della pianura erano incaricati del loro
mantenimento, e non pagavano altro tributo che questo. Tale era
l'appannaggio del governatore di Babilonia. 193)
Però
la terra degli Assiri riceve poca pioggia, appena sufficiente a far
spuntare la radice del frumento; è poi grazie alla irrigazione che le
messi crescono e il grano giunge a maturazione, non però come avviene
in Egitto, dove il fiume stesso straripa nelle campagne, bensì grazie
al lavoro manuale e all'uso di mazzacavalli. In effetti la Babilonia,
come l'Egitto, è interamente attraversata da canali, il più grande
dei quali, navigabile, si sviluppa in direzione sud-est a partire
dall'Eufrate immettendosi nell'altro fiume, il Tigri; lungo il Tigri
sorgeva la città di Ninive. Fra tutte le regioni a nostra conoscenza
questa è certamente la più indicata per la produzione del frutto di
Demetra, tanto è vero che non si tenta nemmeno di far crescere altri
tipi di piante, né fichi, né viti, né olivi; è talmente adatta
alla coltura dei cereali che in media frutta 200 se si semina 1 e
quando rende al massimo delle proprie possibilità frutta persino 300.
In quella terra le foglie del grano e dell'orzo raggiungono
tranquillamente una larghezza di quattro dita. Quanto all'altezza
raggiunta dalle piante del miglio e del sesamo, anche se la conosco
eviterò di segnalarla: so bene che a chi non è mai stato nella
Babilonia sembrano del tutto incredibili anche i dati che ho esposto
sui cereali. Non usano olio di oliva ma estraggono olio dal sesamo. In
tutta la pianura crescono spontaneamente le palme, quasi tutte
fruttifere; da esse ricavano cibi solidi, vino e miele; curano queste
palme come si fa con i fichi, in particolare quelle che i Greci
chiamerebbero "maschio": ne legano i frutti intorno alle
palme da datteri affinché lo pseno penetrando nei datteri li porti a
maturazione e il frutto della palma non vada perduto; infatti le palme
"maschio" portano nei loro datteri lo pseno esattamente come
i fichi selvatici. 194)
Ma
ora parlerò di quella che a mio parere costituisce la meraviglia più
grande di Babilonia, dopo la città naturalmente: possiedono
imbarcazioni, di forma circolare e interamente di cuoio, che arrivano
fino a Babilonia scendendo lungo la corrente del fiume. Nella regione
d'Armenia, a nord dell'Assiria, essi fabbricano lo scafo con vimini
tagliati opportunamente e vi distendono intorno delle pelli per
ricoprirle, come un impiantito; non differenziano la poppa e non
modellano una prua più stretta: le fanno invece rotonde come uno
scudo; poi ricoprono di canne tutta l'imbarcazione, la riempiono di
mercanzie e lasciano che sia il fiume a portarla; per lo più
imbarcano recipienti fenici colmi di vino. Con due pertiche due uomini
in piedi ne governano la direzione: mentre uno tira verso di sé la
pertica l'altro la spinge in fuori. Imbarcazioni di questo tipo ne
costruiscono di molto grandi e di piccole: le più grandi hanno una
stazza di 5000 talenti. Su ogni battello viaggia un asino vivo, sulle
barche più grandi ve n'è più d'uno; una volta arrivati a Babilonia
scendendo lungo la corrente e, smerciato il carico, vendono lo scafo e
tutte le canne al miglior offerente; le pelli invece le caricano
sull'asino e se ne ritornano in Armenia. Infatti in nessun modo è
possibile risalire il fiume in battello per via della corrente troppo
forte; e questo è anche il motivo per cui non costruiscono
imbarcazioni di legno bensì di pelli. Quando con i loro asini sono
nuovamente tornati in Armenia si costruiscono altre imbarcazioni nella
stessa maniera. Tali sono i loro mezzi per la navigazione fluviale. 195)
Come
indumenti adoperano una tunica di lino lunga fino ai piedi sulla quale
indossano un'altra tunica di lana e una mantellina bianca, gettata
intorno alle spalle. Ai piedi portano calzature locali simili ai
sandali che si usano in Beozia. Portano capelli lunghi e se li legano
con nastri; si profumano tutto il corpo. Ciascuno di loro ha un anello
con sigillo e un bastone lavorato a mano; il pomo di ciascun bastone
è scolpito in forma di mela, di rosa, di giglio, di aquila o d'altro;
non è loro abitudine portare un bastone senza un contrassegno. Questo
per quanto riguarda l'abbigliamento. 196)
Veniamo
adesso alle loro leggi. Ecco secondo me la più saggia (in uso, a
quanto apprendo, anche fra i Veneti di Illiria). Una volta all'anno,
in ogni villaggio si faceva così: conducevano in un unico luogo, allo
scopo di riunirle tutte, le ragazze che si trovassero in età da
marito e intorno ad esse si radunava una folla di uomini. Poi un
araldo le faceva alzare in piedi, una per una, e le vendeva:
cominciava dalla più bella, poi, quando questa aveva trovato un
generoso compratore, metteva all'asta la seconda per bellezza. La
vendita si faceva a scopo matrimoniale. I Babilonesi benestanti in età
da prendere moglie superandosi a vicenda con le offerte si
acquistavano le più graziose; invece gli aspiranti mariti del popolo,
che non badavano all'estetica, si prendevano le ragazze più brutte e
una somma di denaro. Infatti quando il banditore aveva terminato di
vendere le più belle, faceva alzare la più brutta oppure una
storpia, se c'era, e la offriva a chi accettasse di sposarla con il
compenso più basso; finché la ragazza veniva aggiudicata a chi
s'accontentava della somma minore. Il denaro derivava dalla vendita
delle ragazze avvenenti: in questo modo erano le belle ad accasare le
brutte e le menomate. Nessuno aveva il diritto di dare la propria
figlia in moglie a chi volesse lui e senza garanzie non era possibile
portarsi via la ragazza comprata; l'acquirente doveva prima fornire
garanzie che avrebbe sposato effettivamente la ragazza, poi poteva
condurla con sé; se poi non andavano d'accordo, il denaro doveva per
legge essere restituito. Chiunque volesse partecipare all'asta poteva
farlo, anche venendo da un altro villaggio. Questa era dunque la loro
tradizione più bella; ora però non è più in vigore e hanno
studiato un nuovo sistema (per non danneggiare le loro donne e per
impedire che vengano condotte in un altro paese). Da quando la
conquista di Babilonia ha ridotto male e rovinato i suoi abitanti,
tutti i popolani, che non hanno di che vivere, prostituiscono le
figlie. 197)
Ed
ecco l'usanza in vigore presso di loro seconda per saggezza: non
avendo medici portano sulla pubblica piazza i loro infermi. Chi si
avvicina al malato esprime un parere sulla sua malattia, se per caso
ha avuto gli stessi sintomi o se ha saputo di qualcuno che li abbia
avuti. Dunque si accostano per dar consigli e ciascuno esorta a fare
ciò che lui stesso ha fatto o visto fare a un altro per guarire da
una analoga affezione. Non è consentito passare oltre in silenzio
senza chiedere all'infermo di quale malattia soffra. 198)
Seppelliscono
i morti nel miele; i lamenti funebri sono assai simili a quelli in uso
in Egitto. Ogni volta che un Babilonese ha fatto l'amore con la
propria moglie, brucia delle sostanze aromatiche e si siede accanto al
fumo; la stessa cosa, separatamente, fa anche la donna. All'alba
entrambi provvedono a lavarsi e non toccano nessun vaso se prima non
si sono lavati. Identica cosa fanno anche gli Arabi. 199)
Ed
ecco la peggiore delle usanze babilonesi. Ogni donna di quel paese
deve sedere nel tempio di Afrodite una volta nella sua vita e fare
l'amore con uno straniero. Molte, sentendosi superiori per la loro
ricchezza, sdegnano di mescolarsi con le altre e si fanno trasportare
sopra un carro coperto fino al tempio e lì si fermano, con un gran
seguito di servitù. La maggior parte invece si comporta come segue:
nel recinto sacro di Afrodite siedono in molte con una corona di corda
intorno alla testa, alcune arrivano, altre se ne vanno; con delle funi
tese fra le donne si ottengono dei corridoi rivolti in tutte le
direzioni: gli stranieri passano attraverso di essi e fanno la loro
scelta. Una donna che si sia lì seduta non se ne torna a casa se
prima uno straniero qualsiasi non le ha gettato in grembo del denaro e
non ha fatto l'amore con lei all'interno del tempio; gettando il
denaro deve pronunciare una formula: "Invoco la dea Militta".
Con il nome di Militta gli Assiri chiamano Afrodite. L'ammontare
pecuniario è quello che è e non sarà rifiutato: non è lecito perché
tale denaro diventa sacro. La donna segue il primo che glielo getti e
non respinge nessuno. Dopo aver fatto l'amore, e aver soddisfatto così
la dea, fa ritorno a casa e da questo momento non le si potrà offrire
tanto da poterla possedere. Le donne avvenenti e di alta statura se ne
vanno rapidamente, ma quelle brutte rimangono lì molto tempo senza
poter adempiere l'usanza; e alcune rimangono ad aspettare persino per
tre o quattro anni. Una usanza assai simile esiste anche in qualche
parte dell'isola di Cipro. 200)
E
questi sono i costumi dei Babilonesi. Fra loro vi sono tre tribù che
si nutrono esclusivamente di pesce, opportunamente seccato al sole
dopo la pesca, preparandolo così: lo gettano in un mortaio, lo
sminuzzano con il pestello e lo passano al setaccio; poi lo mangiano
preparandolo come pastone o cuocendolo al forno, come fosse pane,
secondo i gusti. 201)
Quando
Ciro ebbe sottomesso anche questo popolo, fu preso dal desiderio di
ridurre in suo potere i Massageti. I Massageti hanno fama di essere un
popolo grande e valoroso: le loro sedi si trovano a est, dove sorge il
sole, al di là del fiume Arasse, di fronte agli Issedoni; c'è chi
sostiene che questo popolo sia di razza scita. 202)
Quanto
all'Arasse ora lo si dice più grande ora più piccolo dell'Istro. Si
racconta anche che in mezzo al fiume ci sono numerose isole estese
quasi quanto Lesbo: su di esse vivrebbero uomini che d'estate si
cibano di radici di ogni tipo estraendole dalla terra e d'inverno di
frutti staccati dagli alberi e messi in serbo nel periodo della
maturazione; e pare che essi abbiano trovato altre piante il cui
frutto possiede strane proprietà: quando si riuniscono in gruppi in
uno stesso luogo e accendono i falò, vi siedono attorno e gettano nel
fuoco questi frutti, aspirando i vapori che se ne sprigionano; con
tali effluvi si ubriacano esattamente come i Greci con il vino: e più
frutti gettano nel fuoco più si inebriano, fino al punto di alzarsi
per danzare e di mettersi a cantare. Tale sarebbe, a quanto si
racconta, il loro modo di vivere. Il fiume Arasse scorre dal paese dei
Matieni, come pure il Ginde (quello disperso da Ciro in 360 canali), e
riversa poi le sue acque in quaranta ramificazioni, le quali tutte,
tranne una, sfociano in stagni e paludi; qui vivono, a quanto si dice,
uomini che si cibano di pesci crudi e che si vestono normalmente con
pelli di foca. L'unico ramo dell'Arasse a scorrere libero e aperto
sfocia nel Mar Caspio. Il Caspio è un mare a sé senza alcuna
comunicazione con l"altro mare'; effettivamente le acque percorse
dalle navi greche, quelle situate al di là delle colonne d'Ercole,
dette Atlantico, e il Mare Eritreo, formano un unico mare. 203)
Le
acque del Caspio formano un secondo mare a parte, lungo quindici
giorni di navigazione a remi e largo otto, nel tratto di maggiore
larghezza. Sulla riva occidentale si stende il Caucaso, il complesso
montuoso più vasto e più elevato del mondo. Nella zona del Caucaso
abitano numerose popolazioni di tutte le razze, che vivono per lo più
di frutti selvatici. Da quelle parti, si dice, esisterebbero piante
dalle cui foglie triturate e mescolate con acqua ottengono una tintura
per disegnare figure sulle loro vesti; e queste figure non sbiadiscono
affatto, si consumano con il resto della stoffa come se vi fossero
state intessute fin dall'origine. Pare che fra queste genti gli
accoppiamenti avvengano davanti a tutti come fra gli animali. 204)
Dicevamo
che il Caucaso delimita la parte occidentale del mare Caspio; invece
procedendo verso est, verso il sorgere del sole, si estende una
pianura immensa, a perdita d'occhio; una parte non piccola di questa
sconfinata pianura è abitata dai Massageti, contro i quali appunto
Ciro era ansioso di marciare. Molte e importanti ragioni lo spingevano
e lo sollecitavano in tal senso: prima di tutto la sua nascita, la
convinzione di essere qualcosa di più che un uomo, in secondo luogo
la sua buona sorte, quale si era rivelata nelle guerre precedenti:
dovunque infatti avesse diretto le sue truppe, nessuna popolazione era
riuscita a trovare scampo. 205)
Sui
Massageti, da quando le era morto il marito, regnava una donna, di
nome Tomiri. Ciro le mandò un messaggio in cui la chiedeva in
matrimonio dicendo di volerla per moglie; ma Tomiri, comprendendo che
lui non aspirava tanto alla sua mano quanto al regno dei Massageti,
rifiutò i suoi approcci. Allora Ciro, visto che con l'astuzia non
aveva ottenuto alcun risultato, si spinse fino all'Arasse e dichiarò
apertamente guerra ai Massageti; gettò dei ponti fra le due rive del
fiume per il passaggio dell'esercito e costruì torri di difesa sulle
imbarcazioni che attraversavano il fiume. 206)
Mentre
era impegnato in questi lavori, la regina Tomiri gli inviò un araldo
con il seguente messaggio: "O re dei Medi, smettila con gli
sforzi che stai compiendo: tu non sai se l'impresa ti riuscirà
felice. Desisti, regna sui tuoi territori e lascia che noi regniamo
sui nostri sudditi. Ma so già che non vorrai accettare i miei
suggerimenti e anzi tutto vorrai fuorché startene in pace. Perciò,
se davvero aspiri tanto a misurarti con i Massageti, lascia perdere il
ponte sul fiume, che ti costa tanta fatica; passa pure nel nostro
territorio, le nostre truppe si ritireranno a tre giorni di cammino
dal fiume. Se invece preferisci essere tu ad accogliere noi nel vostro
paese, allora fai tu le stesse cose". Sentita questa proposta,
Ciro convocò i Persiani più autorevoli e quando li ebbe radunati
espose i termini della questione, chiedendo consiglio sul da farsi. E
i pareri di tutti concordemente lo esortarono a ricevere Tomiri e il
suo esercito sul suolo persiano. 207)
Ma
Creso il Lido, presente alla discussione, criticò questo parere ed
espose la sua opinione, che era esattamente opposta: "Signore, -
disse - già altre volte ti ho promesso, poiché Zeus mi ha dato nelle
tue mani, che mi sarei impegnato a fondo per scongiurare qualunque
sciagura io vedessi incombere sulla tua casa. Le mie sventure
personali, così spiacevoli, mi hanno insegnato molto. Ora, se tu
credi di essere immortale e di comandare a un esercito immortale, non
ha senso che io ti esponga il mio parere; ma se riconosci di essere un
uomo anche tu e di comandare ad altri uomini, sappi prima di tutto che
le vicende umane sono una ruota, che gira e non permette che siano
sempre gli stessi a godere di buona fortuna. Circa la presente
questione io la penso al contrario di costoro: se decideremo di
ricevere i nemici in territorio persiano tu corri un bel rischio: se
rimani sconfitto perdi tutto il tuo regno perché è chiaro che i
Massageti, vincendo, non torneranno più indietro ma avanzeranno
contro i tuoi domini. Invece se li batti, non vinci tanto quanto
vinceresti se trovandoti già in casa loro potessi inseguire i
Massageti in fuga. La conseguenza infatti sarebbe uguale ma contraria
alla precedente: se sconfiggi tu i nemici, sarai tu a puntare dritto
sul dominio di Tomiri. Inoltre, indipendentemente da quanto ti ho già
esposto, mi pare vergognoso e intollerabile che Ciro, il figlio di
Cambise, ceda a una donna e si ritiri. Pertanto il mio parere è di
passare il fiume e avanzare di quanto i nemici arretreranno; e là
tentare di sconfiggerli con la seguente tattica. A quanto mi risulta i
Massageti non hanno mai gustato i piaceri persiani e non hanno mai
provato grandi delizie. Per uomini così dunque facciamo a pezzi
bestiame in abbondanza, cuciniamolo e prepariamo un banchetto nel
nostro campo: e aggiungiamo generosamente grandi orci di vino puro e
cibarie d'ogni sorta; dopo di che si lascino sul posto i contingenti
meno validi e gli altri si ritirino nuovamente verso il fiume. E
vedrai, se non mi inganno, che i Massageti a vedere tutto quel ben di
dio vi si getteranno sopra e a quel punto a noi non resterà che
compiere notevoli gesta". 208)
Questi
furono gli opposti pareri; Ciro trascurò il primo e accettò il
suggerimento di Creso: avvisò la regina Tomiri di ritirare le sue
truppe, perché sarebbe stato lui ad attraversare il fiume. Ed essa si
ritirò come aveva promesso. Ciro affidò Creso nelle mani di suo
figlio Cambise, erede designato del regno, con molte esortazioni a
onorarlo e a trattarlo degnamente, nel caso la spedizione contro i
Massageti non avesse buon esito. Con queste raccomandazioni li rimandò
in Persia, poi passò il fiume con il suo esercito. 209)
La
notte successiva al passaggio dell'Arasse, mentre dormiva nella terra
dei Massageti, ebbe un sogno: nel sonno gli parve che il figlio
maggiore di Istaspe avesse due ali sulle spalle: con una gettava ombra
sull'Asia, con l'altra sull'Europa. Il maggiore dei figli di Istaspe,
figlio di Arsame, della famiglia degli Achemenidi, era Dario, che
allora aveva circa vent'anni e per questo, non avendo l'età per
combattere, era stato lasciato in Persia. Ciro si svegliò, e
rifletteva sul sogno; e poiché gli sembrava una visione importante,
mandò a chiamare Istaspe, lo prese da parte e gli disse: "Istaspe,
tuo figlio è stato sorpreso a complottare contro di me e il mio
potere. Come mai lo so con certezza, ora te lo spiego. Gli dei hanno
cura di me e mi preannunciano tutto ciò che mi minaccia; ebbene la
notte scorsa dormendo ho visto in sogno il maggiore dei tuoi figli
avere sulle spalle due ali e con una gettare ombra sull'Asia, con
l'altra sull'Europa. Non c'è altra spiegazione per questo sogno, se
non che tuo figlio sta tramando contro di me. Pertanto ti ordino di
rientrare immediatamente in Persia; e bada di sottoporre tuo figlio al
mio giudizio, quando avrò assoggettata questa terra e sarò di
ritorno in Persia". 210)
Ciro
parlò così convinto che Dario stesse cospirando contro di lui,
mentre il dio voleva soltanto rivelargli che doveva morire lì, in
quel paese, e che il suo potere sarebbe finito nelle mani di Dario.
Istaspe gli rispose: "O re, io mi auguro che non sia nato un
Persiano che complotta contro di te, ma se esiste, allora muoia al più
presto! Tu, da schiavi che eravamo, ci hai resi liberi, tu ci hai reso
da servi signori. Se un sogno ti annuncia che mio figlio sta
preparando una ribellione contro di te, sarò io stesso a consegnarlo
nelle tue mani, perché tu ne faccia quello che vorrai". Dopo
questa risposta Istaspe riattraversò l'Arasse e tornò in Persia per
tenere suo figlio Dario a disposizione di Ciro. 211)
Ciro
avanzò oltre il fiume per circa una giornata di cammino e mise in
pratica i suggerimenti di Creso. Poi indietreggiò verso l'Arasse con
le truppe più valide lasciando sul posto i meno adatti a combattere.
Allora un terzo dell'esercito massageta sopraggiunse e sterminò,
nonostante la loro resistenza, i soldati lasciati sul posto da Ciro;
ma, come videro le mense imbandite, appena spazzati via i nemici, si
sdraiarono a banchettare: infine, rimpinzati di cibo e di vino si
addormentarono. Sopraggiunsero i Persiani e uccisero molti di loro, e
ancor più ne presero prigionieri incluso il figlio della regina
Tomiri, che comandava l'esercito dei Massageti e si chiamava
Spargapise. 212)
Quando
la regina seppe quanto era accaduto all'esercito e a suo figlio, mandò
un araldo a Ciro col seguente messaggio: "Ciro, insaziabile di
sangue, non esaltarti per ciò che è avvenuto, se col frutto della
vite, riempiendovi del quale anche voi impazzite, fino al punto che il
vino scendendo nel vostro corpo vi fa salire alla bocca sconce parole,
non esaltarti se con l'inganno di questo veleno hai sconfitto mio
figlio, e non in battaglia misurando le vostre forze. Io ora ti do un
buon consiglio e tu seguilo: restituiscimi mio figlio e potrai
andartene dal mio paese senza pagare per l'oltraggio inflitto a un
terzo del mio esercito; altrimenti, lo giuro sul sole, signore dei
Massageti, benché tu ne sia avido, ti sazierò di sangue!" 213)
Queste
parole furono riferite a Ciro, ma lui non le prese in considerazione.
Il figlio della regina Tomiri, Spargapise, quando svanirono i fumi del
vino e si rese conto della sua sciagurata situazione, pregò Ciro di
essere liberato dalle catene e l'ottenne, ma come fu sciolto e padrone
delle sue mani si suicidò. Così morì Spargapise. 214)
E
Tomiri, poiché Ciro non le aveva prestato ascolto, raccolse tutte le
sue truppe e lo attaccò. Io ritengo questa battaglia la più dura di
quante i barbari abbiano mai combattuto fra loro. Ed ecco come si
svolse secondo le mie informazioni. In un primo momento si tennero a
distanza e si lanciarono frecce, poi, terminate le frecce, si
gettarono gli uni contro gli altri brandendo lance e spade. Per lungo
tempo si protrasse lo scontro senza che una delle due parti accennasse
a fuggire; infine prevalsero i Massageti. La maggior parte
dell'esercito persiano fu distrutto e sul campo cadde Ciro stesso.
Aveva regnato complessivamente per 29 anni. Tomiri riempì un otre di
sangue umano e fece cercare fra i cadaveri dei Persiani il cadavere di
Ciro; quando lo trovò immerse la sua testa nell'otre e mentre così
infieriva su di lui, disse: "Tu hai ucciso me, anche se sono viva
e ti ho sconfitto, sopprimendo con l'inganno mio figlio; ora io ti
sazierò di sangue, esattamente come ti avevo minacciato". Fra le
tante versioni correnti sulla morte di Ciro questa che ho raccontato
mi pare la più degna di fede. 215)
I
Massageti hanno un modo di vestire e un regime di vita simili a quelli
degli Sciti. Combattono a cavallo o a piedi (sono esperti in entrambi
i campi), sono arcieri e lancieri; abitualmente hanno pure una scure
bipenne. Per ogni cosa adoperano oro e bronzo: usano il bronzo per le
punte delle lance e delle frecce e per le bipenni, mentre si ornano
d'oro l'elmo, la cintura e le tracolle; allo stesso modo corazzano con
il bronzo il petto dei cavalli mentre ne rivestono di oro le briglie,
il morso e le borchie. Non si servono assolutamente di ferro e di
argento perché nel loro paese non se ne trova. Mentre abbondano l'oro
e il bronzo. 216)
Ed
ecco le loro usanze: ciascuno sposa una donna ma le donne poi sono in
comune per tutti. I Greci sostengono che sono gli Sciti a comportarsi
così, ma non è vero: non sono gli Sciti bensì i Massageti; ogni
Massageta che desideri una donna appende una faretra al suo carro e fa
tranquillamente l'amore con lei. Essi non hanno prefissato un limite
alla loro vita, però quando uno è divenuto assai vecchio, tutti i
suoi parenti si riuniscono, lo uccidono insieme con altri animali
domestici, ne fanno cuocere le carni e se lo mangiano. E questa è
considerata da loro la fine più bella; non si cibano invece di chi
muore per malattia, anzi lo seppelliscono, considerando una disgrazia
che non sia giunto all'età di essere sacrificato. Non praticano
l'agricoltura ma vivono di allevamento e di pesca, pesci ne trovano
tanti nel fiume Arasse. Sono bevitori di latte. Venerano il sole quale
unico dio e gli sacrificano cavalli in base alla seguente
considerazione: al più veloce di tutti gli dei offrono il più veloce
degli esseri mortali.
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